Il tema della sortita notturna nel poema epico – Ulisse e Diomede

   IL TEMA DELLA SORTITA NOTTURNA  -1 –

  Presentiamo, a partire da questo, una serie di brani famosi che trattano il tema della sortita notturna da parte di guerrieri che si recano nel campo nemico per svariati motivi. Ulisse e Diomede vanno nell’accampamento  troiano per spiare, per attingere informazioni. Ma, giunti là …    

                      Ulisse e Diomede

  Iliade, X, 350 -717 – Traduzione di V. Monti

Racchiusi nelle orrende arme gli eroi
Partîr, lasciando in quel recesso i duci.
E da man destra intanto su la viaSpedì loro Minerva un airone.
Nè già questi il vedean, chè agli occhi il vieta
La cieca notte, ma n’udían lo strido.
Di quell’augurio l’Itacense allegro
A Minerva drizzò questa preghiera:
Odimi, o figlia dell’Egíoco Giove,
Che l’opre mie del tuo nume proteggi,
Nè t’è veruno de’ miei passi occulto.
Or tu benigna più che prima, o Dea,
Dell’amor tuo m’affida, e ne concedi
Glorïoso ritorno e un forte fatto,
Tale che renda dolorosi i Teucri.
Pregò secondo Dïomede, e disse:
Di Giove invitta armipotente figlia,
Odi adesso me pur: fausta mi segui
Siccome allor che seguitasti a Tebe
Il mio divino genitor Tidéo,
De’ loricati Achivi ambasciadore
Attendati d’Asopo alla riviera.
Di placido messaggio egli a’ Tebani
Fu portator; ma fieri fatti ei fece
Nel suo ritorno col favor tuo solo,
Chè nume amico gli venivi al fianco.
E tu propizia a me pur vieni, o Dea,
E salvami. Sull’ara una giovenca
Ti ferirò d’un anno, ampia la fronte,
Ancor non doma, ancor del giogo intatta.
Questa darotti, e avrà dorato il corno.
Così pregaro, e gli esaudía la Diva.
Implorata di Giove la possente
Figlia Minerva, proseguîr la via
Quai due lïoni, per la notte oscura,
Per la strage, per l’armi e pe’ cadaveri
Sparsi in morta di sangue atra laguna.
Nè d’altra parte ai forti Teucri Ettorre
Permette il sonno; ma de’ prenci e duci
Chiama tutti i migliori a parlamento;
E raccolti, lor apre il suo consiglio.
Chi di voi mi promette un’alta impresa
Per grande premio che il farà contento?
Darogli un cocchio, e di cervice altera
Due corsieri, i miglior dell’oste achea
(Taccio la fama che n’avrà nel mondo).
Questo dono otterrà chïunque ardisca
Appressarsi alle navi, e cauto esplori
Se sian, qual pria, guardate, o pur se domo
Da nostre forze l’inimico or segga
A consulta di fuga, e le notturne
Veglie trascuri affaticato e stanco.
Disse, e il silenzio li fe’ tutti muti.
Era un certo Dolone infra’ Troiani,
Uom che di bronzo e d’oro era possente,
Figlio d’Eumede banditor famoso,
Deforme il volto, ma veloce il piede,
E fra cinque sirocchie unico e solo.
Si trasse innanzi il tristo, e così disse:
Ettore, questo cor l’incarco assume
D’avvicinarsi a quelle navi, e tutto
Scoprir. Lo scettro mi solleva e giura
Che l’éneo cocchio e i corridori istessi
Del gran Pelíde mi darai: nè vano
Esploratore io ti sarò: né vôta
Fia la tua speme. Nell’acheo steccato
Penetrerò, mi spingerò fin dentro
L’agamennónia nave, ove a consulta
Forse i duci si stan di pugna o fuga.
Sì disse, e l’altro sollevò lo scettro,
E giurò: Testimon Giove mi sia,
Giove il tonante di Giunon marito,
Che da que’ bei corsieri altri tirato
Non verrà de’ Troiani, e che tu solo
Glorïoso n’andrai. – Fu questo il giuro,
Ma sperso all’aura; e da quel giuro intanto
Incitato Dolone in su le spalle
Tosto l’arco gittossi, e la persona
Della pelle vestì di bigio lupo:
Poi chiuse il brutto capo entro un elmetto
Che d’ispida faína era munito.
Impugnò un dardo acuto, ed alle navi,
Per non più ritornarne apportatore
Di novelle ad Ettorre, incamminossi.
Lasciata de’ cavalli e de’ pedoni
La compagnía, Dolon spedito e snello
Battea la strada. Se n’accorse Ulisse
Alla pesta de’ piedi, e a Dïomede
Sommesso favellò: Sento qualcuno
Venir dal campo, nè so dir se spia
Di nostre navi, o spogliator di morti.
Lasciam che via trapassi, e gli saremo
Ratti alle spalle, e il piglierem. Se avvegna
Ch’ei di corso ne vinca, tu coll’asta
Indefesso l’incalza, e verso il lido
Serralo sì, che alla città non fugga.
Uscîr di via, ciò detto, e s’appiattaro
Tra’ morti corpi; ed egli incauto e celere
Oltrepassò. Ma lontanato appena,
Quanto è un solco di mule (che de’ buoi
Traggono meglio il ben connesso aratro
Nel profondo maggese), gli fur sopra:
Ed egli, udito il calpestío, ristette,
Qualcun sperando che de’ suoi venisse
Per comando d’Ettorre a richiamarlo.
Ma giunti d’asta al tiro e ancor più presso,
Li conobbe nemici. Allor dier lesti
L’uno alla fuga il piè, gli altri alla caccia.
Quai due d’aguzzo dente esperti bracchi
O lepre o caprïol pel bosco incalzano
Senza dar posa, ed ei precorre e bela;
Tali Ulisse e il Tidíde all’infelice
Si stringono inseguendo, e precidendo
Sempre ogni scampo. E già nel suo fuggire
Verso le navi sul momento egli era
Di mischiarsi alle guardie, allor che lena
Crebbe Minerva e forza a Dïomede,
Onde niun degli Achei vanto si dêsse
Di ferirlo primiero, egli secondo.
Alza l’asta l’eroe, Ferma, gridando,
O ch’io di lancia ti raggiungo e uccido.
Vibra il telo in ciò dir, ma vibra in fallo
A bello studio: gli strisciò la punta
L’omero destro e conficcossi in terra.
Ristette il fuggitivo, e di paura
Smorto tremando, della bocca uscía
Stridor di denti che batteano insieme.
L’aggiungono anelanti i due guerrieri,
L’afferrano alle mani, ed ei piangendo
Grida: Salvate questa vita, ed io
Riscatterolla. Ho gran ricchezza in casa
D’oro, di rame e lavorato ferro.
Di questi il padre mio, se nelle navi
Vivo mi sappia degli Achei, faravvi
Per la mia libertà dono infinito.
Via, fa cor, rispondea lo scaltro Ulisse,
Nè veruno di morte abbi sospetto,
Ma dinne, e sii verace: Ed a qual fine
Dal campo te ne vai verso le navi
Tutto solingo pel notturno buio
Mentre ogni altro mortal nel sonno ha posa?
A spogliar forse estinti corpi? o forse
Ettor ti manda ad ispïar de’ Greci
I navili, i pensieri, i portamenti?
O tuo genio ti mena e tuo diletto?
E a lui tremante di terror Dolone:
Misero! mi travolse Ettore il senno,
E in gran disastro mi cacciò, giurando
Che in don m’avrebbe del famoso Achille
Dato il cocchio e i destrieri a questo patto,
Ch’io di notte traessi all’inimico
Ad esplorar se, come pria, guardate
Sien le navi, o se voi dal nostro ferro
Domi teniate del fuggir consiglio,
Schivi di veglie, e di fatica oppressi.
Sorrise Ulisse, e replicò: Gran dono
Certo ambiva il tuo cor, del grande Achille
I destrier. Ma domarli e cavalcarli
Uom mortale non può, tranne il Pelíde
Cui fu madre una Dea. Ma questo ancora
Contami, e non mentire: Ove lasciasti,
Qua venendoti, Ettorre? ove si stanno
I suoi guerrieri arnesi? ove i cavalli?
Quai son de’ Teucri le vigilie e i sonni?
Quai le consulte? Bloccheran le navi?
O in Ilio torneran, vinto il nemico?
Gli rispose Dolon: Nulla del vero
Ti tacerò. Co’ suoi più saggi Ettorre
In parte da rumor scevra e sicura
Siede a consiglio al monumento d’Ilo.
Ma le guardie, o signor, di che mi chiedi,
Nulla del campo alla custodia è fissa.
Chè quanti in Ilio han focolar, costretti
Son cotesti alla veglia, e a far la scolta
S’esortano a vicenda: ma nel sonno
Tutti giaccion sommersi i collegati,
Che da diverse regïon raccolti,
Nè figli avendo nè consorte al fianco,
Lasciano ai Teucri delle guardie il peso.
Ma dormon essi co’ Troian confusi
(Ripiglia Ulisse), o segregati? Parla,
Ch’io vo’ saperlo. – E a lui d’Eumede il figlio:
Ciò pure ti sporrò schietto e sincero.
Quei della Caria, ed i Peonii arcieri,
I Lelegi, i Caucóni ed i Pelasghi
Tutto il piano occupâr che al mare inchina;
Ma il pian di Timbra i Licii e i Misii alteri
E i frigii cavalieri, e con gli equestri
Lor drappelli i Meonii. Ma dimande
Tante perchè? Se penetrar vi giova
Nel nostro campo, ecco il quartier de’ Traci
Alleati novelli, che divisi
Stansi ed estremi. Han duce Reso, il figlio
D’Eïonéo, e a lui vid’io destrieri
Di gran corpo ammirandi e di bellezza,
Una neve in candor, nel corso un vento.
Monta un cocchio costui tutto commesso
D’oro e d’argento, e smisurata e d’oro
(Maraviglia a vedersi?) è l’armatura,
Di mortale non già ma di celeste
Petto sol degna. Che più dir? Traetemi
Prigioniero alle navi, o in saldi nodi
Qui lasciatemi avvinto infin che pure
Vi ritorniate, e siavi chiaro a prova
Se fu verace il labbro o menzognero.
Lo guatò bieco Dïomede, e disse:
Da che ti spinse in poter nostro il fato,
Dolon, di scampo non aver lusinga,
Benchè tu n’abbia rivelato il vero.
Se per riscatto o per pietà disciolto
Ti mandiam, tu per certo ancor di nuovo
Alle navi verresti esploratore,
O inimico palese in campo aperto.
Ma se qui perdi per mia man la vita,
Più d’Argo ai figli non sarai nocente.
Disse; e il meschino già la man stendea
Supplice al mento; ma calò di forza
Quegli il brando sul collo, e ne recise
Ambe le corde. La parlante testa
Rotolò nella polve. Allor dal capo
Gli tolsero l’elmetto, e l’arco e l’asta
E la lupina pelle. In man solleva
Le tolte spoglie Ulisse, e a te, Minerva
Predatrice, sacrandole, sì prega:
Godi di queste, o Dea, chè te primiera
De’ Celesti in Olimpo invocheremo;
Ma di nuovo propizia ai padiglioni
Or tu de’ traci cavalier ne guida.
Disse, e le spoglie su la cima impose
D’un tamarisco, e canne e ramoscelli
Sterpando intorno, e di lor fatto un fascio,
Segnal lo mette che per l’ombra incerta
Nel loro ritornar lo sguardo avvisi.
Quindi inoltrâr pestando sangue ed armi,
E fur tosto de’ Traci allo squadrone.
Dormíano infranti di fatica, e stesi
In tre file, coll’armi al suol giacenti
A canto a ciascheduno. Ognun de’ duci
Tiensi dappresso due destrier da giogo:
Dorme Reso nel mezzo; e a lui vicino
Stansi i cavalli colle briglie avvinti
All’estremo del cocchio. Avvisto il primo
Si fu di Reso Ulisse, e a Dïomede
L’additò: Dïomede, ecco il guerriero,
Ecco i destrier che dianzi n’avvisava
Quel Dolon che uccidemmo. Or tu fuor metti
L’usata gagliardía, che qui passarla
Neghittoso ed armato onta sarebbe.
Sciogli tu quei cavalli, o a morte mena
Costor, chè de’ cavalli è mia la cura.
Disse, e spirò Minerva a Dïomede
Robustezza divina. A dritta, a manca
Fora, taglia ed uccide, e degli uccisi
Il gemito la muta aria fería.
Corre sangue il terren: come lïone
Sopravvenendo al non guardato gregge
Scagliasi, e capre e agnelle empio diserta;
Tal nel mezzo de’ Traci è Dïomede.
Già dodici n’avea trafitti; e quanti
Colla spada ne miete il valoroso,
Tanti n’afferra dopo lui d’un piede
Lo scaltro Ulisse, e fuor di via li tira,
Nettando il passo a’ bei destrieri, ond’elli
Alla strage non usi in cor non tremino,
Le morte salme calpestando. Intanto
Piomba su Reso il fier Tidíde, e priva
Lui tredicesmo della dolce vita.
Sospirante lo colse ed affannoso
Perchè per opra di Minerva apparso
Appunto in quella gli pendea sul capo,
Tremenda visïon, d’Enide il figlio.
Scioglie Ulisse i destrieri, e colle briglie
Accoppiati, di mezzo a quella torma
Via li mena, e coll’arco li percuote
(Chè tor dal cocchio non pensò la sferza),
E d’un fischio fa cenno a Dïomede.
Ma questi in mente discorrea più arditi
Fatti, e dubbiava se dar mano al cocchio
D’armi ingombro si debba, e pel timone
Trarlo; o se imposto alle gagliarde spalle
Via sel porti di peso; o se prosegua
D’altri più Traci a consumar le vite.
In questo dubbio gli si fece appresso
Minerva, e disse: Al partir pensa, o figlio
Dell’invitto Tidéo, riedi alle navi,
Se tornarvi non vuoi cacciato in fuga,
E che svegli i Troiani un Dio nemico.
Udì l’eroe la Diva, e ratto ascese
Su l’uno de’ corsier, su l’altro Ulisse
Che via coll’arco li tempesta, e quelli
Alle navi volavano veloci.
Il signor del sonante arco d’argento
Stavasi Apollo alla vedetta, e vista
Seguir Minerva del Tidíde i passi,
Adirato alla Dea, mischiossi in mezzo
Alle turbe troiane, e Ipocoonte
Svegliò, de’ Traci consigliero, e prode
Consobrino di Reso. Ed ei balzando
Dal sonno, e de’ cavalli abbandonato
Il quartiero mirando, e palpitanti
Nella morte i compagni, e lordo tutto
Di sangue il loco, urlò di doglia, e forte
Chiamò per nome il suo diletto amico;
E un trambusto levossi e un alto grido
Degli accorrenti Troi, che l’arduo fatto
Dei due fuggenti contemplâr stupiti.
Giungean questi frattanto ove d’Ettorre
Avean l’incauto esploratore ucciso.
Qui ferma Ulisse de’ corsieri il volo:
Balza il Tidíde a terra, e nelle mani
Dell’itaco guerrier le sanguinose
Spoglie deposte, rapido rimonta
E flagella i corsier che verso il mare
Divorano la via volonterosi.
Primo udinne il romor Nestore, e disse:
O amici, o degli Achei principi e duci,
Non so se falso il cor mi parli o vero;
Pur dirò: mi ferisce un calpestío
Di correnti cavalli. Oh fosse Ulisse!
Oh fosse Dïomede, che veloci
Gli adducessero a noi tolti a’ Troiani!
Ma mi turba timor che a questi prodi
Non avvegna fra’ Teucri un qualche danno.
Finite non avea queste parole,
Che i campioni arrivâr. Balzaro a terra;
E con voci di plauso e con allegro
Toccar di mani gli accogliean gli amici.
Nestore il primo interrogolli: O sommo
Degli Achivi splendore, inclito Ulisse,
Che destrieri son questi? ove rapiti?
Nel campo forse de’ Troiani? o dielli
Fattosi a voi d’incontro un qualche iddio?
Sono ai raggi del Sol pari in candore
Mirabilmente; ed io che sempre in mezzo
A’ Troiani m’avvolgo, e, benchè veglio
Guerrier, restarmi neghittoso abborro,
Io nè questi nè pari altri corsieri
Unqua vidi nè seppi. Onde per via
Qualcun mi penso degli Dei v’apparve,
E ven fe’ dono; perocchè voi cari
Siete al gran Giove adunator di nembi,
E alla figlia di Giove alma Minerva.
Nestore, gloria degli Achei, rispose
L’accorto Ulisse, agevolmente un Dio
Potría darli, volendo, anco migliori,
Chè gli Dei ponno più d’assai. Ma questi,
Di che chiedi, son traci e qua di poco
Giunti: al re loro e a dodici de’ primi
Suoi compagni diè morte Dïomede,
E tredicesmo un altro n’uccidemmo
Dai teucri duci esplorator spedito
Del nostro campo. – Così detto, spinse
Giubilando oltre il fosso i corridori,
E festeggianti lo seguîr gli Achivi.
Giunto al suo regio padiglion, legolli
Con salda briglia alle medesme greppie
Ove dolci pascen biade i corsieri
Dïomedéi. Ulisse all’alta poppa
Le spoglie di Dolon sospende, e a Palla
Prepararsi comanda un sacrificio.
Tersero quindi entrambi alla marina
L’abbondante sudor, gambe lavando
E collo e fianchi. Riforbito il corpo
E ricreato il cor, si ripurgaro
Nei nitidi lavacri. Indi odorosi
Di pingue oliva si sedeano a mensa
Pieni i nappi votando, ed a Minerva
Libando di Lïéo l’almo licore.

***

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2 risposte

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