Giorgio Celli, Alcune poesie
GIORGIO CELLI
Giorgio Celli ( Verona 1935 – Bologna 2011), laureato in Scienze agrarie all’Università di Bologna, è stato etologo, entomologo, scrittore naturalista, docente universitario, autore di opere teatrali e di programmi televisivi di carattere scientifico. È stato anche saggista e poeta, oltre che parlamentare europeo, manifestando impegno e passione in ogni sua attività. Ha fatto parte del Gruppo 63 in cui ha incarnato un tipo di poesia libera da schemi tradizionali e innovativa nelle strutture e nelle soluzioni metrico-linguistiche; e che ha spesso connotazioni surrealistiche e oniriche. Di poesia ha scritto, tra l’altro: Morte di un biologo, Bologna, 1969; Prolegomeni all’uccisione del Minotauro, Milano, 1972; Versiverdi, Mantova, 1994. In Percorsi, Mantova, 2006, sono raccolte tutte le poesie dell’autore.
*
I miei gatti si rincorrono
nelle soffitte della memoria.
Si tuffano nel miraggio dei pesci
in bottiglie d’acqua turchina
sigillate da tappi a corona
di un regno che non c’è.
Attraverso pomeriggi senza mattino,
giungono nella mia vita
guru sapienti
per offrirmi i loro saggi aforismi
e sparire nell’insonnia
che apre i suoi meandri interminabili
nelle terre degli anni che non tornano.
Stanno a guardia
della mia solitudine.
Con un silenzio eloquente
addolciscono le perplessità dei giorni
le paure remote della notte.
Le loro vibrisse sono i bilancieri
per ballare sulla corda tesa degli arcobaleni
che brillano nei loro occhi di crisolito e di fosforo.
Stanno in equilibrio sui sogni,
pronti a svanire
nelle tenebre dei loro passi felpati
vengono e vanno senza suono.
Ci sono, non ci sono
ci sono stati, ci saranno.
Il loro miagolio perdura nel tempo.
Viene da oltre il muro del giardino,
si accorda con il canto dei grilli
suona le corde dell’arpa siderale della neve.
Mi portano messaggi di pace
con un passero in bocca.
Salgono sugli alberi per toccare la luna
e ne scendono con le zampe impolverate d’argento.
Sulla porta della sera
fermano gli incubi.
Tutti i miei gatti sono stati
un solo gatto
che si muta, a poco a poco,
nel mio ritratto!
*
Lode al DNA
Lode a te
DNA
serpente
che risali a spirale
l’albero del tempo
pallottoliere dei noumeni
per computare l’algoritmo
della vita
sullo spartito del carbonio
coro a tre voci dei geni
nell’oratorio della cellula
tipografia clandestina
che stampi anatomie
sull’arcolaio delle forme
e subdole patologie
come bisturi nelle cliniche
dell’evoluzione
che hai scritto sul libro dell’eone
la storia fatta corpo dalle origini
senza volermi
hai sognato di me
me nell’ameba
me negli echinodermi
me negli pterodattili
me in quel remoto scimpanzé
che abitava un tempo sugli alberi
tu che governi l’uovo nel nido
e l’ovulo nell’utero
che fai danzare l’ape nel suo bugno
che hai suggerito a Platone
nell’età greca dei miracoli
quei Dialoghi
che tu hai scritto di suo pugno
tu che hai aperto un orecchio
alla sordità dell’universo
che hai dischiuso delle pupille
alla cecità siderale delle stelle
che hai ispirato
col ritmo del respiro
i poeti e con le nostre dieci dita
i primi matematici
che hai piantato nei mitocondri d’Eva
il seme di senape
della nostra umanità
che hai piegato il caso alla norma
l’informe alla forma
l’anomia all’identità
ti dobbiamo questa mano che scrive
con la penna o il computer
eredi della selce scheggiata
ti dobbiamo questa intelligenza
Pegaso che si impenna
tra la memorie e l’inferenza
tra il fossile e l’utopia
tra il mito e la scienza.
*
Allegoria del bosco
(1/7)
da tutte le caverne della terra
l’acqua irruppe oltre gli argini
strappò con le sue molli dita le compagini
dell’erba infranse il muro cavo delle canne
avvolse sciolse coaguli di fango
soffocò nel dolore dei capelli il salice
intrichi di radici fantasmi fradici di alberi
vide il guizzo di palpebra del fulmine
e il bosco saltò in aria sollevato dal bicipite dell’acqua
aspirato su dall’erosione scavato da morsi di correnti
naufragato tra frane e vortici
correva a fianco a fianco con le martore
su zattere di querce abitò alla deriva coi leoni
su emicicli di labili penisole sommerse emerse non
spaventò più lemure d’uomo i daini
e il cavallo impennato del diluvio lo
spinse tra le ninfee con gli scoiattoli
verso l’estuario del bosco: un eone al di là
di nuvole e di folgori: solo
nel prisma della notte sotto il nuovo avatar
degli astri seguì la stella cometa di una lucciola
in volo verso l’ararat: sulla cima ritrovò
l’arco (…)
*
La tigre
C’è chi pensa che la natura sia buona
e finisce nelle fauci della tigre
c’è chi pensa che la natura sia malvagia
e abbatte a colpi di fucile la tigre
c’è chi pensa che la natura sia bella
e mette nella gabbia dello zoo la tigre
c’è chi pensa che la natura sia utile
e si fa una pelliccia con la tigre
c’è chi pensa che la natura pensi
e seziona il cervello della tigre
c’è chi pensa che la natura sia in pericolo
e fa un’oasi di protezione per la tigre
c’è chi pensa che la natura sia Dio
e trova l’uomo nella tigre
c’è chi pensa che la natura sia opera di Dio
e dissocia l’uomo dalla tigre
c’è chi pensa che la natura sia natura
e diventa parente della tigre
c’è chi pensa che la tigre sia la tigre
e lascia in pace la tigre.
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