ULISSE
Inferno, Canto XXVI, vv. 85 – 142
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
132. poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
8 risposte
In questo stupendo canto, l’Ulisse dantesco si fa peregrino della conoscenza. La sua insaziabile voglia di penetrare l’ignoto lo porta ancora lontano dalla sua Itaca e dagli affetti più cari. Per lui “il viaggio” è un mezzo insostituibile di scoperta, una necessità inderogabile. E sa bene che, sovente, la conoscenza è dolore. E la conoscenza non si appaga mai di se stessa, ma si alimenta in un folle processo infinito della ricerca della verità. Mi permetto qui di riportare un commento in versi.
ULISSE
Non temi l’onda che t’infrange il fianco
e ti affidi alle stelle e alla tua mano,
mentre già urla, spumeggiante e bianco,
quel mare infido, per andar lontano.
L’anima che fu d’Ilio la rovina,
dopo il ritorno, ancor non appagata,
lungi ti spinge fuor d’ogni marina
là dove mente uman non è mai stata.
Itaca è persa. Invano i cari affetti
ti invocano smarriti dal passato,
tu ormai non odi; solitario aspetti
conoscer quel che già ti fu negato.
Gonfia la vela il vento ed urla il mare
e tu procedi invitto e fermo il core
all’ultimo orizzonte, ad afferrare
il vero, pur se il ver sarà dolore.
Ed una volta vinto e conquistato
l’estremo passo in collo alla bufera,
già agogni un altro sol, ché immaginato
nuovo tramonto hai già per nuova sera.
La voglia che rinserri dentro il core
mai pace ti darà; mai più fermare
potrà la corsa tua, né quell’ardore
che ad altra via ti spinge e ad altro mare.
Sempre ramingo andrai per nuovo porto,
più tormento provando, ognor più brutto
per l’alto mare aperto. Il sol conforto:
l’intatta voglia di conoscer tutto.
Quando ogni onda e ogni terra avrai passato,
insoddisfatto ancora, il tuo bisogno
a nuova meta spinto e incatenato,
ti farà naufragare dentro un sogno.
Grande poesia la tua, Lido, come sempre .
Bella la rima di Lido, epistolare, in seconda persona, che ridimensiona l’inaudito vigore oratorio e la prorompente forza drammatica del testo dantesco in un tono retrospettivo più raccolto e meditato.
E bellissima la “Circe” di Lidia, tutta irradiata di luce , sei volte evocata
(” Non mi abbagliò…”,
“fra i lucenti xanthòi”,
“Per te arsi d’amore”,
“E fu kairòs di folgorante luce”,
“fiaccole che diradano le cupe…”,
“Fiaccole ad ogni vento esposte ….”).
Uno dei momenti più celebri della Commedia, per l’eloquio vigoroso e la scolpitezza con cui viene rappresentato l’eroe omerico.
Queste due terzine ne sono il nucleo poetico:
……..
“né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore”
……
Sentiamo l’episodio recitato dal grande Carmelo Bene:
https://youtu.be/1xr4FjAEKdo
Grazie, Luciano…sono versi immortali. Sai che mi viene da pensare? Con questo mondo sottosopra…a parte le vite umane che vanno prima di tutto, questo si sa…ma te l’immagini se un disastro che non voglio nemmeno nominare distruggesse opere come la Commedia…i lavori di un Michelangelo, insomma queste cose, ma chi mai le potrebbe ridare alle eventuali generazioni sopravvissute…che il Cielo vegli su noi povera gente
Hai ragione. Sono capolavori immortali. Consacrati dal tempo e dalla Storia. Ma la scelleratezza e la disumanitá hanno già dimostrato di non conoscere limiti. Non resta che sperare
… al meglio.
Dante è Dante e un altro non ci sarà mai.
Ulisse…che dire di Ulisse!… umano e divino, combattuto tra due forze opposte e potenti : l’amore per la patria e la famiglia, e il bisogno di altri orizzonti, di sapere, vedere, toccare con mano, provare, scoprire.
Lo guardo da un punto di vista diverso : l’occhio di colei che lo amò e dovette perderlo…perché ogni donna che lega la propria vita a quella di un uomo ” diverso”, di un uomo che non si contenta del tran tran quotidiano ma deve andare oltre, verso altre frontiere sia che si tratti di viaggiare che di chiudersi in una stanza per studiare e cercare nuove strade in una qualsiasi scienza o arte, è destinata a ricoprire un ruolo secondario nella sua vita, ad attendere, e a non averlo mai per sé.
CIRCE
.
Non mi abbagliò la voce del tuo ingegno
e del nome che, eterno, per i cieli
porta sulle ali limpide la Fama,
ma la tua chioma bruna
che ti segnò e ti benedisse umano
fra i lucenti xanthòi.
Per te arsi d’amore, io, divina
che non sapevo, prima, che grandezza
è vincere il dolore e la paura.
Io, ammaliatrice, caddi nell’incanto
di te, mortale, che mi rifiutasti
per l’orgoglio e la gloria d’esser uomo,
per una donna sul telaio china.
E fu kairòs di folgorante luce,
e vi conobbi. Voi,
fiaccole che diradano le cupe
ombre dell’ignoranza, che si spingono
sulle cime del mondo e negli anfratti
del cuore in cui neanche la civetta
guida lo sguardo lucido di Atena.
Fiaccole ad ogni vento esposte, e fragili,
che sfidano i sentieri degli dei
e mille volte, spente, si riaccendono.
Mi si svelò al rifiuto del divino
la caparbia grandezza di una stirpe
che muore senza arrendersi.
.
Non perché mi fu imposto, ma per questo,
solo per questo io accettai di perderti.
“… la caparbia grandezza di una stirpe che muore senza arrendersi”. Sì, questa è la nostra grandezza e la nostra condanna. Ulisse è un poco in ognuno di noi.
Bella poesia!