Come si cambia  

 

Pasquale Balestriere
su Giovanni Marradi 

All’età di quattordici anni, studiando in quarta ginnasiale argomenti di stilistica e letteratura, lessi i seguenti versi, posti ad esempio della figura metrica dell’elisione:

Ahi l’ampia terra è tutta un camposanto,
un camposanto gelido e solenne!
Per me, o sorella, nevica soltanto
su le tue carni e sul tuo cor ventenne.” (Marradi)

Questi versi che, per motivi personali e familiari,  mi piacquero subito e imparai immediatamente a memoria insieme con il nome del loro autore ( come del resto molti altri versi dello stesso ed anche di altri autori inseriti in quel libro di stilistica[1]) mi accompagnarono -naturalmente in buona e anche più allegra compagnia- per tutta la mia giovinezza, nella quale incontrai altre poesie di Giovanni Marradi (Labronio). Da docente, poi, ampliando e  approfondendo le mie conoscenze letterarie, lessi alcune raccolte poetiche (Canzoni e fantasie,1883;  Ricordi lirici,  1893) di questo autore livornese (1852 – 1922), molto prolifico e carducciano fino al midollo (senza che tanta stima fosse ricambiata da parte del Maestro);  da questa lettura, più ampia e articolata- il Marradi uscì ridimensionato, e di parecchio,  nella mia considerazione, avendo io riscontrato miglior mano poetica e maggior sincerità  principalmente nelle poesie intrise d’affetti familiari e davvero poco nel resto, fatta eccezione per la notevole  perizia versificatoria. (P. B.)

Ed ecco la poesia che contiene la strofa “galeotta”.

                    ***

 

            NEVICATA 

Danzano i fiocchi dilatati e stanchi
su le deserte vie della città,
come una ridda di spiriti bianchi
ch’escon dal freddo dell’eternità.

Candido il monte e rigido sovrasta
nella sua gravità monumentale….
illusioni, solitudin vasta,
com’è triste su voi l’ombra invernale!  

La piazza austera ove il silenzio incombe,
coi tetti e il tempio che biancheggian su,
sembra un recinto di marmoree tombe,
il recinto, o sorella, ove sei tu.

Ahi l’ampia terra è tutta un camposanto,
un camposanto gelido e solenne!
Per me, o sorella, nevica soltanto
su le tue carni e sul tuo cor ventenne.

Ahi per la tua gentil pallida testa
la pietra diaccia è un perfido guancial. ..
illusioni, solitudin mesta,
com’è fredda su voi l’ombra invernal!

                          (G. Marradi, Intima storia)

 

Postilla: a mio parere, se l’autore l’avesse chiusa alla penultima strofa, nessuno avrebbe perso nulla. L’ultima quartina è solo un ampliamento –retorico e fin troppo enfatico- della precedente, di ben altro respiro.

 

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[1] Giovanni Federico, Stilistica e letteratura, Decima edizione, Federico & Ardia, Napoli, 1956, p. 112

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4 risposte

  1. Caro Pasquale, ti confesso che non mi riesce di trovare l’elisione in quella strofa che tu porti ad esempio. Semmai trovo un’apocope in quel “cor”, apocope che qualcuno, non ricordo, mi sconsigliò vivamente di usare quando intrapresi la mia carriera poetica, in quanto figura appartenente al passato. Tuttavia qualche volta mi scappa e non solo in quelle frasi di uso comune dove è obbligatoria come buon giorno ecc. ecc. ma anche in altre occasioni per eliminare una sillaba dal verso. E pensare che qualche scrittore della domenica usa proprio il troncamento per rendere – secondo lui – poetico il suo testo.

    1. Elisione per dire sinalefe. Non sarebbe del tutto corretto, perché la prima richiede l’apostrofo, la seconda no; la prima elimina, la seconda fonde. Però diversi autori di manuali di metrica usano indifferentemente le due forme.
      Ahi l’ampia terra͜͜͜͜͜͜͜͜‿ è tutta‿ un camposanto,
      un camposanto gelido‿e solenne!
      Per me‿ o sorella, nevica soltanto
      su le tue carni‿e sul tuo cor ventenne.

  2. Delle cinque strofe la quarta, Pasquale, quella che piace a te, è sicuramente la più riuscita.
    Tale la rendono la precisa scansione ritmica e l’originalità dell’immagine conclusiva ( “nevica soltanto su le tue carni e sul tuo cor ventenne”).
    Una sola troncatura (“cor”) ben inserita nell’andamento prosodico.
    Alterne le altre quartine delle quali la peggiore è l’ultima, con ben quattro apocopi di cui si salva solo la prima (“gentil pallida testa”) perché “solitudin” ( oltretutto ripresa dalla seconda strofa) è orrenda e altre due
    ( guancial, invernal) sono evidenziate ulteriormente dall’essere in rima.

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