GIANNICOLA CECCAROSSI
Beati qui non viderunt et crediderunt (Gv. 20, 29)
Ibiskos Ulivieri, Empoli, 2022
PREFAZIONE
di Pasquale Balestriere
Chiunque si accinga a entrare in contatto con un’opera di poesia – attento a segni, atmosfere, suggestioni e allusioni – non può che accostarvisi in punta di piedi e con il rispetto che si deve a questa forma d’arte nobilissima. Tanto più se, come nel nostro caso, il titolo ha valore fortemente evocativo e le citazioni in epigrafe, tutte in latino, cospirano a creare un’aura di sacertà, essendo tratte da un testo come il Vangelo di Giovanni, che funge da occasione, riferimento e stimolo ai versi di Giannicola Ceccarossi, effusi ex imo corde in ritmi misurati e musicali.
Dunque un versetto del Vangelo di Giovanni in epigrafe a ogni lacerto poetico dà la stura al canto; il cuore sensibilissimo del Nostro è in ascolto, attende solo la benefica provocazione della parola, il mirabile lògos che dice e traduce, scopre e rivela. La “parola” nella sua formidabile polisemia, nella sua intatta potenza comunicativa soccorre il poeta, gli consente di manifestare, con la sobrietà a lui consueta, un’interiorità sofferta e dolente – tuttavia mai priva della fiaccola della speranza- in cerca di metafisiche certezze, di un ubi consistam spirituale o, se si vuole, di una fede rasserenatrice, finalmente al riparo da fastidiose incertezze e dubbi laceranti: “ La verità? / Vorrei conoscerla / e liberarmi da questo peso / che mi soffoca fin da bambino” (Padre). Ne consegue una situazione di incertezza e di solitudine: “E io sono solo / con i miei anni incerti” (Credere!); “Ho ripreso a camminare sempre più solo / Sempre più solo” (È una pena che mi opprime). E a mano a mano che si avanza nella lettura di questi versi, si concretizza a più chiare lettere un colloquio aperto, totale, fidente tra il poeta e il Padre, ossia l’Essere Supremo; un colloquio che si fa preghiera, e anche supplica: “Adesso / a un passo dall’abbandonare quel mondo / per un tratto futuro / domando con la mia implorazione / -povera e impacciata- / che si spalanchi quella porta stretta”, che è la porta della salvezza.
Beati qui non viderunt et crediderunt è opera di poesia solo apparentemente semplice e lineare. Intanto gli escerti evangelici posti in testa ai singoli brani poetici sono citazioni di parole di Cristo, che seguono il diagramma della sua vita pubblica, sottolineandone vicende e passaggi fino alla morte in croce, e che innescano la riflessione/risposta del poeta, che però è rivolta al Padre, non al Figlio: sicché l’articolazione e la convivenza di queste tre presenze all’interno dell’opera obbedisce a criteri stabiliti dall’io poetante, che trova il modo di accostare la propria condizione – sia pure per antitesi- a quella del Figlio che si appressa al momento del sacrificio. Il Padre, però, è comune, figura d’amore nonostante le corte vedute umane.
Va peraltro notato che la drammatica condizione che vede il poeta brancolare tra dubbi, timori e incertezze, senza approdare a risultati concreti e probanti, si era già annunciata in opere precedenti, tuttavia in forme e modi meno netti ed evidenti. Ora la ricerca della verità si fa più urgente e affannosa, più sofferta e dolente. E ne attesta la necessità, senza equivoci, l’ultima poesia della silloge che è poi quella eponima: “Beati coloro / che hanno avuto il dono della fede / -esseri prediletti- / perché otterranno / la grazia e la vita eterna” ( …beati qui non viderunt).
Ecco, il titolo ( che peraltro assolve mirabilmente il suo compito di significare in estrema sintesi l’argomento trattato): Beati qui non viderunt et crediderunt, cioè beato chi ha fede, che crede senza bisogno di vedere, chi è capace di affidarsi completamente a Dio e di abbandonarsi totalmente al suo volere. Purtroppo il poeta, sospeso tra il qui e l’oltre, sente l’impossibilità, o quanto meno l’enorme difficoltà, di un attingimento definitivo di una condizione di grazia; sicché quasi per compensare quello che egli considera un amaro insuccesso, cerca – nòstos salvifico – conforto e rifugio nel mondo sensibile, quello della natura con le sue mille forme di vita e la dovizia ubriacante di suoni, colori, profumi, presenze. In questo universo, sì, egli sarebbe capace di annullarsi, di leopardianamente naufragare. E proprio qui sta il dramma di chi cerca la fede, di chi tenacemente la persegue, senza raggiungere il suo obiettivo; qui il senso di colpa, dilaniante; qui il dramma, mai urlato, che attraversa il libro e lo scuote dal profondo.
Chi legge i versi di Giannicola Ceccarossi, così densi di quello che Montale chiamava il “travaglio della vita”, vi scoverà senza fatica, come dote più evidente, una severa e assorta moralità e una tensione spirituale che va ben oltre la pura e semplice religiosità; e vi troverà pure una densa, fervida e ricca humanitas che tutto ingentilisce, eletto viatico e stigma di vera nobiltà, non solo poetica.
Pasquale Balestriere
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