C. BARONI – P. BALESTRIERE
E a te rispondo
(Canti quasi amebei)
*
In proposta di lettura alcuni brani di “E a te rispondo”, poemetto quasi amebeo scritto da C. Baroni e da P. Balestriere in testimonianza di amicizia (non solo poetica), pubblicato in tiratura limitata e in edizione bilingue (italiano- spagnolo) da Benilde, Siviglia, 2021.
Il discorso poetico è reso compatto e senza interruzioni dal fatto che l’ultimo verso di ogni brano diventa il primo del brano successivo.
*
P. Invisibili agli occhi della gente
mai non saranno, amica, i versi tuoi.
Avranno vita, io spero, vigorosa,
saranno canto che torna novello
per cuori che ancor fremono all’amore
e alla bellezza e grati si disciolgono
al corso esistenziale.
Eppur mi è duro credere
al canto eterno dei poeti in questa
piena miseria umana e culturale
che tiene il nostro secolo. Vi annegano
gli spiriti sensibili
o a malapena vivono. Una brevee vaga eternità il destino diede
in sorte alla poesia e uno sparuto
corteo d’amanti. E la sopravvivenza
è spesso frutto
del caso più che del valore. Eppure
noi continuiamo, cirenei del verso,
a raccontare storie di dolore,
di grazia e di bellezza, a dir dei giorni
cui ci diede la corsa folle d’uno
spermatozoo che prima d’altri giunse
a coglier l’uovo.
Perciò -fortuna o caso o forse fato-
siamo deposti in mezzo a ciò che dici
imbroglio colossale di promesse
mai mantenute.
E tuttavia
quel che dobbiamo, e possiamo, faremo.
E già ci attende un nuovo e pieno giorno
di fatica e d’amore.
*
C. E già ci attende un nuovo e pieno giorno
di fatica e d’amore. Chissà se vera
sarà la tua speranza o previsione
o meglio augurio ad un futuro scrimolo
di questo tempo che si sfalda in fretta
lasciando, a volte, neanche un po’ di cenere.
Ognuno affronta in vario modo il vivere
– la fede spesso è viatico da mordere
se più aspra diviene la salita –
e c’è chi inganna con gli ex-voto e i ceri
l’arpeggio stridulo che egli ebbe in sorte,
un flagellarsi preso come dono.
Ma io non son così, impreco, grido
cerco il perché di quelle differenze
che qualcheduno ci largì dall’Alto.
Trenta gennaio è oggi
uno dei giorni detti della merla
-i tre più freddi dell’intera annata-
nel quale nacqui, alta la neve a falde
era su piante rese silenziose …
Nel mio delirio di compensazione
ho sempre detto di essere un arcangelo
punito per l’orgoglio suo immodesto
precipitato dagli eterni cieli
ed ero invece
una bianca uccelletta infreddolita
andata a ripararsi in un camino.
Ecco la metamorfosi, il mutare
da bianco a nero pure il mio destino.
Niente di eterno, di grandioso, un vile
cambio di tinta per quella fuliggine
che presagiva il mio futuro inferno.
Ma mi rimane il canto, il gorgheggiare
all’alba quando il cielo si scolora
su quella nota sola in vari toni
che è lamento, trenodia, assolo
dell’anima scontenta
di chi, malgrado tutto, percepisce
di essere parte di un disegno grande.
È proprio forse questo
il riscatto, il compenso, il solo dono
che mi fu dato all’alba del mio giorno
di fatica e d’amore qual tu dici.
*
P. Quell’alba che richiami nei tuoi versi
e che si fa compagna del tuo canto
è seme d’ogni giorno, certa gemma
di quadranti celesti, e d’ogni vita.
Alba per dire inizio, universale.
Voce d’acqua, azzurrina,
che porta lapislazzuli nei campi.
Ma primavere impossibili brama
lo spirito mio serrato
in un corpo provetto.
Non ama
le nebbie dell’autunno
né il ciocco al focolare
né la grazia solenne
del fuoco che pacifico riscalda.
Sempre ribelle, sempre insoddisfatto
chiede requie talvolta alla ragione,
cerca saggezza, sperimenta vie
che sazino la sete che divora:
sete di vita piena senza fine,
di bella vita pronta a dirci addio.
E basta, ora ritorno al quotidiano.
Mi restringo alla terra, pianto viti,
inginocchiato come alla preghiera
(e spero che Natura
faccia da buona madre, il mio l’ho messo);
e versi scrivo per l’amica Carla
che mi richiama al duetto di poesia.
Oggi è per me giornata di cellaio,
di nettarei travasi.
Mi darò agli aromi del mio vino.
*
C. Se ti darai agli aromi del tuo vino,
io, all’opposto, guarderò le bozze
dell’ultimo mio nato – un po’ per dire –
ché le mie gestazioni si interrompono
riprendono, si intrecciano ed infine
più non ricordo quale sia la prima.
Ma vale il gioco, mettere le tessere
a tanti puzzle appena incominciati
o meglio a dei mosaici colorati
che cambiano, avanzando, le cromie.
I nostri quotidiani passatempi
hanno diverso lavorio, s’intreccia
questa stagione all’umorale assetto
a darci spinte nuove o nuovi afflati.
E l’oggi ha un vento aspro che a ondate
sibila astioso tutto il suo scontento.
Ma pure c’è un sole assai gagliardo
a far brillare le foglie delle piante.
E la magnolia è tutto un luccichio,
un favillare intenso e ad ogni soffio
sembra incendiarsi in piccoli frammenti.
Rammenta un poco l’abete di Natale
ma guizza allegra come una creatura
che non riguardi il mondo vegetale,
una danzante ninfa ammaliatrice
portata nel giardino dal libeccio.
Quante presenze intorno a noi, celate
ai nostri occhi ciechi
di talpe che scavano nel buio
solo la propria tana e van cercando
ciò che nell’immediato a loro serve.
E sono forse io una di questi
esseri dalla vista troppo corta,
cresciuta nei tortuosi labirinti
di strade strette, scure, dove il sole
s’affaccia in alto un poco nel mattino.
Tu invece vivi
alla luce splendente dei tuoi campi
con l’oro dei limoni e il bianco fiore
in primavera della falanghina,
uno smeraldo l’isola
che si tuffa nel blu della marina.
Ecco cosa respiri, cosa odori
da quella terra
che nel profondo si nutrì di fuoco
esalando nel cielo i suoi vapori.
E infin corrotta meno del mio suolo
dove i neon proiettano alla sera
la falsità di uno splendore morto
a te lei offre, madre protettiva,
altre presenze di boschiva specie
a saltellarti intorno, a darti aiuto
quando, supremo dio, lavori i campi.
Così ti vedo dentro la mia mente
la lontananza aumenta la magia…
E se davvero ognuno è solamente
quello di cui si nutre
molto diversi siamo e lo sappiamo.
*
P. Molto diversi siamo e lo sappiamo:
tu scrivi versi prodiga, io avaro
attendo la mia musa.
Eccola che rasente
un muro va indolente. La raggiungo
(fa finta d’ignorarmi),
l’afferro e “Vieni
a servirmi, Carla ha fretta, ché teme
della sua vita e vuol finire il libro,
il nostro libro”. Quieta
mi accorda proprio come un pianoforte
e s’aprono visioni: io mi rivedo
alto sul ronchio che sporge all’abisso
a seguire la fuga disperata
del merlo e il volo saettato del falco
fisso alla preda
e il fischio rotto in acre crocidìo.
La voce tranquilla del padre
occhi verdi e sereni
all’opera dei campi m’invitava.
E nel silenzio sentivo levarsi
suoni d’antichi coloni alla zolla
piegati che dicevano parole
fenicie o greche
e anche latine; li vedevo adunchi
svolgere gesti di fatica, uguali
sempre, quelli che oggi pure mi annodano
le mani e mi costringono al pensiero.
E spesso alla poesia.
Ma il padre come altri
già da un pezzo è sparito dalla terra,
vive dall’altro lato della vita,
dismesso il corpo. E, solo, nei miei campi
parlo calmo con gli alberi e le viti.
*
C. Anch’io parlo ai gerani e al rosmarino:
dicono che crescan meglio, che l’affetto
aiuti pure il mondo vegetale.
Chissà se è vero o sono fantasie
nate così alle nebbie mattutine
quando a te sembra ti sentire ancora
voci lontane di coloni, e il padre
rivedi accanto al muro a secco o all’olmo.
Vari scenari ha avuto la mia storia:
il paese in cui nacqui, sconosciuto,
San Biagio dove Pippo1 mitragliava
a notte fonda il ponte di Bastia,
la villa dello zio a Moncalieri
quella che fu della Bela Rosin2
la moglie di Vittorio Emanuele,
e poi le quinte grigie di Ferrara
un pozzo bianco in un cortile angusto.
Ed ho cambiato ancora, il mio quartiere
adesso ha il girotondo quotidiano
della squadra antidroga – i cani fiutano
ed irrequieti abbaiano con rabbia – ,
la camionetta verde dell’esercito,
i poliziotti vestiti da clochard…
La diaspora così dei miei affetti
si allarga in altri luoghi
sorvola monti, tracima dalle acque.
E il diapason del cuore è affievolito
e non gli basta più una nota sola
a consolarlo in tremolìo di stelle.
Forse qui ci vorrebbero
le trombe cupe dell’Apocalisse
oppur bisognerebbe, invece che
discorrere con loro, maledire
– come per il basilico – le piante
per riacquistare una serena pace.
1 Nella seconda guerra mondiale erano popolarmente chiamati “Pippo” gli
aerei da caccia che, per conto degli Alleati, compivano incursioni notturne nel
Nord d’Italia.
2 Così era chiamata in piemontese Rosa Vercellana, moglie morganatica del
primo Re d’Italia Vittorio Emanuele II di Savoia.
*
P. Per riacquistare una serena pace
solleva, amica mia, in alto il cuore,
scaglialo verso il cielo, più del mare
profondo, più d’ogni terreno anfratto.
È peso di natura che ci opprime,
perché noi siamo fango che alla luce
unì per gioco un dio o forse il caso.
Ma titano è il poeta che del carcere
della materia infrange i ferri e vola
spirito azzurro a più leggeri esilî.
Mi dici di più luoghi che hanno visto
scorrere la tua vita non felice.
Me un solo luogo m’ha tenuto, Ischia,
isola di vulcani e terremoti
che hanno falciato uomini a migliaia.
Bella, però. Si effonde nei precordi
per penetrare fino in fondo all’anima.
Inàrime, Aenària, Pithecùsa
(Scherìa, Terra Promessa, Paradiso?)
vi pasce la ginestra, ha polle d’acqua,
cuore di fuoco e rutilante il sole.
Donna flessuosa, si adagia nel mare,
spiega i suoi canti alati di sirena.
Ti abbraccia, ti soggioga, le appartieni.
Per i miei padri a me diede la vita,
e campi e piante e voce di poesia.
E anche se spesso trema e fa tremare
io non l’ho mai lasciato questo scoglio
(così la nostra terra noi diciamo)
per non perdere il cuore.
*
C. Per non perdere il cuore – come dici –
dell’Ischia tua scoglio di fuoco e lave.
Ferrara invece nacque da palude,
ribolle l’acqua al fermentar dell’alga
imputridita, l’anossia dell’onda
rilascerà scaglie di torba al sole
quando mill’anni dopo scaveranno.
Così è stato in questa fossa posta
un po’ più sotto il limite del mare,
eppure l’Appennino
cresce alla base e l’alza piano piano
ma è sempre sabbia quella che prevale
venata da madrepore rosate,
e il clinton
l’unica vite che allignò nel suolo.
La nostra terra è avara, la fatica
la rende produttiva ma diverse
ora le mete che la gente sogna.
Il mondo gira e cerca idoli nuovi,
altre esigenze inventa, altri bisogni.
Non crede più in un Dio liberatore
da tutti i mali, il Paradiso è in terra
alle Maldive, alle Seychelles o in qualche
viaggio costoso, sempre più costoso.
Il dopo
è l’ultima frontiera di coloro
che niente hanno mai avuto in questo mondo
il riscatto dal nulla, ricompensa
per chi ha vissuto senza ribellarsi
la schiavitù di un’esistenza vuota.
E crede, mulo con il paraocchi,
di aver viaggiato tanto mentre è stato
sempre intorno al frantoio il suo cammino.
Indulge la memoria al Quando c’era
sui sorpassi del tempo – lune chiare
scalfirono a ritroso marmi bianchi –
per darsi forza a un vivere bugiardo
ma adesso tutto avviene troppo in fretta
pietre miliari
si arrendono alla cenere dell’ieri
confuso col presente, con quel tanto
che orma non avrà, simili troppo
i ripetuti formicai dei fatti.
E stiamo andando, insetti privi d’ali,
senza una meta, senza un ideale
con il carniere delle date vuoto
ad essere gli anonimi soldati
della guerriglia dell’ordinarietà.
E se qualcuno, immemore, combatte
milite ignoto in avamposti arditi
chissà se troveranno la piastrina
per elencarlo ai bordi della storia.
Ecco, Cassandra io, prevedo il peggio
gli occhi ormai stanchi da velata nebbia
eppure, come te, amo la terra
che mi accolse bambina, che mi fece
guerriera alle sue sponde di corallo
e piango per il rapido degrado
piango il disfarsi della civiltà.
C. Baroni – P. Balestriere
***
7 risposte
Grazie, Pasquale, dell’omaggio. Ti ho letto e mi sono letta volentieri.
Questo lavoro l’ho letto tutto…un po’ di tempo fa 🙂 due poeti degni di questo nome, una più brava dell’altro e l’altro più bravo dell’una !!! Un’opera che vale la pena conoscere, una lettura piacevole, scorrevole , che non ti stanca mai. Complimenti a entrambi.
Un bel dialogo di botta e risposta. Un confrontarsi di due vite, di due ambienti, di due protagonisti che avvertono il trascorrere inesorabile di un tempo che corrode valori, muta speranze, ferisce i cuori. Eppure nell’alternarsi di sensazioni e di affetti sgorga limpido e puro, sincero e incontaminato, l’affetto per la propria terra e la propria storia, diversissima l’una dall’altra e lontana, ma accomunata e custodita nello scrigno di una poesia che nobilita e arricchisce. Bravi!
La ripresa al primo verso della nuova strofa del verso finale della strofa precedente dell’amico-amica, è una trovata singolare, un espediente letterario geniale, un delizioso, alternato e insistito rendez-vous poetico fra due persone sensibili e talentuose che, sperimentando una pregiata facoltà comunicativa, trovano infine una straordinaria sintonia.
In questo poemetto dialogante Carla e Pasquale, tanto dal punto di vista letterario che da quello umano, danno il meglio di sé.
Due sorprendenti ritratti interiori che nell’avvicendarsi si completano offrendo suggestive sfumature.
Ringrazio di cuore gli amici per i graditi commenti che in breve rendono gli elementi fondanti della silloge.
Amici carissimi, grazie infinite per le lodi ma, perdonate la mia poca modestia, credo che questa volta ce le siamo meritate. Questo poemetto a due voci che avevo ideato tanti anni or sono sotto tutt’altra veste- doveva essere una corrispondenza fra due innamorati – ha trovato finalmente realizzazione con Pasquale che si è prestato al gioco rispondendo con una certa celerità rispetto ai tempi biblici con cui realizza tutti i suoi lavori. E poiché per noi poeti della domenica lo scopo maggiore è di divertirci questo libretto ha centrato l’obiettivo riempiendoci di soddisfazione.
Quindi grazie ancora a tutti voi, in particolare ad Assunta che è ritornata dopo tanto tempo su questa pagina.