CARLA BARONI
Note biobibliografiche
Carla Baroni, il cui cognome completo è Baroni Parmiani, è nata a Cologna Veneta in provincia di Verona. Ben presto, però, si è trasferita a Ferrara dove tuttora vive e dove ha compiuto tutti gli studi che si sono conclusi con due lauree, una in Scienze matematiche e l’altra in Giurisprudenza. Ha insegnato matematica in diverse scuole secondarie. Ha cominciato a scrivere poesie a tredici anni, ma ha iniziato tardi a partecipare attivamente ai concorsi letterari ricevendo molteplici riconoscimenti sia per l’edito che per l’inedito alcuni dei quali molto importanti come il primo premio al “Libero De Libero”, al “ Caput Gauri” e più volte al “Pietro Niccolini” che consacra i letterati ferraresi. Fa parte anche dell’Italian Poetry Association che riunisce i poeti più significativi dal novecento ad oggi.
Alla sua poesia è stato dedicato per intero il n.74 di Lettera in versi (Bombacarta) e la rivista Nuova Tribuna Letteraria le ha riservato alcune pagine nel numero 151 dell’anno XXXIV.
È stata citata anni or sono nella trasmissione Farenheit di RAI 3 quale “La sensibilissima poetessa Carla Baroni è fra i tre migliori scrittori di Ferrara”.
Ha pubblicato oltre quaranta libri tra poesia e prosa e sta per uscire l’ultima sua silloge “Ombre di luce” con prefazione di Lido Pacciardi.
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La sciarpa
Dovrei forse fermarmi adesso che
già troppo impicciolito è il mio gomitolo
e la gugliata è corta ed anche l’ago
ha punta arrotondata dal gran uso.
Ma io continuo ancora a ricamare,
la vista è indebolita, è l’esperienza
che sa supplire a quello che non c’è.
Il tatto sente il ruvido del lino
e conta i fili e poi cosa m’importa
se un punto è po’ più lungo, se un contorno
ha qualche inesattezza, è l’ordito
di queste fantasie che resta impresso
su questa tela mia, la lunga sciarpa
che conta avvicendarsi di stagioni.
Alcune già scarnificate all’osso,
il tempo forse lì non è esistito,
più turgide le altre con il segno
rimasto impresso ancora di ferite
coperte da manciate di coriandoli
perché non risultasse la mia pena.
Han tessere di seta, hanno le lane
a disegnare un mazzo di colori,
le tinte tutte dell’arcobaleno,
cromie in scala o messe poi a contrasto
di queste mie emozioni che anche ora
van variegando il grigio all’esistenza.
Non ditemi
che il mio sipario adesso sta per scendere
che è inutile affannarsi ad azzurrare
un orizzonte che sfarina nebbie.
Io ancor continuerò a ricamare
e quando l’istante ultimo del viaggio
avrà tolto la seta dalla cruna
prendete questa sciarpa ed appendetela
sull’albero maestro a ricordare
quella che ero a chi mi volle bene.
*
A mia madre
Ed ora se ti scrivo forse è per dirti
le cose che non seppi dirti mai,
quegli attimi d’incanto lievi come
le bolle di sapone d’un bambino
e che come le bolle basta un soffio
per frantumarli in schegge di rugiada.
Vibra il silenzio di ricordi come
il vertice dell’albero nel vento.
Chissà se i miei ricordi son gli stessi
dei tuoi, se son gli stessi istanti
quelli che ci commossero rimasti
imprigionati nella nostra mente
sepolti in mezzo a tanti, pronti a emergere
dal fondo degli abissi quale alga
che immemore si dondola nell’onda.
Basta un profumo, un grido, uno stormire
più forte delle fronde sopra il ramo
perché il ricordo torni e ci riporti
ad altri tempi, ad altra vita quella
così lontana che non sembra vera
e che neppure, quindi, ci appartenga.
E tu sei sempre lì in queste immagini
più viva di quanto ora non sia
l’immagine riflessa nello specchio
ma forse non è un attimo che vedo
bensì le situazioni tutte uguali
di gesti ripetuti in un rituale
sedimentato a strati dentro l’occhio:
tu che scrivi nella cucina scura
tra la bottiglia d’olio e la saliera,
tu che curi i gerani alla finestra
dalle inferriate alte, una prigione
all’infinita tua voglia di spazio….
Com’era piena di colori allora
la tavolozza della vita. Adesso
ho pulito i pennelli e grigia è l’acqua
come il sorriso tuo che già si spegne
giorno per giorno accanto alla mia mano
che una carezza, una carezza sola
ti fa per dirti “ancora, ancora t’amo”.
*
Non so se questi miei versi d’ottobre
Non so se questi miei versi d’ottobre
voleranno nel vento quali foglie
già seccate sul ramo o dentro ai tini
si tufferanno a dar sapore al vino
quale che sia dolce od invece amaro
fermo o frizzante o come l’acqua chiara
che mandi giù senza pensarci e infine
ti ritrovi la testa che ti gira.
Son versi maturati in più stagioni
come i fiori d’autunno al rosmarino
rimasti in boccio fino a primavera
per poi riaprirsi al primo caldo sole.
Hanno patito il gelo e la calura
la grandine, la pioggia e pure il soffio
freddo del Nord, quello che non perdona.
Eppure sono qui, forse stentati
o forse zoppicanti come chi
troppi insulti ha subito nel suo viaggio,
a dire al mondo con sommessa voce
del mio terreno contrastato esistere.
*
È tempo di lasciare la fatica
È tempo di lasciare la fatica
e arrendersi all’onda del presente
come la foglia che si secca al ramo.
Il cono superiore alla clessidra
si è già svuotato molto della sabbia
però quella che resta ha le festuche
rubate al guscio vuoto di conchiglia
e manda lampi nuovi, ha un suo fulgore
che non vedemmo, ciechi, al troppo sole.
Oh questa età che ormai sembra smarrita
nei vicoli percorsi della vita
ha vie ignorate, ha viottoli nascosti
quelli che tralasciammo per quell’erta
che s’annegava in cielo tra le rondini
e vi trovammo invece cardi e ortiche.
Ora nell’erba alta c’è la viola
o la piumetta ad embrice di spiga
e vi respira quel bisbiglio antico
che sa d’infanzia e delle cose buone
che furono all’inizio della storia,
la nostra storia con i buchi neri
di quell’inesplorato essere vivi.
*
Il canto di Saffo
Sul mare albeggia e densi di vapori
salgono i flutti a questa roccia bianca
ma il salso aroma mi risveglia e viva
sento la linfa scorrermi nel petto.
Come pianta d’ulivo o d’oleandro
di fico o passiflora aggrovigliata
io suggo umori dalla terra bruna
e li trasformo in fiori e dolci frutti
che dono poi a tutti a piene mani.
Sono una donna dalle molte vite.
Cimoli di lavanda e rosmarino
svolano odori dai cespugli a fiocco
gemmando semi per i miei cassetti.
E van gli uccelli a farmi serenate
tra gli strobili d’oro dei pinastri
o nel fogliame porpora del rovere.
Caro Faone levati di torno
ingombrante presenza non più amata
e sospirosa per dimenticarti
da Leucade bianca certo non mi getto.
Languidi accenti che per te sprecai
ti faranno conoscere nel mondo
ma sono io che valgo e non già tu.
Quindi se piango non pensare che
lacrime versi per il perso amante
ma solamente che ho tritato a pezzi
la cipolla per farne un buon ragù.
*
Datemi pane azzimo
L’arco è lassù in profili di figure
indaffarate tra gli ulivi e i merli
a suonare tastiere celestiali.
La striscia zafferano della sera
arde del giorno gli ultimi languori.
Datemi pane azzimo e l’Arcangelo
discenderà dai cardini del vòlto
ad allungarmi trepido la mano
– la destra tiene l’arma sguainata
per i ricacciare i demoni all’inferno –
datemi pane azzimo ed ancora
avrò sete inesausta di preghiera
quando, vegliando, l’appannato specchio
saprà predirmi con certezza l’ora,
datemi pane azzimo perché nasca
come linfa d’autunno rossa e lenta
un ultimo virgulto di speranza.
*
La sera è un palcoscenico in penombra
La sera è un palcoscenico in penombra
che aspetta lento che il sipario cali.
Anche i suoni si van smorzando piano
in litanie che sanno di preghiera.
L’ultimo sole, muezzin senza parole,
va scomparendo in fondo all’orizzonte.
Ed io sto arrotolando il mio tappeto
contando quanto mi fu dato in sorte
la mano aperta quasi a mendicare
qualche cosa di più, qualunque cosa
che dia un senso a questa vita persa
tra sentimenti buoni e aspirazioni.
La viola, a volte, screzia il verde al muschio
però è sempre lui a prevalere
così la nostra misera esistenza
cerca la prima stella sopra il pioppo
anche se sa che non la potrà avere.
Per quel punto lucente là lontano
quanti delitti son commessi al mondo
e quante atrocità non conosciute
piagano a morte la coscienza all’uomo!
Io prenderò il tappeto mio sdrucito
per quel Dio che poi sempre perdona
e busserò alla porta e dirò ancora:
“Volevo fare tanto ma ho raccolto
soltanto frutti secchi nel mio campo”.
*
Arcangelo guerriero
Arcangelo guerriero, rugginosa
spada tu m’infilasti dentro il petto
perché giammai guarisse la mia piaga,
perché sempre di te mi ricordassi.
Però la vita è un circolo vizioso
in cui spesso si torna ai propri passi.
Ed è per questo che ora non rammento,
fra tanti angeli, quale tu sia stato
se bruno o biondo, liscio o riccioluto
ma tengo aperta ancora la mia piaga
stimmate dolce della verde età,
aurorale presagio di un’attesa
che cancella promesse al divenire.
Ed il silenzio adesso mi traghetta
le immagini dei sogni che ho vissuto
ma il codice rimane indecifrato
pronto a svelarsi solo all’imbrunire
quando non c’è più tempo per comprendere.
Scilla e Cariddi l’una all’altra a fronte
ci hanno lasciati indenni a mare aperto
e stiamo qui aspettando che altra onda
di nuovo ci riporti ad una riva.
Stiamo aspettando e intanto ricontiamo
i nostri approdi su scoscesi scogli
pietre miliari di presenze mute.
Carla Baroni
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Cenni critici
Fare poesia non è impresa né facile né scontata. Essa non vuole essere cercata con insistenza, forzata ad uscire e manifestarsi, non accetta costrizioni. Spesso è lei che trova il suo autore e che lo spinge a rivelarsi. Non vuole un abito di maniera o una mano che la stringa con veemenza, ché altrimenti, come una fragile farfalla, non vola più.
Nelle poesie di Carla Baroni queste limitazioni non hanno luogo, né si affacciano mai nel corso delle varie composizioni. Tutta la silloge, eccetto alcuni punti di luminosa descrizione naturalistica, come in “vento di marzo” e pochi altri, è un serrato dialogo con i propri ricordi, che riaffiorano da un passato ancora vivo e presente e possono di nuovo assolvere o ferire, richiamare l’amarezza del rimpianto o suscitare ancora desiderio e dolcezza. Una voce che nasce nel profondo, che emerge da una sofferenza ancora impregnata dei profumi e macchiata dei colori di una infanzia e di una giovinezza passata, che ora rivendica di colmare un silenzio troppo a lungo tenuto prigione sulla strada della memoria, per dare forma e corpo ad un racconto di vita. (Lido Pacciardi)
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Il metro chiuso è, infatti, anzitutto una lezione di disciplina e una gara con la parola e con il ritmo che deve coincidere con il messaggio. É quanto fa Carla: raccontare le stagioni, i luoghi, le esperienze, le idee, il compendio esemplare della vita nella forma che, per il rigore della scrittura, più efficacemente offre al lettore il senso di tutta questa vicenda di vita come verità. Il sonetto di Carla è lo strumento assolutamente necessario per poter dire tutto questo nel modo più solido e strenuo. L’altro aspetto singolare dei centocinquanta sonetti di Carla è che ciascun testo, nell’esplicarsi delle quartine prima e, poi, delle terzine, propone due facce del messaggio: la prima è un’occasione del giorno, della stagione, un fatto anche minimo; la seconda è il commento, la riflessione, il giudizio su di sé, sui ricordi, sugli errori, sulle confusioni, sulle sconfitte e, sul tempo attuale che si è fatto breve, con il pensiero di aver perduto la prova dell’esistenza, quella decisiva, “par delicatesse”, come dice Rimbaud; e su questo Carla insiste, tuttavia non per malinconia o patetico rimpianto, quanto per un giusto e accettato riconoscimento di sé, della discrepanza fra il momento propizio per l’aprirsi alla pienezza della vita e dei sentimenti e l’esitazione, il dubbio, l’immaturità, il timore, la domanda del cuore combattuto quando invece si esige la prontezza della risposta. Così ogni pur semplice particolare della vita ora (uno stormo d’uccelli, un refolo di vento, un colombo, un’allodola, le nuvole, una povera erba che tenacemente resiste alle intemperie, un fiume, una tempesta) viene ad apparire come la verifica di quell’occasione perduta, che, spesso, viene in primo piano a rivelare la pena della solitudine. (Giorgio Barberi Squarotti)
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10 risposte
Caro Pasquale, grazie di avermi messo “in vetrina”. Ne avevo bisogno essendo diventata una specie di reperto archeologico. Ancora grazie.
La poesia di Carla Baroni si snoda sul filo di una musicalità metrica che viene dalla preparazione e dall’esperienza, ma prima di tutto da quell’istinto che hai o non hai e senza il quale è impossibile scrivere in questa maniera. E’ una poesia che ti avvince perché la senti viva e vera ; il suo verso non resta in superficie, ma scava nel profondo fino alla polpa dolente dell’anima e con coraggio guarda alle cose perdute in un passato già lungo e fin troppo toccato da esperienze difficili, ma illuminato dalla luce dell’amore materno e consolato dalla Poesia. Una vita forse più sognata che vissuta, ha però arricchito la sua anima di una capacità di comprensione che viene solo dal dolore . Grande poetessa, grande donna , di coraggio e con una forza che chi ha vissuto nella bambagia non può conoscere. Ammirevole .
Cara Lidia, quello veramente ammirevole è il tuo commento dettato dalla grande amicizia che si è instaurata fra noi e dalla stima reciproca.
Queste poesie sono state prese a caso tra le innumerevoli che ho scritto e non hanno un dettato omogeneo come del resto tutta la mia produzione che viaggia tra il reale e l’inventato. Inoltre sono state scritte in periodi diversi della mia esistenza con visioni molto differenti del mio vissuto. Se vuoi conoscermi meglio leggi il commento molto esplicativo che ho fatto a Lido nella pagina dedicata a lui.
A te invece un grandissimo grazie
Avendo scritto la prefazione al suo ultimo libro, dopo aver letto attentamente e con estremo interesse le sue poesie, non posso che confermare, dopo queste che non conoscevo, il giudizio già espresso e, del resto, ribadito da Lidia e da altri: la poesia di Carla non è mera esercitazione di stile e rigorosa applicazione dei canoni, non è “narrazione in versi”, ma è fatta di carne e sangue, nel racconto che germoglia da una sofferenza autentica, dal consapevole rifiuto di un dolore troppo a lungo tenuto sulla strada della vita. Un dolore che alza, e di parecchio, il tono dei suoi versi, che tocca il lettore direttamente, senza sotterfugi o artefatte intenzioni. C’è la vita vera, lucidamente sofferta, la spinta vitale alla ribellione verso una accettazione stanca e rassegnata. C’è anche rabbia, espressa con forza, eleganza e sincerità, verso condizioni limitanti e in certo qual modo escludenti, ma mai capaci di spegnere uno spirito alto.
Caro Lido, avevo proprio bisogno di commenti come il tuo perché la mia autostima era ai minimi storici. Ora mi sto gonfiando come una rana e se scoppierò sarai responsabile della mia dipartita. Grazie, grazie, grazie.
Sulla musica eloquente e rassicurante degli endecasillabi sciolti, metro governato con provata sicurezza, si dipana, sterminata e inesausta, la poesia di Carla, solipsistica ed epistolare a un tempo, ode ed elegia, memoria e fantasia.
Ne vien fuori un’opera monumentale, un diario poetico politonale sebbene monometrico, in cui la poetessa si rivela interamente, nell’animo e nei pensieri.
È un piacere leggerla.
Caro Luciano, un triplice grazie anche a te. Però si dice “chi è causa del suo mal pianga se stesso” perché il tuo lusinghiero commento mi ha convinto a eleggerti vittima sacrificale per la prefazione del mio prossimo libro e non so se la cosa sia proprio di tuo gradimento. Gli altri del gruppo hanno già dato compreso innumerevoli volte Pasquale mio stimatissimo mentore. Qualunque sia la tua risposta ancora un meritatissimo grazie.
Per me sarà un onore Carla.
Aspetto le poesie.
La selezione di poesie offerta, oltre ad una musicalità già giustamente lodata, regala un carosello di immagini capaci di far viaggiare le emozioni. I contenuti attingono a un vissuto che da sempre “cerca la prima stella sopra il pioppo/anche se sa che non la potrà avere”. Lo stile è ricercato e amabile nei toni sinceramente distesi ed hanno il pregio di infondere coraggio attraverso segnali di bellezza. Qua e là si coglie inoltre quel po’ di giusta ironia che non guasta.
Cara Assunta, grazie per il tuo graditissimo commento: infatti gli altri mi avrebbero lodata per l’amicizia che sussiste fra noi anche se avessi proposto l’elenco telefonico. Comunque coloro che mi conoscono bene sanno che per me lo scrivere rappresenta l’antidoto ai miei mali e avendo scritto tanto cerco di variare un po’ anche se poi è facile ricadere su quanto già detto. Ma dato che tutto questo serve come cura non me ne preoccupo. Ancora grazie.