CESARE PAVESE
Verrà la morte
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
11 risposte
Caro Pasquale, in ogni poeta che ci proponi vai sempre a pescare una poesia sulla morte. Cesare Pavese non è certamente uno scrittore allegro – e lo dimostra la fine che ha fatto – e il celeberrimo testo che hai postato è indubbiamente non passibile di critiche.
Tuttavia alla mia età e a quella di qualche altro frequentatore del blog
“la morte (…) ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo … ”
E allora abbi pietà, scaccia i tuoi incubi e offrici qualcosa del celebrato Archivio Loscazzo. Ridere fa buon sangue e allunga la vita!!!
Cara Carla, il Blog, questo blog -come pure ti ho detto per telefono- cerca e propone soprattutto poesia. Bella poesia. Dovunque si trovi e oltre qualsiasi tematica. E non ci sono incubi da scacciare. Qui si trova bellezza da godere.
Tragica e suggestiva . Una poesia che rientra nella tradizione classica di amore e dolore, e di amore e morte. Di fronte a versi del “ filone” “ amore-pena d’amore” sono spesso sospettosa…mi chiedo dove sia la sofferenza vera e dove la posa poetica. Qui, purtroppo, c’è poco da dubitare: il sentimento è sincero. Lo credo perché Pavese era una persona fragile e le persone fragili reagiscono alle delusioni in maniera diversa da chi è di carattere forte, e possono arrivare a certi estremi. Per il poeta l’ultima immagine saranno gli occhi della donna amata. Se avesse avuto un’infanzia differente, e- direi anche-se fosse nato fatto di altra pasta, sarebbe venuto su meno propenso alla depressione e probabilmente questi versi non sarebbero mai nati e sarebbe stato meglio per lui. Sono il risultato di una vita vissuta sotto la cappa del male di vivere. Quella morte insonne di cui la poesia parla lo dice chiaro…la morte è un pensiero che non ha mai lasciato il poeta. Se l’è sempre portata dietro come un’ombra che alla fine ha preso il sopravvento . Quel verso “ sarà come smettere un vizio” lo vedo come l’ accettazione dell’idea che cercare la morte è il solo modo per mettere fine a un pensiero che l’ha sempre ossessionato. E non c’è una qualche speranza di una pace nell’aldilà… la sola pace è l’annullamento, il gorgo muto. Sono versi toccanti…una lettera di addio alla vita che si apre col rintocco di campana a martello della prima immagine… versi da brivido proprio perché escono da una penna “ onesta”.
Io credo che la poesia di Pavese rispecchi in tutto e per tutto un disagio della vita che col tempo non diviene più sopportabile. Per molti è così: per chi è afflitto da malattie fisiche e psichiche, per chi non ce la fa a superare o semplicemente accettare le prove dell’esistenza, per chi è condannato alla continua sofferenza, per chi soffre anche per il dolore che vede intorno, per quello degli altri: di un figlio, di un genitore, di un amico, in uno stato inemendabile e irrisolvibile. Una tragedia per molti, per tanti, che la vita ha imprigionato in una cella oscura, buia, senza speranza: adulti o bambini, uomini e donne, ricchi e poveri. Il dolore muto è il più forte, il più pesante, quello che rode e devasta, portando via pezzi dell’anima. Il poeta, qui, ne è un chiaro esempio e vede la morte come unico rimedio, il non essere come una fuga dalle costrizioni e dalle ingiurie dell’esistere. E la sua penna scrive col suo sangue, ferendo anche noi, trasmettendoci e ponendoci di fronte ad una condizione che potremmo tutti provare: alla scelta di preferire la morte alla vita. E chi può decidere che il non nascere o il non esistere più sia peggiore del continuo soffrire le contraddizioni del vivere?
Bella, tragica, umanissima poesia…
Sappi, caro Pasquale: se poesia
cerchi di quella che davvero vale
né in Petrarca né in Dante o in altra via
.
tu puoi trovare un tale antiossidante
che il malumore curi per magia
ben più dell’olio delle cose sante.
.
E allora a tutti innante te lo dico
che è ridere la cura più appagante
e l’Archivio Loscazzo in questo è “ fico” .
Cara Lidia, hai ragione da vendere ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E’ mai possibile che solo le poesie che parlano di morte siano belle? Ho invitato più volte il Padrone di casa a mettere sul blog qualcosa di allegro anche se capisco che capolavori come “La Sgnera Cattareina” o “Il Cardinale Lambertini” di Alfredo Testoni siano difficili da reperire. Tuttavia l’Archivio Loscazzo è a portata di mano. Perché non approfittarne?
Sì, Lidia. Ma tu stessa mi hai più volte detto che l’Archivio non è così ricco di testi, per cui cerco di dosare.
Questo è vero Pasquale! La parodia si fa bene quando c’è di mezzo un testo straconosciuto, possibilmente breve come il sonetto…e di sonetti ce ne sono tanti, ma non tutti sono di quelli che ” si prestano”. Bisogna che di fronte al testo originale “scocchi la scintilla”
In forma epistolare (“O cara speranza,”) e di taglio profetico ( sei i futuri: verrà, avrà, saranno, sapremo, sarà, scenderemo)
quella che è l’ultima e anche la più celebre poesia di Pavese.
“Ultimo messaggio”, “Addio alla vita”,
“Contemplazione della morte”, “Redde rationem”, “Apocalisse privata”, vi aleggia un tono tragico, estenuato, definitivo, di irrimediabilita’, che ha qualcosa di patologico e fa assomigliare questo testo a una confabulazione depressiva. La scrittura è asciutta, a frasi brevi, lapidarie, l’incipit in duplice futuro ( verrà, avrà), icastico e penetrante, è memorabile.
Tutto è perduto per il poeta, la vita e la parola ( “Scenderemo nel gorgo muti”).
Tutto, tranne la donna che ama.
Non andrà solo.
Essa lo accompagnerà ( sapremo, scenderemo).
In questi due verbi in prima persona plurale sta, sorprendentemente, l’ultimo messaggio: chi ama non sarà mai solo.
Caro Pasquale, per.mitigare alquanto la potente crudezza della poesia sulla morte di Pavese e per anticipare un più leggero modo di trattarla, senza nessuna pretesa di lirismo, riporto qui questi versi in vernacolo colligiano – tra il pisano e il livornese – che rivestono di una apparente comicità un problema tragicamentr attuale e ancora irrisolto.
Un sonetto… in vernacolo colligiancmo. Buffo. Ma non fa ridere, di questi tempi…
Le morti bianche
– Le chiaman morti bianche per fa’ prima.
Ma devi ‘onvenì che la parola
che più ti fa paura è quella ‘n cima,
e vestilla di bianco… li ‘onsola.
– È la morte de’ poveri. E fa rima
cor fatto che ‘l lavoro è una tagliola
quando ar nero si svorge. ‘N questo clima
sei uno sfruttato, preso per la gola…
– Ed è una strage ‘ndegna, un’indecenza,
a lavorà così, quasi da cani,
rischià ogni giorno d’essere ‘n partenza!
Ma chi ci dà ‘l lavoro ‘un sono umani?
‘R sangue ni pesa o no sulla ‘oscienza?
– Può darsi… ma si lavano le mani.
Caro Lido, bravo, castigat ridendo mores anche se qui, purtroppo, non c’è niente da ridere ma, come dici tu, la forma mitiga molto la crudezza dell’argomento. E’ tua? Complimenti!!!