Rocco Scotellaro, Alcune poesie

ROCCO SCOTELLARO

 

Sempre nuova è l’alba

Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra…

Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.

(1948)

 

La città mi uccide

Datemi pure a mangiare il pane della questua
nero indurito, ho tanta voglia di lavorare.
Si sono mangiati i miei calcagni
queste strade d’asfalto dure a pestare.
Era nel vento una pioggia di piccoli prezzi
sulle immobili merci delle vetrine.
Sfolgorava sui cartelloni gente
che usciva quella volta dall’incognito
e io che minuzzavo alacremente
la cronaca viola dei miei passi perduti.
Oh stanco appendermi lo sguardo
alle luci al neon infinite.
Sentite furie: alberghi e panifici
e padroni che muovete questa ruota
orrenda che ci stride sulle carni,
ditte, navigatori, capitani sentite:
eccovela la testa del mercenario
accalappiata nel vostro frustone.
Mi avete inutile respinto
ad alloggiare nelle ville
accanto agl’immondi vespasiani
e la notte mi bastonano i ladri
le prostitute mi sputano addosso.
Gerusalemme, Gerusalemme!
I porci hanno invaso gli ulivi
sotto la luna lontana,
la moda si dà convegno
nel tempio sontuoso
Bari, Napoli, Roma, Milano
i fiori, gli uccelli, la donna
qui si comprano
e io cammino con la mano al cuore
perché a forza potrebbero rubarlo.

II

Tutte le ho girate queste vie
da lanzichenecco i posti di ristoro
e non ho visto un solo sorridere
degli uomini che camminano in fretta.
Non ho nemmeno raggiunta
la grazia dei poveri, astrusa.
E prendere la via del ritorno
non mi duole che per vergogna.
E quanto pesa questa sigaretta
a me viaggiatore delle nubi
or che invoco di rientrare in paese
di contrabbando, a luci spente.

( 24 ottobre 1947)

 

Era la cavalcata della Bruna 

Afflitti ulivi
sui tufi di Matera.
O gli amari poemi
delle morte stagioni!

È una notte che fugge la faina
coi suoi occhi di brace.
E gli antenati ecco sentirsi in canti
per la campagna acquattata:
erano i cafoni in quadrigliè,
passava la cavalcata della Bruna
a risvegliare le caverne
sui bordi delle rocce
al di là della collina,
era il silenzio dell’acqua infossata
che faceva tuonare la Gravina.

(Festa della Madonna della Bruna a Matera, 1947)

 

Passaggio alla città

Ho perduto la schiavitù contadina,
non mi farò più un bicchiere contento,
ho perduto la mia libertà.
Città del lungo esilio
di silenzio in un punto bianco dei boati,
devo contare il mio tempo
con le corse dei tram,
devo disfare i miei bagagli chiusi,
regolare il mio pianto, il mio sorriso.

Addio, come addio? distese ginestre,
spalle larghe dei boschi
che rompete la faccia azzurra del cielo,
querce e cerri affratellati nel vento,
pecore attorno al pastore che dorme,
terra gialla e rapata
che sei la donna che ha partorito,
e i fratelli miei e le case dove stanno
e i sentieri dove vanno come rondini
e le donne e mamma mia,
addio, come posso dirvi addio?

Ho perduto la mia libertà:
nella fiera di luglio, calda che l’aria
non faceva passare appena le parole,
due mercanti mi hanno comprato,
uno trasse le lire e l’altro mi visitò.
Ho perduto la schiavitù contadina
dei cieli carichi, delle querce,
della terra gialla e rapata.
La città mi apparve la notte
dopo tutto un giorno
che il treno aveva singhiozzato,
e non c’era la nostra luna,
e non c’era la tavola nera della notte
e i monti s’erano persi lungo la strada.

(1950)

Rocco Scotellaro

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Rocco Scotellaro (Tricarico 1923 – Portici 1953), poeta e intellettuale lucano, è voce viva, sincera e vigorosa del secondo dopoguerra. Di umili origini, coniugando letteratura e politica, aspirò al riscatto del popolo meridionale, in particolare lucano, e si batté per conseguire questo obiettivo, soprattutto quando divenne sindaco del suo paese, dove realizzò in soli quattro anni di amministrazione un’opera di modernizzazione di Tricarico in linea con le sue idee socialiste. Oggi i suoi scritti sono raccolti nel volume Tutte le opere, a cura di Vitelli, Dell’Aquila, Martelli, edito da Mondadori nel 2019.

 

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Una risposta

  1. Belle liriche! Su tutto prevale l’amore per la propria terra, per le proprie origini. Una terra di sassi, matrigna, ma pur sempre madre, a cui si ritorna con la nostalgia rovente dell’emigrante. La povertà, la miseria, non sono bastanti a rinnegarne il desiderio. Si ritorna ad una esistenza dura, scandita dalle privazioni e dalle fatiche, come l’asprezza del paesaggio in cui si è nati e cresciuti, ma in cui ci si riconosce. E la “modernità” delle città in cui si è perduta la libertà, in cui si conta il tempo con le corse ripetute e ossessive dei tram, non compensa la solitudine che stringe l’animo del poeta e che lo lega, indissolubilmente, a “quell’orto degli ulivi” – novello Cristo – ora “invaso e devastato dai porci” di una modernità estranea, traditrice, beffarda e insopportabile.

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