Ricordo di Giuseppe Sciarrone

GIUSEPPE  SCIARRONE

 

 

Io e Giuseppe Sciarrone, Taranto 1980

***

Conobbi Giuseppe Sciarrone, poeta siciliano di Messina, nel 1980, a Taranto, in occasione del premio “Città dei due Mari”, che lui vinse per l’inedito, io per l’edito. Ci rivedemmo poi ancora in altre occasioni  e per un certo periodo abbiamo intrattenuto un’ amichevole corrispondenza, scambiandoci lunghe lettere che ancora conservo. Poi la corrispondenza si interruppe, forse per colpa mia. Ma sempre Sciarrone è rimasto vivo nel mio pensiero. Tra l’altro egli era originario, per parte materna, del comune di Serrara-Fontana, che si trova nella mia isola.
Vincitore di qualche centinaio di primi premi in concorsi letterari, quando questi erano molto più radi di oggi, non ha mai voluto pubblicare alcuna silloge poetica.
È morto nel 2000.
Giuseppe Sciarrone è stato poeta di grande spessore, con alle spalle una notevole formazione classica (era professore di latino e greco nei licei), che ha agito con molta discrezione sulla struttura non solo formale delle sue liriche. La sua colta sensibilità e la profonda umanità hanno costituito l’humus di un mondo poetico e di un prodotto artistico degni di ben altre fortune letterarie. (P. B.)

***

         DUE POESIE

Quando le ombre passano sul muro 

Quando gli antichi dei
reclinano la fronte
sul granito dei templi, e sale il treno
col suo tremito lungo
nell’assorta
agonia della luce,
una folata d’ombre ricompone
immagini sul muro:
passano lente ondate di millenni,
cadono senza suono
come foglie sull’erba.

Sulla calce corrosa ora è una fuga
di saette d’uccelli,
un ansito di passi, un trasalire
d’improvvisi ritorni,
il filo bruno
d’un’antica sorgiva dissepolta.
E tra i cocci dei vetri, sopra il muro,
posa l’ala di un sogno di colombe.

Tutto resta sospeso tra due voli,
coagulato nel giro d’una breve
metamorfosi d’ombre,
nel segreto
d’una vita celata
come i muti riverberi del cuore,
del gran cuore del Sud.

Poi ritorna la notte,
la mendica velata con la sua
fonda coppa grondante di silenzio
e i segni misteriosi delle stelle.

Poi s’alza dietro i monti
la gran torre del sole
sfavillante di specchi, e il vento scuote
i singhiozzi sommessi del carrubo.
Il muro ridiventa una barriera
alta compatta immota
sull’argine d’un fiume
risucchiato dal greto.

Sullo schermo di luce, il buco nero
d’un uscio che si schiude,
una sedia, uno scialle,
ed un vecchio che guarda,
come in un pozzo vuoto,
nei solchi delle mani
una cenere d’ombra.

La stanza accanto

Forse,
nella stanza accanto,
c’è un calendario al muro
che nessuno più sfoglia,
un fiore che appassisce,
l’ostinato respiro d’un profumo
sul guanciale del letto sprimacciato.

Forse
c’è un vecchio, solo,
con uno scialle nero sulle spalle:
quello che si fermava per le scale,
gradino per gradino,
con il fiato spezzato
e ti guardava
mentre salivi in fretta.

Forse,
muto, inchiodato alla finestra,
quell’emigrato lacero
col suo tanfo di treno e di sudore,
che ti sorride timido e, impacciato,
ti domandò qualcosa.

Forse
quella donna dai grandi
occhi scuri cerchiati di viola
che ti si fece incontro
dal profondo
del corridoio buio,
la vestaglia discinta.

Sempre,
nella stanza accanto,
c’è un brandello di pena
appeso a un gancio
dell’armadio serrato,
una sedia in un angolo che aspetta,
l’ingorgo d’una lacrima che anela
d’essere luce
sopra il tralcio fraterno d’un sorriso.

Mai
tu varchi la soglia
della stanza accanto,
e rimangono sole
le gocce della pioggia
sulle lastre dei vetri
nella gelida nebbia allucinata
dello squallido albergo della vita.

Giuseppe Sciarrone

 

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2 risposte

  1. Leggendo le due poesie proposte da Pasquale si nota subito una spiccata capacità descrittivo-narrativa: l’eloquio poetico è ampio, le immagini sono dettagli nitidi, rappresentativi, come in una sequenza cinematografica.
    In questo contesto “d’ambiente” Sciarrone cala sussulti emotivi di colore malinconico e scialbo, che ricorda il gusto crepuscolare.
    Questa dimessa e sofferta enfasi sentimentale
    sembra essere il dato distintivo della sua poesia.

  2. C’è un sentimento profondo, quasi magico, del luogo e dell’ora. Di un tempo da cui le memorie si affacciano, mai appassite, a reclamare almeno una parvenza d’ombra nelle “ondate di millenni” che mai sono evaporate del tutto. E tutto pare ritornare, riemerso dal “gran cuore del Sud”, di una classicità mai scomparsa, nel gesto silenzioso e solitario del vecchio che pare guardare oltre il tempo, verso le soglie dei templi, verso il cielo luminoso degli antichi dei.
    E l’immagine del vecchio solo ritorna nella seconda poesia: ”La stanza accanto”, metafora dell’incapacità di varcare la soglia d’altre vite, di sentirsi in comunione con quelle, di condividerne lo stato, il dolore, le difficoltà.
    Tutto costruito su una morbidezza espressiva, una levigatezza formale che, nella aggettivazione ricercatissima, ma non meno spontanea, si arricchisce della luce soffusa del mistero e del sogno.
    E questa, secondo me, è autentica poesia.

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