GIULIANO AVIDANO
Un poeta da riscoprire
Conobbi Giuliano Avidano, verso la fine degli anni Settanta/inizio anni Ottanta, nell’ambito dei concorsi letterari. Io ero alle prime e rare partecipazioni, lui un veterano pluripremiato. Uno dei migliori a quei tempi, insieme al siciliano Giuseppe Sciarrone.
Cominciò un’amicizia. Giuliano mi mandò “Sarabanda lirica”(Il Parnaso, Torino 1977), un volume di poesie di circa 870 pagine che contiene ben otto sillogi pubblicate nel corso del tempo; e successivamente “Appunti del malversatore” (Forum/Quinta Generazione, Forlì 1985). Poi , silenzio. Non ho saputo più nulla di lui, sebbene abbia provato più volte ad informarmi presso amici poeti. Neppure Barberi Squarotti, che aveva letto le sue opere e abitava nella stessa città, mi seppe dir nulla. Sul web solo uno scarno accenno alle opere che ho citato.
Avidano era nato in provincia d’Asti nel 1939 e viveva a Torino. Da giovane si era trasferito in Sud America, dove aveva approfondito lo studio dei classici. La sua poesia fu accolta molto favorevolmente. Tra gli altri espressero giudizi lusinghieri Maria Luisa Spaziani, Giorgio Barberi Squarotti, Arnoldo Mondadori Editore, Donato Valli, Luigi Reina, Gianni Oliva, Vittoriano Esposito, Filippo Maria Pontani, Cesco Vian, Ettore Bonora, Stefano Jacomuzzi, Vittorio Vettori, Antonio Piromalli, Mario Sansone.
Di lui pubblico questo poemetto, che mi coinvolge per la dedica. E voglio ricordare questo amico e splendido poeta, dovunque egli sia. (Pasquale Balestriere)
APPUNTI n. 7: DAVANTI A UNA PREFAZIONE DI …
A Pasquale Balestriere
Se scopri il nostro nome
sul libro dei morti,
e non sul ciottolo-obelisco,
e non sulla spoglia argentea,
e non sulla voce adulante,
non fronteggiare con impotenza
la strana sorte mal conosciuta.
E quando,
ormai chinando
gli occhi intorno a te,
scorgi sfumature di cipressi
e la tetra fine del monologo,
sappi che abbiamo superato
difficoltà che non esistevano,
letto libri che parole non avevano,
goduto donne che non vivevano.
Oh! Non ci scordate,
rare notti dei ritorni,
anche se ai non nati fu strappata
con delirio la segreta presenza
del volto informe,
anche se gli attimi soavi caddero
incisi nel poema del niente,
anche se ad un tratto il bel Nunzio
si ridesta smarrito,
tenendoci il polso bizzarro,
travolgendoci con voce polverosa,
con travagli e indugi invincibili,
con torbida e dolce saggezza.
II
Forse riconobbero e forse non
riconobbero chine odorose e fluenti
dove ombre oscillanti ci riportavano
qualche attesa infinita
e statue mere distendevano
i diademi delle loro sincere
forme felici.
Forse guardarono e forse non
guardarono verso la gloria
perdurevole di valli vespertine
-venti viventi si gonfiavano
di frescura tenace e maestosa,
sollevando canti d’erbe e sementi-.
Forse parlarono e forse non
parlarono di eroi soavi:
lampade e patiboli solitari
che imposero pii volti di suicidi
sull’orlo dell’universo dormiente.
Forse sfiorarono e forse non
sfiorarono con labbra auree
il pianto non percettibile dei mansueti.
Forse rinacquero e forse non
rinacquero a pensieri nuovi,
alla diafana profezia
del poema fecondante.
E mai cosparsero di elogi e di stelle
l’angelo operoso della sera
che, con fiori rondini e campane,
colmava le lagune semibuie
delle mie colline trasparenti.
Ma tu remotamente amavi lo zelo,
il tempo della voluttà e della semina,
i colori imbevuti di asfodeli,
la dolce immortalità delle vene
(come quando il vento si muta
in qualche passo inconsueto
che bussa con splendore
al chiarore del tuo pendio).
E al di là del singolare confine,
quasi debolmente cantando
con erranti tristi animali,
continui a sognare
in quel torrente di distanze inclinate,
che forse è un prodigioso e quieto
cammino di luce incompiuta.
III
Noi non vivi – oh, paradosso! –
per i grandi ultimi morti,
noi ignoti per altri estremi viventi,
noi non morremo se simili
ad anime libere, se immuni
da incantesimi, se felici di udire
l’antico mormorio delle erbe,
e coloro che per caso
bussano con aromi nuovi
al silenzio di una lampada notturna
ai nostri marmi abbandonati.
Ahi! Qui si ravvivano stelle ignote
con un ventaglio d’ebano,
e aleggiano magie di serpenti
che sotto la veste semimorta
già ostentano voce e corona.
Qui sempre rintocca con furore
una pentola vuota,
quando incombe il rumore
ahi! del piede di pietra
della parca che torna.
E risale.
E senza sosta restaura
la sua trasparenza d’annegato.
Vessillo effimero e germinante,
che molte volte hai gonfiato
le tue vene di smalto negando
il sigillo all’uomo nuovo,
dona bellezza inquieta
alla nostra fluttuazione lucente.
O maestro che sei su tutte le acque,
istoriaci soavemente l’anima odorosa,
mostraci qualche cometa nascente
per uscire dalla fabbrica di bare
con le occulte voci della sera
sul declinante viottolo lunare.
IV
Nell’altra vita rinasceva
una continuazione rara
a quel volto d’acqua,
come da qualche bruma
l’inquieta grazia
della visione caduca.
Di tempo in tempo
qualche benigna arpa di musa
indugiava, senza incertezze,
nella risonanza turchina del poema
che emergeva nella luce e nelle tenebre.
Nell’ora meridiana,
ah il vento, ah l’acquamarina,
se cercavi deliziose salvezze
nell’ultimo campo di mais,
sempre si affacciavano,
gonfi di buone aringhe, i seni,
oh molteplici, erette armonie!
di soffici donne di palude
che oscillavano arditamente
trappole madide d’unguenti.
E ti fu concesso di adorare
circonferenze e capezzoli
che a un vate perduto crebbero
inni di sapienza amorosa
e messaggi di tenerezza indifesa.
V
Un timido prodigio è uscito
dall’anima verdazzurra della notte.
Odo sospiri non duri nella morte.
O voi che non avete
l’uguale ricordanza
e la luminosa ombra
nel volto degli amici
e la gentile pergamena
e il tonfo ininterrotto
della supplica ignuda
e voi che giammai
sfioraste la pietà
e le morbide porte
dei doviziosi oracoli
né la clemente trama che avvita
leggiadri sigilli
ai chiari fili
delle supreme aureole vuote
coprite la mia pagina
di funebri prodigi
al vostro passare sconosciuto
al mio pacato fluire nei limbi.
VI
O mansuetudine fervida e rude,
che dentro di noi ti muovi
con i suoni discreti,
ricordaci
il soave morire delle stagioni,
e avvolgici in echi
e figure di giunchiglie.
E quando dalle siepi, dalle
fessure, dalle rupi
osservi la propizia dolcezza
delle danzatrici assorte
porgere vitrea grandezza
alle spumose anime degli astuti,
richiamaci a leggere versi
alle soffitte, alle vigne,
al tonfo delle foglie,
al volume delle malinconie,
al lamento dei cani,
al viale dei crepuscoli vani.
VII
Ogni volta che mi dedica spazi
la pietà dell’ultimo giorno,
mi sorprendo illeso presso
il timpano delle lusinghe;
e so che deponendo sul mio petto
una croce, a croce disporrete
oh meraviglia! le mie mani pulite.
Ma, vagando languidamente,
disegnando ingenue forme sull’acqua,
nella profondità della polvere,
nella nudità dei silenzi,
tu effimero, tu vitreo,
tu mite canta nel vento.
Continuate a inventare il mondo,
la folgore, il polline,
l’immutabile libagione.
Siate vagamente felici e vincitori,
cesellatori di altitudini,
uomini delle gentili apparizioni,
o abili uomini della luce!
Giuliano Avidano
(da Appunti del malversatore)
4 risposte
Difficile, quasi impossibile per me, commentare i versi di questo poemetto. Troppo lontano mi sento da questo modo di far poesia…
Eppure qualcosa lo voglio dire: della abbondanza… sovrabbondante delle aggettivazioni, della forza delle sinestesie, della fioritura delle espressioni peregrine ed esteticamente validissime, in un rincorrersi quasi sognante di una sorta di delirio onirico, coinvolgente e spiazzante. Questo mi pare già sufficiente per rimarcare una originalità e una forza non comuni, che indicano la ricchezza espressiva di questo autore, fino ad oggi a me sconosciuto. Ringrazio Pasquale di avercelo proposto.
Bravo Lido! Con acume hai colto alcuni tratti essenziali della poesia di Avidano che se la gioca tutta sul piano metaforico (mai gratuito), adottando quelle tecniche e accorgimenti che tu citi, ma a caldo, sotto l’impeto della passione, incalzato dalla necessità e dall’urgenza di dire e quasi di gridare
un sommovimento interiore che non dà requie.
Leggendo Avidano sembra di entrare in una cattedrale di poesia.
Certo, il primo accostamento può essere gravoso per il lettore impreparato, tale è la ricchezza verbale e l’ispirata sostenutezza dell’eloquio.
Sono ammirevoli la fertilità dell’invenzione poetica, la qualità lessicale, la varietà delle alternative semantiche tramite un assiduo gioco metaforico e infine l’ampia estensione del clima poetico che va dalla meditazione raziocinante, a ispirate volate liriche, a visionarie incursioni nella dimensione onirica dell’inconscio.
Leggendo Avidano, sembra che ogni verso, ogni locuzione, persino ogni sintagma, possa essere il seme per fare nascere una nuova poesia.
Se un appunto gli si può fare sta proprio nella straordinaria opulenza della sua scrittura, nella pletora di soluzioni espressive che si susseguono impetuose e , forse, in un una qual certa ridondanza aggettivale.
Ma questi sono rilievi marginali rispetto e un dettato poetico di rara intensità.
Un grazie a Pasquale per avermi fatto conoscere questo poeta.
Sì, Luciano. Un’opulenza quasi barocca, ma mai ripetitiva, sempre nuova nella proposta, variegata e sfolgorante, inedita e deragliante. Quei critici letterari, di cui sopra ho riportato i nomi, hanno avuto parole di stupefatta ammirazione.