Il tema della sortita notturna nel poema epico: Cloridano e Medoro

 

IL TEMA DELLA SORTITA NOTTURNA  -3 –

Ludovico Ariosto riprende il tema  della sortita notturna sulla falsariga virgiliana, anche se con esito in parte diverso. Qui i Saraceni sono alle strette, hanno subito pesanti perdite. Due soldati di oscuri natali, Cloridano e Medoro, legati da fraterna amicizia, sono di guardia agli alloggiamenti delle malconce truppe moresche: cacciatore e più forte ed esperto il primo, adolescente e bellissimo il secondo. È quest’ultimo che ha l’idea della sortita: intende recuperare il corpo del suo re Dardinello, da poco caduto in battaglia. Cloridano non è convinto del tutto, ma per affetto verso Medoro si butta nell’impresa che lo vedrà perire. Medoro, apparentemente morto, viene trovato, curato e salvato da Angelica, che poi lo sposa.

Con il tema della sortita notturna ci fermiamo qui. Ma va almeno detto che l’incursione in campo avverso di notte è tema diffuso o, se si vuole, ripreso da vari autori. Per esempio incursione notturna è, nella Bibbia, quella di David nella tenda di Saul addormentato, quel Saul che lo vorrebbe morto, ma che lui, generosamente, risparmia. Altri esempi di sortite nella Tebaide di Stazio (Opleo e Dimante) , nella Gerusalemme Liberata (Clorinda e Argante incendiano la torre d’assedio dei Cristiani, ma Clorinda, non riconosciuta, viene uccisa  in duello da Tancredi),  nell’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino (Lucillo e Tibullo), e così via. Ma riteniamo che a rappresentare questo tema possano essere sufficienti  gli episodi, più noti e belli, che abbiamo proposto ai lettori.

Pasquale Balestriere

 

 

CLORIDANO E MEDORO

Ariosto, Orlando Furioso

(canto XVIII, str. 165- 176;  181–192; canto XIX, str. 1–17)

Canto XVIII

165
Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
de’ quai l’istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
et or passato in Francia il mar con quello.

166
Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era et isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la etá novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia piú gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
angel parea di quei del sommo coro.

167
Erano questi duo sopra i ripari
con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando la Notte fra distanzie pari
mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far che ’l signor suo non rammenti,
Dardinello d’Almonte, e che non piagna
che resti senza onor ne la campagna.

168
Volto al compagno, disse: — O Cloridano,
io non ti posso dir quanto m’incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimè! troppo degna esca.
Pensando come sempre mi fu umano,
mi par che quando ancor questa anima esca
in onor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui gli oblighi immensi.

169
Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e forse Dio vorrá ch’io vada occulto
lá dove tace il campo del re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo:
che se Fortuna vieta sí bell’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scuopra. —

170
Stupisce Cloridan, che tanto core,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e cerca assai, perché gli porta amore,
di fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma non gli val, perch’un sí gran dolore
non riceve conforto né trastullo.
Medoro era disposto o di morire,
o ne la tomba il suo signor coprire.

171
Veduto che nol piega e che nol muove,
Cloridan gli risponde: — E verrò anch’io,
anch’io vuo’ pormi a sí lodevol pruove,
anch’io famosa morte amo e disio.
Qual cosa sará mai che piú mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Morir teco con l’arme è meglio molto,
che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto. —

172
Cosí disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l’arme e’ carrïaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.

173
Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
— Non son mai da lasciar l’occasïoni.
Di questo stuol che ’l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisïoni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spazïosa strada. —

174
Cosí disse egli, e tosto il parlar tenne,
et entrò dove il dotto Alfeo dormia,
che l’anno inanzi in corte a Carlo venne,
medico e mago e pien d’astrologia:
ma poco a questa volta gli sovenne;
anzi gli disse in tutto la bugia.
Predetto egli s’avea, che d’anni pieno
dovea morire alla sua moglie in seno:

175
et or gli ha messo il cauto Saracino
la punta de la spada ne la gola.
Quattro altri uccide appresso all’indovino,
che non han tempo a dire una parola:
menzion dei nomi lor non fa Turpino,
e ’l lungo andar le lor notizie invola:
dopo essi Palidon da Moncalieri,
che sicuro dormia fra duo destrieri.

176
Poi se ne vien dove col capo giace
appoggiato al barile il miser Grillo:
avealo vòto, e avea creduto in pace
godersi un sonno placido e tranquillo.
Troncògli il capo il Saracino audace:
esce col sangue il vin per uno spillo,
di che n’ha in corpo piú d’una bigoncia;
e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia.

(Qui i due amici uccidono diversi soldati cristiani immersi nel sonno)
181
Gl’insidïosi ferri eran vicini
ai padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta;
quando da l’empia strage i Saracini
trasson le spade, e diero a tempo volta;
ch’impossibil lor par, tra sí gran torma,
che non s’abbia a trovar un che non dorma.

182
E ben che possan gir di preda carchi,
salvin pur sé, che fanno assai guadagno.
Ove piú creda aver sicuri i varchi
va Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
Vengon nel campo, ove fra spade et archi
e scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
e sozzopra con gli uomini i cavalli.

183
Quivi dei corpi l’orrida mistura,
che piena avea la gran campagna intorno,
potea far vaneggiar la fedel cura
dei duo compagni insino al far del giorno,
se non traea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e cosí disse:

184
— O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto piú forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. —

185
La Luna a quel pregar la nube aperse
(o fosse caso o pur la tanta fede),
bella come fu allor ch’ella s’offerse,
e nuda in braccio a Endimïon si diede.
Con Parigi a quel lume si scoperse
l’un campo e l’altro; e ’l monte e ’l pian si vede:
si videro i duo colli di lontano,
Martire a destra, e Leri all’altra mano.

186
Rifulse lo splendor molto piú chiaro
ove d’Almonte giacea morto il figlio.
Medoro andò, piangendo, al signor caro;
che conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio,
in sí dolci atti, in sí dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti.

187
Ma con sommessa voce e a pena udita;
non che riguardi a non si far sentire,
perch’abbia alcun pensier de la sua vita,
piú tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire:
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto re sugli omeri sospeso
di tramendui, tra lor partendo il peso.

188
Vanno affrettando i passi quanto ponno,
sotto l’amata soma che gl’ingombra.
E giá venía chi de la luce è donno
le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato avendo tutta notte i Mori,
al campo si traca nei primi albori.

189
E seco alquanti cavallieri avea,
che videro da lunge i dui compagni.
Ciascuno a quella parte si traea,
sperandovi trovar prede e guadagni.
— Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto,
perder duo vivi per salvar un morto. —

190
E gittò il carco, perché si pensava
che ’l suo Medoro il simil far dovesse:
ma quel meschin, che ’l suo signor piú amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L’altro con molta fretta se n’andava,
come l’amico a paro o dietro avesse:
se sapea di lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate avria, non ch’una morte.

191
Quei cavallier, con animo disposto
che questi a render s’abbino o a morire,
chi qua chi lá si spargono, et han tosto
preso ogni passo onde si possa uscire.
Da loro il capitan poco discosto,
piú degli altri è sollicito a seguire;
ch’in tal guisa vedendoli temere,
certo è che sian de le nimiche schiere.

192
Era a quel tempo ivi una selva antica,
d’ombrose piante spessa e di virgulti,
che, come labirinto, entro s’intrica
di stretti calli e sol da bestie culti.
Speran d’averla i duo pagan sí amica,
ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.

 

Canto XIX

1
Alcun non può saper da chi sia amato,
quando felice in su la ruota siede;
però c’ha i veri e i finti amici a lato,
che mostran tutti una medesma fede.
Se poi si cangia in tristo il lieto stato,
volta la turba adulatrice il piede;
e quel che di cor ama riman forte,
et ama il suo signor dopo la morte.

2
Se, come il viso, si mostrasse il core,
tal ne la corte è grande e gli altri preme,
e tal è in poca grazia al suo signore,
che la lor sorte muteriano insieme.
Questo umil diverria tosto il maggiore:
staria quel grande infra le turbe estreme.
Ma torniamo a Medor fedele e grato,
che ’n vita e in morte ha il suo signore amato.

3
Cercando giá nel piú intricato calle
il giovine infelice di salvarsi;
ma il grave peso ch’avea su le spalle,
gli facea uscir tutti i partiti scarsi.
Non conosce il paese, e la via falle,
e torna fra le spine a invilupparsi.
Lungi da lui tratto al sicuro s’era
l’altro, ch’avea la spalla piú leggiera.

4
Cloridan s’è ridutto ove non sente
di chi segue lo strepito e il rumore:
ma quando da Medor si vede absente,
gli pare aver lasciato a dietro il core.
— Deh, come fui (dicea) sí negligente,
deh, come fui sí di me stesso fuore,
che senza te, Medor, qui mi ritrassi,
né sappia quando o dove io ti lasciassi! —

5
Cosí dicendo, ne la torta via
de l’intricata selva si ricaccia;
et onde era venuto si ravvia,
e torna di sua morte in su la traccia.
Ode i cavalli e i gridi tuttavia,
e la nimica voce che minaccia:
all’ultimo ode il suo Medoro, e vede
che tra molti a cavallo è solo a piede.

6
Cento a cavallo, e gli son tutti intorno:
Zerbin commanda e grida che sia preso.
L’infelice s’aggira com’un torno,
e quanto può si tien da lor difeso,
or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno,
né si discosta mai dal caro peso.
L’ha riposato al fin su l’erba, quando
regger nol puote, e gli va intorno errando:

7
come orsa, che l’alpestre cacciatore
ne la pietrosa tana assalita abbia,
sta sopra i figli con incerto core,
e freme in suono di pietá e di rabbia:
ira la ’nvita e natural furore
a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia;
amor la ’ntenerisce, e la ritira
a riguardare ai figli in mezzo l’ira.

8
Cloridan, che non sa come l’aiuti,
e ch’esser vuole a morir seco ancora,
ma non ch’in morte prima il viver muti,
che via non truovi ove piú d’un ne mora;
mette su l’arco un de’ suoi strali acuti,
e nascoso con quel sí ben lavora,
che fora ad uno Scotto le cervella,
e senza vita il fa cader di sella.

9
Volgonsi tutti gli altri a quella banda
ond’era uscito il calamo omicida.
Intanto un altro il Saracin ne manda,
perché ’l secondo a lato al primo uccida;
che mentre in fretta a questo e a quel domanda
chi tirato abbia l’arco, e forte grida,
lo strale arriva e gli passa la gola,
e gli taglia pel mezzo la parola.

10
Or Zerbin, ch’era il capitano loro,
non poté a questo aver piú pazïenza.
Con ira e con furor venne a Medoro,
dicendo: — Ne farai tu penitenza. —
Stese la mano in quella chioma d’oro,
e strascinollo a sé con violenza:
ma come gli occhi a quel bel volto mise,
gli ne venne pietade, e non l’uccise.

11
Il giovinetto si rivolse a’ prieghi,
e disse: — Cavallier, per lo tuo Dio,
non esser sí crudel, che tu mi nieghi
ch’io sepelisca il corpo del re mio.
Non vo’ ch’altra pietá per me ti pieghi,
né pensi che di vita abbi disio:
ho tanta di mia vita, e non piú, cura,
quanta ch’al mio signor dia sepultura.

12
E se pur pascer vòi fiere et augelli,
che ’n te il furor sia del teban Creonte,
fa lor convito di miei membri, e quelli
sepelir lascia del figliuol d’Almonte. —
Cosí dicea Medor con modi belli,
e con parole atte a voltare un monte;
e sí commosso giá Zerbino avea,
che d’amor tutto e di pietade ardea.

13
In questo mezzo un cavallier villano,
avendo al suo signor poco rispetto,
ferí con una lancia sopra mano
al supplicante il delicato petto.
Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano;
tanto piú, che del colpo il giovinetto
vide cader sí sbigottito e smorto,
che ’n tutto giudicò che fosse morto.

14
E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
che disse: — Invendicato giá non fia! —
e pien di mal talento si rivolse
al cavallier che fe’ l’impresa ria:
ma quel prese vantaggio, e se gli tolse
dinanzi in un momento, e fuggí via.
Cloridan, che Medor vede per terra,
salta del bosco a discoperta guerra.

15
E getta l’arco, e tutto pien di rabbia
tra gli nimici il ferro intorno gira,
piú per morir, che per pensier ch’egli abbia
di far vendetta che pareggi l’ira.
Del proprio sangue rosseggiar la sabbia
fra tante spade, e al fin venir si mira;
e tolto che si sente ogni potere,
si lascia a canto al suo Medor cadere.

16
Seguon gli Scotti ove la guida loro
per l’alta selva alto disdegno mena,
poi che lasciato ha l’uno e l’altro Moro,
l’un morto in tutto, e l’altro vivo a pena.
Giacque gran pezzo il giovine Medoro,
spicciando il sangue da sí larga vena,
che di sua vita al fin saria venuto,
se non sopravenia chi gli diè aiuto.

17
Gli sopravenne a caso una donzella,
avolta in pastorale et umil veste,
ma di real presenzia e in viso bella,
d’alte maniere e accortamente oneste.
Tanto è ch’io non ne dissi piú novella,
ch’a pena riconoscer la dovreste:
questa, se non sapete, Angelica era,
del gran Can del Catai la figlia altiera.

 

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