Pasquale Balestriere su Dino Campana

         

 

 

  LE RADICI DELLA POESIA
     DI DINO CAMPANA

   di Pasquale Balestriere

Piero Bigongiari nel 1959 includeva i Canti Orfici di Dino Campana tra i venti libri del Novecento da salvare [1]. Dopo poco più mezzo secolo il poeta toscano trova solo breve spazio in diverse antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo di studi medio-superiore. Recentemente (soprattutto dagli anni Novanta in poi) si è manifestato  un risveglio d’interesse nei confronti di questo artista che è, anche per vicende biografiche, l’unico vero esempio di “maledettismo”  -autentico, dico-  (e non, come accade oggi in qualche discutibile poeta, esibito, se non addirittura ostentato) della poesia italiana.

DINO CAMPANA (Marradi 1885 – Castelpulci 1932) ebbe un’esistenza vagabonda e travagliatissima. Una grave forma di psicopatia, manifestatasi vero i 15 anni, gli fu compagna assillante e tremenda. Nel 1913 aveva già scritto i Canti Orfici, unica sua opera (se si eccettuano alcune pubblicazioni postume di “carte” campaniane curate da vari studiosi), della quale lo stesso Ardengo Soffici non comprese appieno il valore se è vero che, avendone addirittura smarrito il manoscritto, purtroppo in unico esemplare, costrinse il Campana a ricostruire mnemonicamente la raccolta. E pensare che lo sventurato Dino sperava nell’aiuto di Soffici e della redazione di Lacerba (innanzitutto di Papini, che per primo aveva avuto tra le mani l’opera) per la pubblicazione dei suoi versi! Così i Canti Orfici vennero stampati nel 1914, a spese dell’autore, presso il modesto editore (o tipografo) Ravagli di Marradi. I primi studiosi ad interessarsi di quest’opera furono, manco a dirlo, i critici militanti di quel periodo: Giuseppe De Robertis, Emilio Cecchi, Giovanni Boine. Poi, nel corso del tempo, hanno scritto di Campana biografi, esegeti, poeti, narratori, critici: da Mario Luzi a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Carlo Bo a Franco Fortini, da Antonio Tabucchi a Sebastiano Vassalli, da Gianfranco Contini a Eugenio Montale, da Gianni  Turchetta a Luciano  Anceschi, giusto per citarne alcuni.

Ma perché Canti Orfici?

Va innanzitutto precisato che il titolo originario della raccolta manoscritta, quella affidata a Papini, che l’aveva passata a Soffici,  era “Il più lungo giorno“. Il caso ha voluto che la raccolta venisse ritrovata nel 1971 nel mare magnum delle carte di  Soffici ( morto nel 1964) nella sua casa di Poggio a Caiano.
Per ritornare alla domanda, occorre dire che nel 1910 Domenico Comparetti pubblicava a Firenze un’opera fondamentale per la conoscenza dell’Orfismo: la silloge delle Laminette orfiche, sottili làmine d’oro rinvenute in tombe di alcune località della Magna Grecia e della Grecia stessa, che sembrano essere le uniche testimonianze dell’ escatologia di tale dottrina. È noto, infatti, che l’Orfismo fu un culto misterico (“il più misterioso dei misteri greci”, lo definisce Vincenzo Cilento[2]) che si collegava in qualche modo al mitico Orfeo, poeta, vate, e citaredo, del quale il Böhme[3] sostiene addirittura la storicità, collocandolo, cronologicamente, in piena età micenea (XV/XIV sec. a. C.). E quindi Orfeo sarebbe vissuto prima di Museo, Omero ed Esiodo.  Dell’esistenza di un credo orfico offrono testimonianze degne di fede Pindaro, Empedocle e Platone ma soprattutto le cosiddette “lamelle auree”, le già citate laminette d’oro sulle quali sono incisi ammaestramenti ai defunti e formule sacre: esse sono state ritrovate, quasi sempre in tombe, a Thurii, Petelia, Farsalo, Eleutherna (Creta) e Hipponion. Il culto orfico, praticato da una setta di iniziati, non ebbe mai larga diffusione per la sua dogmaticità e per l’eccessiva imposizione di divieti (molti   accoliti in più  ebbero i misteri eleusini); si affermò quando vennero meno le “poleis” e con esse la religione omerica, promettendo all’uomo greco, in ambasce religiose, una eroizzazione (più che divinizzazione) del miste.
È lecito chiedersi a questo punto in quale misura l’Orfismo abbia influito sulla produzione poetica di Campana.

Ho già detto che la silloge comparettiana vide la luce nel 1910 ed è noto che nel 1913 i Canti Orfici  erano praticamente composti; nel 1914 infatti vennero dati alle stampe.  Mi pare dunque difficile che la pubblicazione del Comparetti abbia potuto incidere a fondo sulla poetica di Campana; verosimile è invece che essa, come afferma il Galimberti[4], abbia avvicinato il poeta alle fonti più pure dell’Orfismo, già del resto conosciuto, forse attraverso Nietzsche e Rohde.

Uno degli aspetti orfici più eclatanti in Campana è il titanismo, venato di colpa, di scelleraggine, di perfidia; il quadro però si slarga in una visione amplissima, variamente colorata e infine analogica: titano è Adamo, è Lucifero, è Faust, è l’uomo, è chiunque si ribelli all’autorità costituita; ma, orficamente, è impuro, è colpevole (e Campana non sentiva colpevole la sua stessa follia?); pertanto, chiuso nel ciclo delle nascite, trova in questo il suo limite e la sua speranza di salvezza.
Più che all’escatologia orfica la spiritualità di Campana sembra protesa allo svelamento del mistero che circonda l’uomo e la sua vita: l’orfismo misterico e misterioso gli offre allora l’espressione –Canti Orfici– adatta ad indicare il sordo lavorio di scavo e di ricerca, l’affannoso impegno poetico che gli consente di strappare alla fitta ragnatela del mistero l’immagine poetica, incerta e torbida, e di cristallizzarla in religione e mito, motivo e scopo dell’esistenza; sicché lo sguardo allucinato del poeta si fissa a scrutare una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce; e forse Campana sente di dover indossare i panni del poeta-vate, ierofante e profeta, titano e uomo.

Come che sia, un fatto appare indiscutibile: Campana ha fatto tutt’uno della sua vicenda biografica e della rappresentazione poetica: vita e poesia, quotidianità ed estasi, serenità e pazzia si fondono senza soluzione di continuità.
Non è da credere però che Campana non abbia avuto ascendenti culturali, del resto ben individuati: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Poe, i preromantici e i romantici, Nietzsche, Rimbaud; così l’io titanico che si esprime nei Canti non sarebbe comprensibile né spiegabile senza tener conto della Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia) nicciana  o de Le bateau ivre (Il battello ebbro) rimbaudiano; e l’intero mondo lirico non sarebbe rettamente interpretato senza certe mediazioni dannunziane e romantiche o senza la lezione poetica e morale carducciana.

Dino Campana, “poeta maledetto” della letteratura italiana non ha trovato finora, come ho già detto, veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie, come nel caso degli ermetici e di certa recente poesia: il fatto è che sul suo sostrato culturale e sulle sue esperienze biografiche s’innesta una tendenza odissiaca e avventurosa unita a una predisposizione, non solo  visiva, come pur sostiene qualcuno, ma  visionaria, che attentano all’integrità del mistero e quindi richiedono lo svelamento o, almeno, l’intuizione della vera realtà, dell’inconoscibile, con tutta l’acutezza morbosa e le innumerevoli possibilità di “lettura”, di interpretazione e di discorso poetico che solo l’autentica genialità,  magari -come nel nostro caso-   venata di follia, può consentire. Per questo la strada percorsa da Campana è rimasta impraticata; per questo i Canti Orfici non sempre trovano piena realizzazione artistica; ma per questo, anche, esistono.

A questo punto si può tranquillamente affermare  che Campana ci ha lasciato un guizzo d’umanità inquieta, che cerca di superare e spiegare una foresta di simboli, tipicamente baudelairiana, attraverso l’onirismo evocativo e medianico, le folgorazioni improvvise, le sciabolate di luce torbida, creando immagini spesso solo accennate, ricche di colore, di suggestioni e rapporti analogici; si spiega così il dettato poetico a volte estremamente dovizioso, a volte fratturato e sconnesso, disseminato di passaggi arditi, logicamente inspiegabili; e l’aggettivazione, quasi abbacinata in illusoria fissità, non riesce a nascondere l’ansimo del verbum strappato al mistero.
Pertanto non è assolutamente pensabile di legare Campana a una scuola poetica; del resto i suoi legami con il futurismo furono brevi ed epidermici.
È invece legittimo pensare a lui come a un titano folle e irriverente, che, per aver partecipato allo sparagmòs (dilaniamento) di Dioniso-Zagrèo (a proposito, si noti l’analogia con la morte dell’apollineo Orfeo fatto a pezzi dalle Mènadi tracie), è condannato a scontare la propria colpa e a vivere dolorosamente la propria umana condizione.

Pasquale Balestriere

 

[1] P. Bigongiari, in L’Approdo, ott.-dic. 1959.

[2]V. Cilento, Comprensione della religione antica, Napoli, 1967.

[3] R. Böhme, Orpheus. Der Sänger und seine Zeit, Bern und München, 1970.

[4] C. Galimberti, Dino Campana, Milano, 1967.

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3 risposte

  1. Dino Campana è sicuramente un unicum nel panorama letterario italiano del Novecento , per la vita e per l’opera che della sua vita è, come per ogni altro poeta, specchio. Il mistero è una costante inamovibile dell’esistere, passaggio nell’hic et nunc, in un viaggio di cui ignoriamo l’inizio e la fine, anche se ci illudiamo di poter conoscere le dinamiche che muovono le tappe della parte del viaggio che, spesso, per liberarci dell’angoscia del mistero del”prima” e del “dopo”, insondabile, ci ostiniamo a considerare soggetto al nostro dominio anche conoscitivo, tramite la ragione e i sensi. Prerogative umane, queste che pensiamo di dominare e che addirittura crediamo ci consentano di dominare il mondo che ci circonda, per poi scontrarci con la realtà che mostra l’inconsistenza della nostra illusoria consistenza . In Dino Campana, come in tutti coloro in cui la parte misteriosa prende il sopravvento, anche durante il viaggio, che chiamiamo vita, escludendo , forse inconsciamente , per salvarci , gli altri due elementi , attinenti al “prima” e
    al “dopo”, il mistero si ingigantisce ed informa di sè i suoi giorni e i suoi scritti. E, se pensiamo alle vicende che hanno interessato anche il manoscritto dei suoi versi, ingoiato e, secondo alcune interpretazioni di cui c’è memoria anche in qualche cortometraggio, poi restituito dall’Arno, il mistero , addirittura, si è esteso anche dopo la sua morte, quasi a dare un senso alle laminette d’oro, contenenti messaggi di accompagnamento per i sentieri dell’oltre. Quella di Hipponion ha ispirato alcuni miei versi . Riporto qui una breve estrapolazione : ” Ci batte il cuore a legger le parole/rimaste intatte – ad alleviare ancora -/tanti dubbi che i secoli e gli eventi/ immensi nell’aprire nuovi varchi/non hanno mai del tutto allontanato.”

  2. Nella storia della letteratura italiana Campana rappresenta un caso più unico che raro : il suo valore letterario è inversamente proporzionale all’esiguità della sua produzione in poetica.
    Infatti sono bastate le poche pagine del suo prosimetro “Canti Orfici” per collocarlo fra i grandi poeti della nostra letteratura.
    Il cliché di ” poeta maledetto, folle e visionario” che gli è stato assegnato per troppo tempo non gli rende giustizia.
    La sua scrittura poetica è ispirata e lucida e ha momenti straordinari di intensità espressiva, di rigoglio e di magnificenza verbali, difficilmente comparabili.
    Questo frammento è esemplare a riguardo:
    “……
    L’aria ride: la tromba a valle i monti
    Squilla: la massa degli scorridori
    Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
    Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
    E dalle altezze agli infiniti albori
    Vigili, calan trepidi pei monti,
    Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
    Gli echi dei nostri due sommessi cuori…
    Hanno varcato in lunga teoria:
    Nell’aria non so qual bacchico canto.
    Salgono: e dietro a loro il monte introna:
    . . . . . .
    E si distingue il loro verde canto.
    …..

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