LA (MALA)SORTE DI “CODESTO”
Ma perché non provare a recuperarlo?
di Pasquale Balestriere
Una deplorevole ingiustizia linguistica è stata messa in atto da chi le parole dovrebbe alimentarle (con l’uso), coltivarle (con il rispetto e l’affetto che meritano), preservarle (dagli incompetenti) e amarle (per le potenzialità che racchiudono).
Che cosa accade invece? Che coloro i quali dovrebbero svolgere questo compito sono incapaci di tenere la schiena dritta, si adattano alla comoda mediocrità oppure palesano la propria inadeguatezza linguistica piegando il capo di fronte a qualche presunto esperto. Sto alludendo agli scrittori e agli studiosi di lingua pron(t)i -troppo spesso – a mode e correnti, pigramente acco(mo)dandosi e abdicando alla loro funzione, che è quella di tutelare il principale mezzo comunicativo.
Avviene così che l’aggettivo- pronome “codesto”, privo di qualsiasi voce sinonimica, quindi unico e insostituibile nella lingua italiana, venga guardato con molto sospetto o addirittura eliminato del tutto; con la scusa che si tratta di termine … burocratico, solo perché – sfortunatamente – è spesso usato in quest’ambito per domande e richieste ufficiali .
Eppure era nato, trionfante e toscanissimo, nel Trecento, adoperato dalle “ tre corone fiorentine” e poi, nel corso del tempo, da egregi scrittori che toscani non erano, come Boiardo, Ariosto, Tasso, Manzoni, Leopardi, Tommaseo, Verga, Pascoli, giusto per citarne alcuni.
Ora, persone, le quali a petto di questi giganti sono poco più che pulcini, ci vengono a pigolare di un “codesto” burocratico, senza peraltro suggerirci alcuna soluzione alternativa per indicare persona o cosa vicina a chi ascolta. La stessa ( e forse anche peggiore) sorte patiscono i cuginetti di “codesto” e cioè gli avverbi “costí” e “costà”. Sicché, se io volessi chiedere all’amica Lidia Guerrieri notizie meteorologiche di Piombino e non volendo usare la forma “che tempo fa costí” , dovrei dire “che tempo fa lí da te”, espressione anche accettabile, ma che comporta lo spreco di una sillaba e manca dell’immediatezza di “costí”.
“Codesto”, il cui uso oggi è limitato alla sola Toscana, è però insostituibile. A meno che non si usi una perifrasi, appesantendo il discorso. Ma provate a togliere “codesto” a un toscano, specialmente di estrazione popolare: gli avete quasi chiuso la bocca, tanto è l’uso che ne fa.
E pensare che anche il dialetto napoletano ( per molti versi vera e propria lingua) conserva rigorosamente la distinzione (e l’uso) dei dimostrativi “chistë” (questo), “chissë” (codesto). “chillë” (quello), senza timori burocratici.
A me pare che privarci di una possibilità espressiva per -e sono garbato- un vezzo o per una quasi masochistica civetteria sia davvero paradossale. Un mutilarsi per niente. Vale la pena di ricordare che Saba fece poesia con un linguaggio quotidiano, depurandolo della quotidianità, rinnovandolo, cioè, nell’uso che ne faceva.
Insomma, fuori del contesto burocratico, come fa un “codesto” a serbare traccia di burocrazia?
E se anche fosse, non basterebbe un impiego più frequente in altri contesti per sgrondar via ogni burocratica traccia?
Insomma, vogliamo provare a recuperarlo ‘sto “codesto”?
Pasquale Balestriere
20 risposte
Questi, cioè…codesti…o, come diciamo in Toscana noi del popolino, ” cotesti” articoli sono straordinariamente interessanti e ti dirò che avevo pensato di proporti proprio di pubblicare ogni tanto qualcosa sulle parole: curiosità, origine, uso, storia, quello che capita insomma . Mi pare di averti accennato a “scappare” e “incappare” …sono cosette che, almeno a me, piacciono . Magari le persone che frequentano il blog potranno trovare certe informazioni superflue perché sono colte e ne sanno parecchio, ma dato che il blog è seguito anche all’estero, forse questo genere di articoli potrebbe essere stimolante per chi conosce l’Italiano ma non in certi suoi aspetti. E poi li potresti mettere insieme e farci un libro originale, interessante e utile. Le parole son creature viventi: nascono, hanno un loro destino : a volte fanno fortuna, a volte no, cambiano come cambiano le persone e può succedere anche che arrivi un periodo in cui la febbre del rinnovamento sale smodata, e che, di conseguenza, escano di carreggiata e facciano una brutta fine come codesto povero pronome che ha avuto la sfortuna di capitare in un momento in cui molti, buttato in un angolo il proprio baculum culturale se ne vanno traballando senza appoggio. Chissà se da codesta combinazione ” senza bastone” è nata qualche parola …boh 😀
La lingua è una forma di ricchezza verso cui tendere, fino ad anelare. Ne vale la pena.
Certo, cara lidia, qualche pillola linguistica, ogni tanto, non fa male.
proprio così la dovresti chiamare questa sezione, Pasquale ! ” Lingua viva: pillole linguistiche” o qualcosa del genere 🙂 e chi dovesse sapere qualcosa di particolare…non so …una storia legata a quella parola, o conoscere un certo modo di dire e come è nato ce lo potrebbe raccontare . A me piacerebbe una sezione così…curiosità, cose a volte divertenti, quello che passa il convento insomma…
Qui, a Collesalvetti, campagnoli dalle scarpe grosse, “codesto” non è ancora morto del tutto. Certo – ed è un peccato – lo usano gli ultimi vecchi, quasi mai i più giovani. Il non difendere la nostra lingua, aggredita da ogni parte da inglesismi, francesismi, neologismi… alla “petaloso” e compagnia cantando, sembra proprio rasentare il crimine. E non dico che una lingua non deve essere viva, aperta a ricevere nuovi fonemi, adattandosi anche ai cambiamenti della società, all’evolvere e alla nascita di nuove tecnologie… Ma, proprio per questo, non dovrebbe seppellire termini che fino a pochi anni fa hanno funzionato benissimo, rappresentano in un certo senso il nostro passato, la storia più vera del nostro scrivere e del nostro parlare. Tutto ciò si traduce nell’impoverimento di un patrimonio linguistico dalle mille sfumature, cancellando o inquinando percorsi che hanno permesso, ai nostri maggiori, capolavori inarrivabili. Eppure, se uno si azzarda a scrivere mantenendo, anche solo in parte e riusando, termini definiti “obsoleti (?)”, viene messo alla gogna. Per me… in quella gogna di termini “antichi”, del Tasso, del Petrarca, di Dante o del Boccaccio, mi trovo benissimo, ed intendo rimanerci: il più a lungo possibile.
Perfettamente d’accordo.
Caro Pasquale, adesso che si cerca di abbreviare tutto per scrivere con facilità sul cellulare, il “codesto” è stato assorbito dal “questo” che ha una sillaba in meno. Se si mette una x al posto del “per”, figurarsi se poteva rimanere una parola tanto lunga. Tuttavia proprio ieri al telefono mi hai detto: “Mandami questo tuo racconto”. Non avresti dovuto dire codesto?
Inoltre non sono convinta che in Toscana il termine venga usato sempre in modo corretto ossia si faccia la distinzione tra “questo” e “codesto” ma che in tale regione si preferisca dire solo “codesto” abolendo invece il “questo”. Ce lo diranno i nostri amici toscani.
Penso che la sillaba in più non c’entri nulla e che la morte di “codesto” sia stata decretata ad altri livelli, non certamente sui cellulari; anche se qui trionfa l’aberrazione della lingua in tutte le sue forme.
Quanto al resto, maestrina Carla Baroni, ti dirò che mi è venuto normale dire “questo tuo racconto” innanzitutto per il registro linguistico discorsivo e amicale; poi perché, avendo tu parlato per un certo tempo di codesto racconto che intendi inviarmi, mi è parso che già fosse a mezza strada tra Ferrara e Ischia, per cui l’ho trattato come cosa vicina a me.
Semplicemente, caro professore, perché il codesto non lo usi più neanche tu. Non fare trasmigrare innocenti racconti per scuse di comodo. La lingua subisce ogni giorno trasformazioni piccole o grandi che siano. Quando ero alle medie fui rimproverata aspramente dalla scrittore, nel cui salotto letterario ci riunivamo, perché avevo usato un “fra” invece di un “tra” riferito a due animali. E non sono più riuscita a trovare la differenza tra famigliare e familiare in quanto, sempre quando facevo le medie, uno – non so quale – era l’aggettivo e l’altro il sostantivo. Però credo che la gente stia bene lo stesso sia nel parlare che nello scrivere.
Quando parlavo per telefono con un amico toscano -che tu, Carla, dovresti conoscere bene- mi piaceva esprimermi con proprietà di linguaggio, sicché i “codesti” e i “costì” (e qualche volta un divertito “costassù”) cadevano, nel mio dire, al posto giusto, secondo il bisogno. Ma, ora che parlo ogni giorno con … un’emiliana di Ferrara, mi sto disabituando -sempre nel parlato!- alle leccornìe linguistiche e, ahimè, anche a un linguaggio proprio.
Et de hoc, dulcissima, satis!
Quanto poi alle preposizioni “tra” e “fra”, oggi usate in maniera assolutamente sinonimica, fu il solito Tommaseo a insistere su una pretesa differenza che però, almeno a livello etimologico, c’era : derivando “tra” dal lat. “intra” (= in mezzo); e “fra” da “infra”, contratto da “infera (pars)” (=parte inferiore, sotto). Tommaseo consigliava di scrivere, per es.: “fra il labbro di sotto e quello di sopra” (ma non “fra il labbro di sopra e quello di sotto”, e neppure “tra il labbro di sopra …” o “tra il labbro di sotto…”); consigliava anche “tra le mura domestiche”; “fra l’erbe e le fessure della terra si nascosero le bestiole”; “tra il monte e la valle”, ecc. Ma oggi nessuno bada più a queste sottigliezze, ossia alla differenza tra le due preposizioni, e va bene così. Io stesso, in questo frangente, mi pongo l’unico obiettivo di evitare cacofonie, per cui non scriverò mai “fra frati” e neppure “tra tre frati”.
Per finire. “Familiare” e “famigliare”: forma dotta e letteraria la prima, popolare la seconda. Ma hanno lo stesso identico significato. Chi dice il contrario lo fa in modo arbitrario.
La mia grammatica perduta e rimpianta non diceva proprio così tuttavia, nella “globalizzazione” di quanto si dice e si scrive, queste distinzioni non sono per me più un cruccio. Però nessuno ha chiarito il mio dubbio: i toscani usano il codesto in modo corretto oppure in tale termine hanno assorbito il questo?
A volte “codesto” può essere sostituito da “questo” o “quel” seguito da un possessivo di seconda persona singolare o plurale ( tuo, vostro), ad indicare la vicinanza a chi ascolta.
Ma nemmeno sempre.
Il punto è che tutte le volte che una lingua diventa specificante e quindi più espressiva, contemporaneamente si complica e più una lingua è complicata più diviene elitaria.
L’uso corrente di una lingua tende a semplificarla riducendone le facoltà espressive.
… e banalizzandola e abbrutendola, purtroppo!
In Toscana, nel parlare comune :
– Questo qui… va bene! Codesto ‘ostí un’è bono a nulla!
(Due contadini stanno scegliendo tra due polloni di castagno per immanicare… una vanga. Il primo legno è vicino a chi parla, il secondo è vicino o lo sta scegliendo il compagno, che ovviamente non se ne intende…). (Sto scherzando…).
Caro Lido, a me pare invece che in Toscana si sia optato per codesto come noi per questo senza più distinguere tra vicinanza o meno. In definitiva a seconda della Regione una delle due parole è divenuta obsoleta o perlomeno viene usata indifferentemente l’una al posto dell’altra. Perché se fosse così, è inutile fare tanto “scarmazzo”, per dirla alla Camilleri, per termini caduti nel dimenticatoio e che a pronunciarli susciterebbero, almeno qui dalle nostre parti, un sorriso. Torno sempre alle mie esperienze personali quando l’insegnante di economia domestica era soprannominata “Costì, costà” per l’uso reiterato che faceva di questi termini. Quindi fai i conti quanto tempo fa!
Vero. Ma i vecchi toscanacci – specie dei paesetti di campagna – sono ancora attaccati alla tradizione. E non lo fanno di proposito, ma gli viene naturale per antica costante conduetudine. Certo questo parlare non lo trovi tra i giovani che, perfino al ristorante, uno accanto o di fronte all’altro, praticano ormai lo yoga del mutismo, parlando tra loro, con le dita, sul telefonino.
Carla, Lido ha ragione! Noi usiamo il questo e il codesto; a Livorno magari sono più ” acculturati” e diranno proprio codesto, noi della provincia lo trasformiamo in cotesto e lo usiamo spesso anzi..!.per esempio se uno ha comprato, mettiamo…un macinacaffè dove vendono la roba usata, e vedi che è tutto sciupato gli dici con la tipica finezza toscana” O che ci fai con cotesto troiaio!?”…se ci sono due cose da mangiare e te l’avevo detto che una non mi piaceva ma l’hai voluta comprare lo stesso, io rafforzo e ti dico :” Io mangio questo, cotesto ‘ostì te lo mangi te .”. rafforzo per indicare che la cosa ce l’hai sotto gli occhi…” .
Il caso ” codesto” penso possa essere lo spunto per una riflessione sulla ” questione della lingua” forse mai del tutto risolta.
Anche se non c’è da stupirsi , vista la nostra storia , che ha fatto sì che lingua parlata e lingua scritta viaggiassero, fino a poco più di un secolo fa, su due binari distinti , e ciascuno con un proprio percorso , con rarissimi se non inesistenti incroci . D’altra parte la lingua è un organismo vivente che respira la cultura e si nutre degli eventi , delle vicende ,del pensiero del tempo che attraversa . E in questo nostro, assistiamo a un pressapochismo invasivo che mette in pericolo non solo l’uso appropriato di ” codesto” , ma l’ immensa ricchezza che alla nostra lingua deriva dalla ampiezza del suo patrimonio letterario, e non solo, la cui conoscenza si va impoverendo di anno in anno , perché va scomparendo dai principali luoghi adibiti a veicolarlo nel tempo e, soprattutto, dalla scuola . Penso sia una cosa positiva che la distanza tra lingua parlata e quella scritta , per effetto dell’ampliamento dell’istruzione, si sia assottigliata, ma se questo assottiglismento è tutto a discapito del ” sermo civilis” , con una esondazione confusa e sempre più povera della lingua parlata , c’è davvero il pericolo di un impoverimento che, pur essendo segno dei tempi, anzi forse proprio per questo, ci addolora.
Mi pare che “codesto” commento, oltre agli spunti positivi che propone, interpreti bene lo spirito del post, in particolare nell’ultima amara considerazione.
Purtroppo chi ,come me, ha trascorso gli ultimi quarant’anni nelle aule di tante scuole della nostra bella penisola , ha assistito con grande delusione ad una deriva inarrestabile , pur lottando spesso contro i mulini a vento, ogni qualvolta un nuovo decreto legislativo decretava che ci si doveva arrendere all’impoverimento di cui sopra .
Condizione (di docente) e delusione (per deriva) condivise. Entrambe, purtroppo. Con qualche intermittente barlume di speranza.