Lido Pacciardi
Ieri … a Collesalvetti
Un libro di memorie, dove il passato torna prepotentemente in vita attraverso l’unico canale consentito, quello della memoria dell’autore; il quale ha inteso recuperare la piccola storia di Collesalvetti, anzi le piccole/grandi storie di un’umanità circoscritta in una minuta porzione di territorio toscano con la sua fervida e insieme mansueta vita, le abitudini, i costumi, il sereno e lento scorrere dei giorni: quasi a voler infondere a questo contesto, così consueto e familiare, valore per alcuni versi paradigmatico. Le vicende sono narrate con scrittura piana, ampia e precisa, attenta, quando occorre, anche al dettaglio, i personaggi risultano ben caratterizzati, i paesaggi ci invadono gli occhi con policromica vivacità.
Di seguito propongo un brano del libro. (P. B.)
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Stellina
Storia vera sul dipinto di Anchise Picchi: L’attesa
Una stradina di campagna, un alberello piegato dal vento, un piccolo cane in attesa.
Questo dipinto, come molti altri dell’autore, racconta una storia. Una storia vera.
E la mente torna alla metà degli anni cinquanta.
Mia madre aveva affittato una stanza, al piano terra della nostra abitazione in Via Roma a Collesalvetti, ad un omino piccolo e minuto, buffo e rubicondo, venuto da Livorno. Estremamente gentile. Mi pare di ricordare che facesse di cognome Cerasoli o, forse, Ceragioli. Il nome non lo ricordo o non l’ho mai saputo. Tutti lo chiamavano Ceragioli e basta. Inizialmente aveva attrezzato la stanza a piccola bottega per la riparazione degli orologi, sua unica occupazione, oltre quella abituale di intrattenere i pochi clienti con disquisizioni sulla natura del tempo e sulla perfetta inutilità di tutti quei marchingegni per misurarlo e che egli provava a rimettere in funzione.
– Gli orologi – diceva, togliendosi per un momento l’oculare dall’occhio sinistro che lo faceva assomigliare ad un piccolo ciclope in miniatura deformandogli il viso in una smorfia grinzosa che gli scopriva i denti ingialliti e sgangherati – son delicati e volubili, son come le femmine. Basta un pelo o un granello di polvere e cominciano a fare le bizze. Eppure non servono a molto. Il tempo se ne frega di tutti quegli ingranaggi, di chi ha inventato lo scappamento e delle lancette che girano. Eppoi, continuava, son falsi. Proprio come le donne… (pare fosse separato dalla moglie). Quando credi di conoscerlo con precisione, il tempo, quello vero, anche di un attimo è sempre avanti e corre via… E magari, poi, non esiste neppure.
Presto la stanza-bottega divenne cucina, poi camera, infine la sua unica abitazione. Per i servizi corporali, almeno quelli solidi, ché la stanza era dotata solo di un piccolo lavandino, c’era il “Bar dei Cacciatori” lì accanto, con l’immancabile cappuccino della mattina.
Il locale dove l’omino viveva non aveva finestre ma solo una porta sul davanti che dava sulla piazzetta di Via Roma, di fianco alla farmacia, dalla quale s’udiva sovente la voce altalenante d’una vecchia fisarmonica arieggiare pezzi d’opera di personalissima interpretazione, cantilene e ritornelli, inedite improvvisazioni…
Nei primi tempi della sua attività i clienti non mancarono e gli affari del Ceragioli andarono abbastanza bene. Gli orologi e le sveglie riparate non sempre se la sentivano di fare il loro dovere e alle proteste dei proprietari il Ceragioli rispondeva, quasi sempre, con queste parole:
– Pretendete troppo dal vostro orologio, lui… che deve acchiappare un fantasma… La perfezione non è di questo mondo e la precisione neppure. Eppoi a che vi serve spaccare il secondo? Ma è davvero così importante sapere che ora è, al millimetro? Tanto il tempo scorre per conto suo e vi mangia tutti, prima o poi. Tic tac, tic tac… Non lo fermerete mai! Lasciatelo fare, contentatevi di stargli un passo indietro o avanti. In un attimo guadagnato o perso può starci una vita… Tic tac, tic tac… E le lancette girano, girano… insieme alle stelle.
A parte l’oscurità escatologica di queste affermazioni, che a molti paesani risultavano del tutto incomprensibili, l’effetto ultimo era che il cliente, in genere, si teneva l’orologio o la sveglia che aveva ritirato e se ne andava un po’ frastornato ma contento, pagando il dovuto.
Poi, un giorno, durante la solita passeggiata che l’ometto buffo soleva fare, nelle giornate di bel tempo o per smaltire qualche ponce in più, sulla via Malenchini che incrociata la via Emilia e attraversato il passaggio a livello porta al Ponte della Tora verso Badia, lo stesso si imbattè in una canina: una bastardella sperduta e affamata, dal pelo lucido e corto, la quale, dopo che ebbe assaporato un bocconcino tratto da una delle tasche della logora giacchetta bisunta, non gli si levò più di torno.
Così la stanza-bottega ebbe da quel giorno, tra le inutili proteste di mia madre, un ospite in più: il Ceragioli e la Stellina. Questo fu infatti il nome scelto per lei, per via d’una macchia bianca sul petto che interessava le zampe davanti e girava intorno al collo e che spiccava sul suo mantello nero.
Furono amici inseparabili. Vissero in simbiosi. Mangiarono, letteralmente, nello stesso piatto… o meglio: nella medesima catinella di lamiera smaltata multiuso che stava nel lavandino, spesso ospitando anche il sapone e il pennello da barba.
L’aria – si fa per dire – della cucina-camera-bottega peggiorò ulteriormente, così come la sporcizia: orologi irrecuperabili, stracci, qualche avanzo di cibo ed ossi rosicchiati, cartacce, puzzo di cane, di muffa e di rinchiuso…
Ma i due si trovavano perfettamente a loro agio. Il sodalizio fu costante e completo. Il Ceragioli continuava a riparare, o almeno provava a farlo, gli sgangherati orologi che i sempre più rari e coraggiosi clienti gli portavano e la Stellina gli si sdraiava sui piedi fino a prender sonno o lo guardava per ore seduta e ferma, come in estasi, di fianco al banchetto da lavoro.
La notte si scaldavano sullo stesso materasso e respiravano lo stesso lezzo.
Nei periodi in cui la cagnetta andava in calore il Ceragioli la sorvegliava attento per due o tre settimane, come un amante geloso, scacciando a pedate qualche pretendente più focoso che avesse osato avvicinarsi troppo, attirato dall’odore dell’estro che aveva saputo incredibilmente riconoscere nel fetore generale.
Quando, poi, per misteriosi motivi – alcuni dicevano che andasse a trovare un figlio ingegnere – due o tre volte la settimana il Ceragioli si recava a Livorno con il pullman del mattino per ritornare con quello del pomeriggio, si vedeva la cagna, seduta e ferma sul marciapiede accanto alla fermata, attendere le cinque e il ritorno del padrone, drizzando di colpo le orecchie e dimenando festosamente la coda quando ancora nessuno poteva avvertire il rumore del motore.
Con qualsiasi tempo. Vento, pioggia, freddo o sole cocente non la disturbavano. Lei era sempre là, fedele e puntuale, in attesa.
I paesani di allora si erano abituati e quasi ci potevano rimettere l’orologio, poiché lei pareva averne proprio uno nella testa – o forse nel cuore – come se il suo padrone là lo avesse saldamente impiantato.
Un mattino, durante una delle solite assenze dell’orologiaio, Stellina fu trovata morta proprio là dov’era avvenuto il primo incontro e il primo amore, all’incrocio di via Malenchini con la statale, vicino al passaggio a livello della ferrovia. Una macchina l’aveva travolta e lei era spirata tra le erbe del fosso che costeggiava la strada.
Quando alle cinque il pover’uomo scese dal pullman e non la vide, immediatamente capì.
Non disse nulla. Si rinchiuse nel suo tugurio e non parlò con nessuno. Quando vennero a dargli la notizia e a portargli un sacco di canapa, macchiato di sangue, non volle vederla.
Fu sotterrata in un orto lì vicino.
Il Ceragioli continuò per alcun tempo la sua vita, incupito, quasi muto. Non lavorava e non suonava più. Cadde infine ammalato con una gran febbre.
Mia madre chiamò allora qualcuno del Comune che rintracciasse almeno un parente e l’omino, ormai addormentato, fu portato di corsa all’ospedale. Un povero folletto senza più energia.
Pochi giorni dopo sapemmo che era morto.
Restarono la stanza sporca, un mucchio di stracci, la vecchia fisarmonica dalla tastiera ingiallita, alcuni attrezzi del suo lavoro, un cassetto di orologi vecchi e di piccoli ingranaggi e mollettine, un mucchietto di viti microscopiche, un paltò dalle tasche sdrucite con dentro ancora qualcosa di commestibile, ormai rinsecchito, un flacone di alcool, un fornelletto a gas, la catinella bianca macchiata di ruggine dentro al lavandino, uno specchio ovale tutto camolato e, in un angolo, appeso ad un chiodo infisso nel muro scalcinato, un guinzaglietto verde, di cuoio, con un collare ed un piccolo campanellino d’ottone.
Il tempo aveva mangiato anche lui.
La cagnetta nel dipinto “L’attesa” è proprio la Stellina. E questa è la sua storia.
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8 risposte
Ti ringrazio, Pasquale, di aver pubblicato questo racconto del libro. Una storia semplice e vera, che ancora i più vecchi paesani ricordano. Una storia di solitudine, che dimostra come ognuno abbia bisogno di compagnia, di dare e ricevere affetto, sia pure da un animale, da un cane…
Una storia tra le vicende di uno dei tanti paesi d’Italia – Collesalvetti – che, come puoi bene immaginare, non c’è più e del quale i vari personaggi trattati nelle pagine sono svaniti come ombre del tempo. Ma sono storie vere, se pur “piccole”: di duro lavoro, di una umanità che si contentava di poco e che nelle difficoltà affrontava la vita senza lamentarsi troppo, quando la solidarietà e la compartecipazione tenevano più uniti, trascinati tutti nel fiume della Storia più grande, che i piccoli rivoli di tanti paesi d’Italia hanno contribuito a formare. Tutto passa. Restano i ricordi di coloro che ancora ci sono, rimasti legati sentimentalmente ad un tempo e a un mondo trascorso, più a nostra misura, ma con la consapevolezza che il vero paradiso non c’è mai stato.
Caro Lido, multiforme ingegno, il tuo deamicisiano racconto mi ha commosso. Complimenti!
Ciao, Carla.
Sono racconti di gente semplice, di un qualsiasi paese d’Italia. In tempi in cui la vita aveva ritmi diversi e in cui il dolore del singolo veniva condiviso, essendo percepito come appartenere alla comunità. Oggi… è tutto diverso. Siamo tutti più soli.
Un grande grazie e un caro saluto.
In questo commovente racconto, ammirevole per chiarezza e unità di tono, Lido si conferma prosatore di valore: nell’ ordinata sobrietà della sua prosa, per altro doviziosa di dettagli, l’autore rivela un egregio talento descrittivo capace di rendere emotiva ed emozionante la pittura di personaggi e d’ambiente.
Carla lo affianca a De Amicis.
Questo breve prosa, che parla della solitudine nella terza età, per il modulo narrativo oggettivante che accresce l’enfasi proprio rifuggendola,
a me ricorda certo neorealismo cinematografico di De Sica, “Ladri di biciclette” e soprattutto “Umberto D”.
Caro Luciano,
ti ringrazio di questo positivo commento, anche se ho ben chiaro il fatto che simili storie minori di personaggi di un piccolo paese e di un tempo ormai lontano, più per mutamento di costumi che per numero di anni, possano interessare a pochi. Tutto è mutato e certe scene, certi sapori e sentimenti, restano solo nella memoria dei vecchi. Come me. Grazie ancora e un caro saluto.
Ha l’impressione che Lido attui una scelta di rappresentazione “misurata” sotto il profilo sentimentale ed espressivo, sicché si fa interprete di una scrittura mai debordante da punto di vista dei sentimenti e delle emozioni ; e, contemporaneamente, curi altri elementi della comunicazione (compreso il linguaggio, estremamente chiaro, puntuale e lineare), che gli consentono di stare vicino alle vicende da raccontare senza però farsene coinvolgere, ma conservando la giusta distanza di osservazione e di ripresa.
Di solito uno o scrive bene poesie o scrive bene racconti, o s’intende di politica, o di Fisica, o di agricoltura o di pittura, insomma fa bene una cosa e magari si arrangia con un’altra…e allora io “mi domando e dico” per usare un’espressione dei nostri posti- come fa un cristiano a far bene tutto. C’è da rimanerci male ! Eppure tu, Lido, amico mio, sei proprio bravo in tutto e, come ti dissi in una delle mie robette che qualcuno chiama poesie, ringrazio il Cielo di averti incontrato. Ce l’ho il libro da cui è tratto questo racconto e devo dire che è proprio un bel lavoro. E non è bello solo perché è chiaro e scorre come acqua di fonte, ma perché è vero, perché c’è la storia tua e del tuo paese, con i suoi personaggi particolari– ogni luogo più o meno ha i propri – dipinti così bene che pare ti abbia suggerito la maniera proprio Anchise Picchi, tuo zio e ben noto pittore . E’ il pittore che dipinge questo piccolo Polifemo nel suo mondo di orologi, ed è il poeta che ci commuove col racconto della tenerezza per questa bestiolina e del suo scontroso, solitario dolore per la perdita di quella che gli era diventata “famiglia”, una creatura che ha trovato in lui il suo dio e il suo mondo e che, anche lei, con l’abitudine, ha imparato a funzionare come un orologio. Dice che quando un rapporto è profondo, nasce fra chi lo vive una sorta di simbiosi per cui l’uno e l’altro imparano a pensare alla stessa maniera. E questo è avvenuto fra l’orologiaio e Stellina: la loro è la storia di un amore, quel genere di amore insostituibile ed inimitabile che si può avere fra una persona sola e un animale solo, un affetto così radicato e così vero da non aver bisogno di parole. Penso che questa storia sia stata scelta fra tutte perché ad una doveva toccare, ma ce ne sono tante e tante di pagine belle in questo libro . Qui, in questo mondo di un tempo lontano, noi lettori incontriamo Lido bambino…ma, avverto chi legge, l’espressione “ bambino” non ci tragga in inganno! Non ci faccia pensare ad una creaturina rosea, e delicata, e indifesa. Credo che Lido se la sarebbe cavata benissimo da solo anche in culla , e che se ha permesso alla mamma di accudirlo sia stato per farle un piacere. Sempre per i campi, nel bosco, sotto il sole, dietro alle ranocchie, su per gli alberi…lo vedrei, piuttosto, come un folletto e di quelli che se non ci stai attento ti tirano anche una sassata. Un folletto che non vuole mosche sul naso né lacci troppo stretti, ma consapevole dei valori veri, intelligente, caparbio, e con un cuore disposto alla bontà ed alla sincerità. Con le caratteristiche, insomma di noi toscanacci capaci a seconda delle circostanze, di essere generosi o carogne con la stessa spontaneità e la medesima convinzione.
Carissima Lidia, mi hai fatto quasi … una radiografia; se l’anima avesse la capacità di impressionare la tua lastra, io sarei lì, nudo e allo scoperto. Il fatto è che certe emozioni vissute da piccoli, certe situazioni, certi particolari accadimenti, giorni e luoghi che ti è capitato di vivere, persone che hai incontrato o che ti sono state vicine, non le dimentichi più, fanno parte del tuo vissuto più fresco, fanno parte di te. La natura stessa, l’ambiente, i suoi vari aspetti e i suoi protagonisti, vista con gli occhi di un fanciullo, appare – o almeno a me è apparsa – strana, incantata, cangiante. Da ragazzo, come tutti, ho provato delusioni e dolore, la perdita di persone care, di piccoli amici… Ma mi sono sempre rifugiato, come bene hai scritto, nelle molteplici pieghe di un ambiente che mi ha accolto serenamente, in cui mi sono sentito sempre a mio agio, di notte e di giorno, ed in cui ho sempre scoperto, nascosto in qualche parte, anche tra i rovi più pungenti, un profumato ramoscello di lillà. Grazie del tuo bel commento.