Lido racconta …

Il merlo di Beppe
di Lido Pacciardi

                   ***

 

Non passa giorno ch’io non rivolga, almeno un pensiero, a Beppino, il mio compagno di cacce e di scorribande notturne… in riserva.

Ho trascorso insieme a lui quasi tutti i giorni e molte notti delle stagioni di caccia, dalla mia prima licenza nel 1958, fino a quando, per molte ragioni, ho smesso completamente questa consuetudine.

Diversi anni fa il nostro territorio era pressoché coperto da aree riservate: tenute, fattorie, zone di ripopolamento e cattura. Le ultime le rispettavamo scrupolosamente; le prime due erano terreno di conquista.

Non s’era formata ancora, in quel tempo, una consapevolezza ecologista che potesse frenare i nostri sconsiderati impulsi venatori. Anche perché le zone a noi interdette e sorvegliate dai guardiacaccia erano regolarmente percorse da torme di privilegiati – noi, allora, li consideravamo tali – che facevano man bassa, durante le battute organizzate, della selvaggina che nei pochi territori liberi era invece più scarsa e difficile da trovare, esposta alla competizione di un esercito intero.

Insomma, in riserva andavano i soliti fortunati: l’ufficiale sanitario, il farmacista, il maresciallo dei carabinieri, il veterinario, il direttore della banca, dell’Ufficio Imposte e del Registro, il pievano, qualche personalità politica, e, in genere, esponenti della classe borghese o titolata.

Sicché, un po’ per passione e un po’ per rabbia, non perdevamo occasione di infilarci anche noi in quei veri e propri paradisi venatori e prelevare, in un modo o nell’altro, la nostra parte – per la verità non indifferente – di prede.

Qualche lepre e qualche fagiano potevano notevolmente arricchire lo scarno menù quotidiano di quegli anni.

Beppino era un vero maestro nella visione notturna. Aveva gli occhi di un gatto e, ben presto, mi insegnò ogni trucco: primo fra tutti quello di non accendere mai nessuna luce, se non proprio strettamente necessaria, e cercare di vedere sfruttando il chiarore delle stelle.

– Il buio non è mai totale – diceva – e se provi a guardare gli alberi contro lo sfondo del cielo ti accorgerai quante cose riuscirai a notare.

Aveva perfettamente ragione.

Dimostrava anche un udito finissimo e riconosceva ogni squittio, ogni fruscio, e il minimo rumore: lo spezzarsi di un minuscolo ramo secco, il cadere di una foglia, il volo silenzioso di un’ala. Pareva che quasi riuscisse a sentire crescere l’erba…

Era capace, perfino, di percepire lo strisciare dei rettili.

Di questo n’ebbi prova un giorno che, durante un appostamento ai fagiani, nascosti in un roveto lungo un campo di granturco, battendomi leggermente sulla spalla, mi indicò, alzando lentamente il dito al naso in segno di silenzio, un punto del bosco che si intravedeva nel folto e dove, dopo diversi secondi, comparve, come per incanto, una grossa vipera, che Beppe scacciò, semplicemente battendo dei piccoli colpi con le dita sul terreno. Conosceva usi e costumi di ogni animale: di pelo come di penna.

Ogni uccellino, anche il più minuscolo, per lui aveva un nome. Sapeva se era stanziale o di passo, in quali periodi e quanto si fermava, di cosa si cibava e quali erano i suoi nemici naturali e il verso che emetteva. E le piante e le erbe non avevano per lui segreti. Quando andavamo per funghi, poi, pareva farli nascere! Insomma più che un esperto era una vera e propria creatura dei boschi. Perfino l’amico comune, il compianto prof. Nullo Lepori, naturalista di chiara fama, gli faceva tanto di cappello.

Era eccezionale anche nell’addestramento dei cani, che subito gli si affezionavano, ubbidendo quasi immediatamente ai suoi comandi. Anche i più riottosi e testardi si lasciavano presto conquistare dai suoi modi fermi e decisi, ma calmi.

Dai suoi cani ha sempre ottenuto tutto quello che voleva, senza mai percuoterne uno.

– Con le botte, diceva, non si educa nessuno. Il cane ti deve amare, deve aver fiducia, ti deve sentire suo ma non deve temerti. Ricordo ancora la sua Teti, una setterina a macchie scure, dal petto largo e forte: bravissima, infaticabile, ubbidiente. Una vera cacciatrice. Credo di essere stato l’unico a cui Beppe l’abbia prestata per delle uscite.

Quando la prima volta gli chiesi, conoscendo la sua totale avversione ad affidare il suo cane ad altri, che cosa avessi dovuto fare e come avessi dovuto comportarmi, mi rispose, sorridendo in modo un po’ canzonatorio:

– Nulla…! Valle solo dietro e cerca di non fare troppe padelle. Altrimenti… ti pianta lì e se ne torna a casa!

Beppe aveva modi burberi… e un cuore grande come il mondo. Alba, invece, sua moglie, aveva lo stesso cuore e una dolcezza infinita.

Quando, però, i primi soffi di tramontana scendevano dai monti pisani, lisciando i campi della pianura con le prime fredde carezze dell’autunno e le stelle parevano brillare più forte nel cielo prima dell’alba, Beppe diventava irrequieto, quasi nervoso. Cominciava a perdere interesse alle cacce col cane e alle incursioni in riserva e si volgeva, quasi interamente, ai tordi.

Li aspettava, li desiderava, si preparava al passo. Si recava allora al capanno, nei boschi del Biagiotti, dove ne aveva sempre attrezzato uno, stando attento alla posizione migliore, mai soddisfatto fino in fondo della scelta, sempre pronto a spostamenti, modifiche, cambiamenti quasi giornalieri: come avesse voluto rincorrere tutti quelli che volavano, con il capanno e i frasconi e… tutto.

Disponeva di una batteria di richiami che molti gli invidiavano. Da esperto qual era catturava da sé i primi che arrivavano, con poche panie e accorte tese, e sceglieva i migliori, quelli più attivi e che zirlavano più forte e più chiaro, cedendo gli altri.

Teneva le gabbie pulitissime, li controllava, li nutriva con miscele di fichi secchi tritati, gremignoli, ed altre… squisitezze, perché fossero sempre al meglio e in gran forma, pronti all’uso. Insomma, per lui il capanno ai tordi era il massimo, la sua più forte passione. Aveva l’abitudine e la maestria di allevare, appena nati, dei merli. Li prelevava da nidi che cavava solo in una ben determinata zona, nota tutt’ora come il Vallin lungo, che giudicava essere l’habitat di esemplari stanziali con capacità canore caratteristiche ed eccezionali.  Durante l’allevamento dei suoi tenori, come lui con malcelato orgoglio li chiamava, stava molto attento a fornir loro la giusta dieta, a chiusarli al momento opportuno e a schiusarli né troppo presto, né tardi. Dedicava loro più cure che a se stesso. Non avevano mai una penna fuori posto.

Un anno, aveva avuto la fortuna di allevare un merlo dal canto sublime. Un vero fenomeno che, come lui diceva, ti capita una o due volte soltanto nella vita. Lo aveva chiamato “Caruso”.

Al mattino, prima di recarsi al lavoro, si fermava dinanzi alla gabbia, gli parlava, lo stuzzicava, gli dava qualche bocconcino prelibato, gli cambiava l’acqua del beverello, gli ripuliva la cassetta del mangime.

La sera, al ritorno, faceva lo stesso.

Ne era letteralmente innamorato e non lo avrebbe ceduto per tutto l’oro del mondo.

Siccome s’avvicinava il tempo del passo (s’era verso la metà di Settembre), Beppino aveva portato, come gli anni precedenti, Caruso alla macchia perché facesse, ingazzurrito, la smossa, cioè iniziasse la sua attività canterina, che avrebbe continuato fino alla fine della stagione dei tordi, cioè a tutto il mese di Novembre e oltre.

Il merlo, perciò, fischiava a più non posso quando,  durante il  giorno,  la  gabbia  restava  appesa  nel  piccolo  patio lungo la strada, di fianco alla porta della cucina. I passionisti del capanno si fermavano incantati ad ascoltarlo: gorgheggi, tirate, modulazioni, striscii… senza chioccolare mai.

Meglio di un usignolo! Figuratevi l’orgoglio del padrone…

Ma sul merlo di Beppe aveva messo da tempo gli occhi anche uno che, tra una messa e l’altra, tra un funerale e l’altro, andava matto, come lui, per il capanno e i tordi.

Durante le funzioni della mattina lo sentiva fischiare dalla canonica e non si dava pace. Quel merlo gli aveva tolto il sonno… Tant’è che aveva tentato, l’anno prima, di ottenerlo direttamente da Beppino quando questi s’era presentato al confessionale per prepararsi al matrimonio, con la minaccia, in caso di rifiuto, di non assolverlo dai suoi peccati.

– Io mi tengo tutti i peccati… e il merlo! Eppoi mi  faccio sposare da qualcun altro!  Aveva risposto, a muso duro, Beppe.

Il matrimonio s’era naturalmente celebrato e il merlo era rimasto a casa sua.

La vecchia madre di Beppino, la Cecilia, era una donna un  po’ spigolosa, ma devotissima. Una vera e propria lustrapanche.

Don Giuseppe Capitini (si chiamava Beppe anche lui), cappellano, lungo e asciutto come uno stollo, si presentò un pomeriggio da Cecilia e, con la più ovvia naturalezza:

– Son venuto a prendere il merlo buono. Son d’accordo con Beppino questa volta… Quando stasera torna dal lavoro ringrazialo tanto da parte mia…

Con la gabbia del merlo sotto la tonaca, perché non sbatacchiasse e per non darla a vedere, lesto s’allontanò e immediatamente partì, per il periodo del passo, dalle sue parti, verso Volterra. Quando la sera Beppino ritornò dal lavoro e non vide la gabbia appesa di fianco alla porta, chiese alla Alba se lo avesse tolto, per qualche ragione, di lì.

– No, disse lei, non l’ho toccato. Però, ora che mi ci fai pensare… Ho visto Don Capitini parlottare con tua madre, oggi pomeriggio.

Non finì la frase che Beppino era già scattato inviperito all’uscio della stanza della Cecilia, urlando:

– Dov’è!? Il merlo, perdio! Caruso dov’èèè..?!

– Ma eri d’accordo… no? Con Don Giuseppe – rispose intimidita la Cecilia – l’ha preso, m’ha detto di… ringraziarti…

– Chiii? Chi lo ha presooo? E mi ringrazia anche? E ora come faccio, come faccio..!

E corse via sperando di fare in tempo a fermare il… ladro del merlo.

Don Giuseppe era, però, già lontano e Beppino cantava messa in tutte le lingue. Per l’ira non riusciva quasi più a parlare.

– Se gli metto le mani addosso – diceva – lo tronco! – E la Cecilia… un segno di Croce.

– Poi succeda quel che deve, ma al capanno lui ci va sulla sedia a rotelle!

E giù un altro segno di Croce della Cecilia.

– Gli faccio una messa cantata che sente suonare tutte le campane del Paradiso! Ma a rintocco! Un cappotto di… cipresso, gli faccio! Di cipresso!!

– Gesù mio! Gesù mio! E tre segni di Croce…

Ci volle del bello e del buono a calmarlo.

Finalmente se ne fece una ragione o, almeno, così parve. Cominciò a pensare come potesse recuperare il merlo che, per lui che non lo aveva mai abbandonato un attimo, era come se fosse andato all’altro capo del mondo.

Avrebbe voluto partire con la sua piccola motocicletta, il “guzzino”, e raggiungere il fuggiasco, ma l’improbabile riuscita dell’impresa lo fece desistere. Allora tentò di contattare amici comuni per avere maggiori informazioni su dove fosse andato Don Capitini col suo merlo, ma invano. Il prete era come sparito. Nessuno pareva saper nulla o… non voleva parlare.

Intanto il tempo passava e i primi tordi zirlavano tra i cerri, i lecci e gli ornelli intorno alla tesa.

E il merlo, il grande tenore nel quale aveva riposto tante speranze, non c’era…

Infine la stagione del passo si concluse senza troppe catture e la presenza dei tordi non fu proprio numerosa. Ma Beppino ne imputò i modesti risultati all’assenza del suo merlo:

– Se avessi avuto lui – diceva – sarebbe stata un’altra musica. E sospirava, e sbuffava, battendo il pugno noccoluto nella mano aperta.

Un giorno, di domenica, il merlo tornò. Pareva in forma, ma ormai il tempo del passo era trascorso. S’era proprio alla coda della migrazione, quando i tordi bottacci sono ormai arrivati ai luoghi dello sverno e solo qualche tordo sassello, più tardo, e qualche cesena, più pigra, indugia ancora nei boschi e nelle macchie delle colline.

Don Capitini lo aveva fatto recapitare da un amico comune, un giovane un po’ tonto che frequentava la parrocchia, con la preghiera di scusarsi per l’azione compiuta, insieme ad un fiasco di vino rosso del suo podere nel volterrano.

Un modo un po’ pretesco per chiedere perdono.

Ma ormai la rabbia era sbollita e Beppino, dopo aver incaricato l’improvvisato postino di recapitare a Don Giuseppe una lettera… a voce, condita con pepe, sale e polvere nera, ritirò il suo Caruso e il fiasco.

La mattina dopo, con la batteria dei richiami a spalle e il suo tenore, nonostante la stagione del passo fosse già troppo avanti, si precipitò alla tesa, speranzoso in qualche cattura e desideroso di riascoltare il sublime canto del suo merlo adorato.

Dispose le gabbie che era ancora buio. Le collocò ben benino nei cesti e mise il merlo in una posizione un poco più alta, in modo che il suo canto prendesse quasi d’infilata la valle da dove risalivano i tordi.

Albeggiava e i richiami zirlavano. Uno scoiattolo frugava nervoso tra i rami e le pigne di un grande pino marittimo poco distante. Le ghiandaie, mattiniere, avevan ormai fatto gazzarra. Già qualche pettirosso s’era avvicinato a curiosare tra le gabbie dei richiami e a beccucciare quel po’ di mangime che fuori n’era cascato. Dalla valle saliva una tramontanina tagliente come un coltello, che si infilava nelle bocchette del capanno, tra il fogliame di quercia e gli aghi di pino, da cui Beppe, attento, controllava i frasconi e i posatoi, attendendo impaziente l’inizio del canto tanto desiderato.

Improvvisamente partirono le prime note: forti, scolpite, dolcissime. Il viso di Beppe s’illuminò come se avesse vinto la lotteria. Socchiuse gli occhi lasciandosi trasportare dai versi, dai gorgheggi, dalle finissime rifiniture che, quasi, anticipava, tanto bene le conosceva e tante volte le aveva ascoltate…

D’un tratto:

– Fii-fi-fìfìfi-fififìfifuì… fii-fii-fìfifi-fìfifififuì…

I pettirossi sfrullarono via, i richiami delle gabbie cominciarono a sbatacchiare impauriti…

Beppe era sbiancato, sconcertato, tremava.

– Per la miseria, ma questa è… questa è… Bandiera Rossa!! Prete maledetto! M’ha rovinato Caruso! Me l’ha viziato… il merlo! Il mio merlooo!!

Uscì, coprì la gabbia, tolse le altre, le rimise sulla spalliera e carico dei richiami riprese, imbestialito come un toro, la via di casa. La notizia arrivò a Don Capitini.

Gli dissero che Beppino lo cercava per ringraziarlo… del vino. Il prete ripartì immediatamente per il paese vicino a Volterra, dove aveva una casetta proprio di fronte alla locale sezione del PCI, e dove un altoparlante, a tutto volume, diffondeva ininterrottamente l’inno del partito che, così, aveva dato la tessera anche al merlo.

Il quale, liberato perché ormai inservibile, insegnò agli altri giovani merli del Vallin lungo le poche ma fondamentali note della canzone che aveva da poco imparato.

 

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13 risposte

  1. Grazie ancora una volta, Pasquale, per esserti interessato ad un mio racconto. Anche questa storia del furto del merlo è tratta da una vicenda vera, cui ho assistito in prima persona e a cui non ho aggiunto nulla di mio, se non riportarla come la ricordavo quando ho scritto il mio libretto. Nei piccoli paesi toscani erano numerosi, un tempo, i personaggi “alla Fucini”, appassionati, particolari, umanissimi. Come, del resto, in tutti i paesi d’Italia; in Toscana, e in particolar modo nel pisano-livornese, con una punta in più di una sapida, coloratissima spigolosità.

  2. Cosa non si farebbe per passione! Chiedi a un uomo di aiutarti a piegare le lenzuola e ti dice :” non posso ….mi fa male una spalla…” ma se c’è da andare a caccia allora non gli fa male niente, neanche se il giorno prima ha ruzzolato le scale. Perché la caccia è caccia e non c’è altro da dire. E nessun momento è più appassionante che aspettare il passo…ma se c’è di mezzo un merlo canterino e un prete che lo guarda un po’ troppo allora ti va di traverso. Perché il demonio assume ogni veste pur di tentare un’anima pia, e un merlo canterino è la tentazione fatta penne e becco. E non c’è “ ma” che tenga. Lido ha reso vivi questi due personaggi , te li fa vedere : il prete che all’occorrenza dà un calcio alla tonaca e veste i panni del brigante, e Beppino tanto facile all’ira quanto puro nell’anima perché la cattiveria vera si accoppia a ben altre forme e a più sordidi motivi. D’altra parte…non si trova a tutti gli usci un merlo che gorgheggia e un tale miracolo del Cielo val bene una messa e anche due : si fa quel che s’ha da fare e poi ci si confessa dall’ira, dall’imbroglio, dal furto, dai propositi di vendetta e Nostro Signore ci perdonerà perché Lui, che tutto ha creato, di sicuro di merli se ne intende e capisce che quando c’è di mezzo un merlo canterino ….!! E’ un mondo che ha del magico questo che Lido ci racconta : alberi, nuvole, acquitrini, pettirossi, ghiandaie…tutto l’universo ricco e vario del bosco; e le emozioni primitive , le primitive reazioni e, in questa gente che è tutt’uno con la macchia, un’ingenuità di fondo perché nulla è mosso se non da desideri semplici, che nascono da quella parte infantile che resta in ognuno con tutti i suoi chiaroscuri. La voglia di prevalere, l’istinto a prendere a qualunque costo quello che può soddisfare i nostri desideri portano in primo piano la parte ombra di Don Capitini, la rabbia e il proposito di vendetta quella di Beppino. Sono le azioni-reazioni intense ma innocue dell’Io Bambino che batte i piedi, minaccia fuoco e fiamme, arraffa tutto con prepotenza e cattiveria anche intense, ma che non hanno radici e svaniranno presto come le ultime ombre del mattino. Mi è piaciuto molto il modo di raccontare, quelle espressioni tipiche del nostro parlato che cadono nel racconto proprio al momento giusto ,o come descrizione: il cappellano “ lungo e asciutto come uno stollo”, la Cecilia , personaggio marginale ma ben descritto coi suoi segni di croce,- tre perché se sono tre vale di più- “ Beppino che cantava messa in tutte le lingue””..o come sfogo :” se gli metto le mani addosso lo tronco”…e a volte quel ribattere sulle parole come si fa nel momento della rabbia e ce le ripetiamo così siamo sicuri che quel proposito non ce lo scorderemo “ Gli faccio una messa cantata che sente suonare tutte le campane del Paradiso…Un cappotto di cipresso gli faccio, di cipresso!” ( il verbo in fondo e la ripetizione…il tutto a stamparsi bene in mente quel che si riprometteva). Già questo mi fa sorridere : chi la voglia di vendetta ce l’ha inchiodata nell’anima non ha bisogno di ripetersi niente…quella c’è e quella ci resta e non se la scorda di certo perché viene da un fuoco che cova, sordo e tenace, e non si spenge. Quella di Beppino non è certo “un’ira funesta”…é una fiamma che esplode e dura poco, è la passione del cacciatore fregato…e, si sa…la caccia è la caccia!

    1. Cara Lidia, ti ringrazio del bel commento, da cui si intuisce quanto tu sia imbevuta di “toscanità”. Hai ben compreso che il racconto del furto del merlo è una storia vera, una delle tante comuni ai paesetti della nostra terra e, più in generale, dell’Italia tutta. Personaggi e vicende che, quando non ricordate o fissate in un racconto, si perderebbero per sempre, con le loro gioie, i loro dolori, le tragedie e le scene di costume. Sono, in definitiva, “vite” di una storia minore, che compongono la Storia con la esse maiuscola, che non si mostrano, che non sono ritenute degne di troppa attenzione, ma che traducono con il loro svolgersi la parte più autentica delle nostre campagne, con tutti quelli che, nel bene e nel male, hanno costruito il nostro presente. Ricordare – ad una certa età – è vivere, poiché i ricordi… siamo noi, che attraverso vicende, luoghi e momenti passati restiamo ancorati alle nostre radici, sbatacchiati dal vento della modernità che ci vorrebbe abbattere, omologandoci in un anonimato comune, spogliandoci dalle caratteristiche diverse su cui si fonda la personalità di ognuno, con la logica onnipresente del “supermercato”, proponendo a tutti le confezioni standardizzate e monotone, alienanti in un certo senso, di prodotti pronti all’uso, comodi anche troppo, privi di accento. Così ho voluto, nel mio libretto, riportare l’orologio dei giorni e degli anni ad un tempo e un luogo dove tutto era più difficile, sì, ma più autentico e saporito. E quando la caccia integrava per molti nelle campagne il magro bilancio familiare, ed era una necessità per quelli che avevano meno e un divertimento per quelli delle fattorie più blasonate. Ora la caccia non è più possibile, per moltissimi e vari motivi. E come stanno scomparendo molte specie stanziali e migratorie, così sono scomparsi da tempo, dai nostri paesi, questi personaggi alla “Fucini”, umanissimi, coloriti, sapidi nel loro cammino, con una parlata ricchissima e varia – ognuno a suo modo – sui sentieri impervi, ma profumati della vita di allora. Grazie ancora del tuo splendido commento.

  3. Lido, ciao! Bellissimo…
    E poi Caruso…
    In “Quella notte con Caruso” (2015. Massa Editore, pagina n. 31, terzo racconto), il “mio” Caruso è un orgogliosissimo, lucido e tronfio maschio di germano reale!
    Canta come un Dio, e tutte le papere femmina sono letteralmente estasiate. Solo Maria Callas, soprano inarrivabile, seppur attratta, rimane sulle sue. Il suo ruolo lo impone: diamine…
    Il “mio” Caruso, però, alla fine della storia, è stato un tantinello più sfortunato del Caruso merlobeccogiallo.
    Storie vere, d’altri tempi. Sapide, di sogno.
    Albe avvampate, mareggiate tremende, sole in faccia e vento di traverso. Rugiade profumate, bonacce e tempeste, profumi, suoni, lo stormire delle foglie appena mosse dallo scirocchetto. Le attese, le solitudini.
    E i personaggi “ricordevoli”, figuri inarrivabili, e preti, sempre preti! Sacerdoti, prevosti, parroci, sacerdoti…
    Lido: bellissimo!

    1. Caro Pino, sono contento che ti sia piaciuto. Una vicenda un po’… alla “Fucini”, ma sacrosanta e vera, a cui ho avuto la fortuna di assistere di persona.
      M’è sembrato giusto non lasciare cadere nell’oblio storie come questa, ed altre presenti nel mio piccolo libro, di persone umanissime, eroiche addirittura, in continua lotta contro le avversità dell’esistenza, della fatica del vivere. Quando il consumismo omologante e disumanizzante non era così presente; quando un fiasco vuoto era utile, come una bottiglia di vetro, quando un caratello di metallo si prestava a fare da secchio, e l’acqua dei pozzi era freschissima e potabile…
      E allora… ho raccontato, frugando nel sacco dei ricordi, dando accesso a quelli che premevano di più. Grazie ancora del tuo apprezzamento.
      Un caro saluto a te e al tuo splendido Caruso.

  4. Che bel racconto Lido!
    Imiei fratelli erano appassionati cacciatori e un giorno portarono un piccolo merlo ancora implume e voracissimo , che allevammo con tanto amore . Divenne un canterino fantastico solo che abitando in un condominio , e allora , non essendoci il cellulare per avvisare il rientro lo si faceva con un fischio, ogni condomino di diversa modulazione: chei breve, chi doppio, chi modulato , che esteso e chi , ebbene sì anche un bel.bandiera rossa …. Il nostro era un condominio variegato .
    Ti puoi immaginare la confusione quando Pippo, il merlo che nel frattempo era diventato come il tuo Caruso , iniziò a riproporre tutto il vario repertorio fischiettante di ogni condomino !
    Ad una certa ora toccava oscurare il bravo tenore!
    Bellissimo racconto, che mi son goduta in ogni particolare dal bosco , al cibo ai rumori ed ai silenzi necessari per questa passione .
    Un giorno mio fratello con un suo amico fecero un capanno in un punto che ritenevano essere più idoneo , ma siccome era notte non notarono la presenza di uno spaventapasseri proprio Diego le loro spalle …gli uccelli come erano prossimi di arrivare a tiro cambiavano direzione .
    Un caro saluto .

    1. Ciao, Loretta. Anche questa una storia da raccontare…
      Ce ne sarebbero molte sui “capannisti”. Accenno solo a questa: un appassionato che difettava di udito scambiò il cigolio del giogo di una coppia di bovi che aravano un campetto sotto alla sua tesa, per lo zirlo dei tordi. Stette tutta la mattina a stuzzicare gli “schiamazzi” nel vano tentativo di chiamarli ai frasconi. Fu preso in giro per anni, in paese.
      Un caro saluto anche a te. Grazie.

  5. Delizioso racconto e molto divertenti anche i commenti.
    Invece a me il merlo ricorda una vicenda triste. Avendone da bambina trovato uno caduto dal nido, piena di buona volontà lo volevo allevare. E cominciai a catturare mosche con le quali nutrivo il piccolo. Non sapevo che questi insetti contengono la cantaridina che, data in grandi quantità, è un veleno. E così il povero merlotto spirò. In compenso ebbi un passero che non volle più uscire dalla gabbia dove era stato provvisoriamente alloggiato e che cantava come “Caruso”. Ci offrirono anche una somma molto elevata per farne uccello da richiamo ma rifiutammo. Mia nonna gli dava perfino il te con un cucchiaino.
    Morì di vecchiaia all’età di circa vent’anni.

    1. Carissima Carla, il tuo merlo avrebbe preferito un pastoncino di gremignoli tritati e pane ammollato. Ma non potevi saperlo… Il passero invece, onnivoro e più resistente, campa comunque. Vedo che anche tu hai avuto storie con questi volatili, comuni nelle nostre macchie e nelle nostre campagne e giardini, amici dei nostri tetti. Sono contento che il racconto ti sia piaciuto. Oggi, purtroppo, i ragazzi hanno perduto il contatto diretto con l’ambiente in cui vivono, con le creature da noi diverse che lo abitano e che, se osservate da vicino, possono ancora insegnarci tante cose… Ti invio un caro saluto e ti auguro buona giornata.

    2. Cara Carla, nessuno che non sia un esperto sa cosa sia la cantaridina e che effetti abbia. Io da bimba detti un cucchiaino di minestra di fagioli al mio passerotto, anche quello allevato da me e cadde fulminato sul tavolo dove un istante prima saltellava vispo e sano. Sono cose che dispiacciono, ma sono fatte senza volere…quel che conta è che noi volevamo far bene e non sempre ci si riesce. Magari ora il tuo merlo e il mio passerotto volano insieme in qualche bel posto dove vanno le creature innocenti! Non ci porteranno rancore 🙂

      1. La cantaridina è un composto organico velenoso, contenuto nelle ali o elitre della cantarde (mosca spagnola, verde brillante, un disastro quando in folto gruppo aggrediscono le olivete. Una volta le combattevano con miscele a base di melassa, ma con scarsa efficacia…). La cantaridina veniva un tempo usata al posto… del Viagra. Mah..!

  6. Cara Lidia, di “volatili” ne ho allevati tanti, molti dei quali con scarso successo, in quanto sono affetti anche loro talvolta da malattie non sempre curabili. Perché tanti? Perché davanti a casa avevo l’Ufficio della Protezione Animali il cui gerente, sapendo che eravamo di coratella tenera, ci faceva trovare qualche infermo nell’angolo del portone di strada peraltro frequentatissima da mezzi di ogni tipo essendo proprio nel centro della città. Il disgraziato – ossia il gerente – aveva poi convinto mia madre che una volta guarito non si poteva liberare per l’imprinting- in quanto secondo lui non era più autosufficiente- per cui gran parte della mia vita è stata rovinata da tutti questi uccelli tenuti liberi in certe stanze dell’appartamento. Non più vacanze, non più gite per non abbandonare i derelitti. Però non si deve credere che tutti gli animali ricambino l’affetto che si dà a loro. Alcuni rimangono del tutto selvatici ed altri sono veramente perfidi nei confronti perlomeno dei loro compagni di ventura spesso gelosi e molto vendicativi. Poi ci sono le eccezioni come il passero di cui ho parlato sopra nutrito dalla madre, che riusciva ad entrare in casa da una finestra aperta in un’altra stanza, e che non volle mai abbandonare la gabbia arrugginita e tarlata in cui era stato provvisoriamente alloggiato, la Rurù di mia madre, colomba che viveva di notte in piccionaia e di giorno con i padroni e andava a mangiare i piselli quando cuocevano nella pentola e faceva il bagno nella bacinella mentre si lavavano i piatti e altre prodezze e infine il Cì, passero trovato in uno scompartimento di seconda classe quando le classi erano tre, che mangiava gli spaghetti in volo – non so per quanti mesi anche noi consumammo questo tipo di pasta- e gli affettati. Fu pestato accidentalmente da mia nonna perché si era andato a nascondere in un tappeto. Mia madre pianse tanto che nessuno in Ufficio osò domandarle che cosa le fosse successo. Il Cì fu sepolto in una scatolina di cartone riempita di bambagia dietro la lapide del nonno in cimitero.
    Poi avemmo una rondine con un occhio nero ed uno azzurro… Piccole storie quasi tutte raccontate nei miei libri di poesia. E sono sempre vissuta in città… Meno male!

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