Un racconto di Pasquale Balestriere: “La fuga”

   

 

 LA FUGA

di Pasquale Balestriere

 

La sera e il gatto

E venne il buio, smorirono le voci. La solita storia d’usci chiusi e di suoni affiocati.
Ercolino, gatto lunulato, svoltò l’angolo senza il pasto serale.
“La sconfitta dal topo” si disse.
La profondissima sera scintillava irrequieta di stelle: piegate le vibrisse,  nella sua camicia di pelo s’acciambellò il gatto, s’agglutinò, si dispose al ronfo immemore fino al domani.

L’uomo

Anche l’uomo, fulvo  meridionale, precipitò nel sonno, stanco di capiufficio  e noie diurne.
Poi risognò  -rivisse?- l’antica storia.

Otrionèo

Volava Otrionèo sull’erba, in corsa affannosa e violenta, col terrore dei capelli irti e degli occhi sgranati.
Stranieri, balzati a terra da basse e lunghe navi, sciamavano nei campi. Armi squassavano orrende, grida di vittoria e di morte s’udivano.
Fuggiva Otrionèo, colono pitecusano[1], per un sentiero troppo vicino all’approdo, donde l’avevano scorto guerrieri partiti alla sua caccia. Ondeggiavano criniere d’elmi, minaccia alla vita.

Con i raggi di fuoco del sole calò dall’alto il dio-alidorate: “Ma dove corri, pitecusano, se questi pirati-lunghelance ti sono addosso e già preme la morte?”
Passi pesanti s’udivano sul sentiero fiorito e avevano il rombo del grande trapasso, accordavano il tempo al rimbombo del cuore di Otrionèo.
“ Impugna la lancia, difendi la vita” alitò mellifluo il dio.

La terra di semine e di lune succhiava il vigore dell’uomo – gambe ormai di piombo – che aveva visto navi incognite all’approdo e ferocia di galeati guerrieri. Avvertire almeno il comarca o qualcuno al villaggio …
Al dio, che continuava a soffiargli parole: “ Nacqui colono e vasaio” rispose. “ Potrò mai morire guerriero? Avrei voluto allevare nipoti, godere i frutti di questa terra pitecusana bella di sole, i frutti della fatica e dell’amore. Almeno fa ch’io possa avvisare giù al villaggio! Ahimè, sangue incombe e strage d’innocenti!”

Svanì in silenzio il dio-alidorate e l’uomo capì. Ma ancora fuggiva, con corsa più lenta e sofferta, con tuoni di passi alle spalle, lo spavento dilatato negli occhi e nel corpo, il sangue e il cuore impazziti.
Si volse, allora: grandi guerrieri, d’armi divine corruschi, gli erano addosso. Del resto, da un pezzo ne avvertiva l’ansimo ostile.
Continuò a fuggire tra i fiori dei campi, con la disperazione di muscoli e tendini tesi in sforzo supremo. E già quasi appariva il villaggio, e già quasi levava il suo grido d’allarme.

D’un tratto, alla schiena, un dolore tremendo e totale: dal petto sboccarono sangue e ferro.

Cadesti, Otrionèo, su soffice terra odorosa, quella arata il giorno prima con l’amico-fratello Mènippos. Dolce t’accolse rapida morte. E dunque non vedesti la corsa alla difesa dei tuoi forti compagni e poi la fuga dei tracotanti nemici: ché certo il volto tuo si sarebbe aperto al sorriso. 

Quando tutto fu finito, alla pira affidarono il suo corpo i cari compagni: poi le ossa raccolsero e lavarono con vino puro, le deposero nell’urna.

Epilogo

Rivive dopo mille e mille e settecento anni la tua fuga disperata, colono pitecusano, lungo un  sentiero di creata memoria ch’è ora una strada asfaltata e rombante di auto indifferenti. Inerme cadesti qui, dove ora siede questa bianca casetta e si specchia nel porto; dove una volta c’erano fiori di campo e oggi c’è verde furente di rovi.
Forse la tua tomba si trova tra quelle strappate al cumulo degli anni, quasi sulla riva del mare, nella baia di San Montano: la tomba di Otrionèo, sfuggito, forse, al ciclo delle incarnazioni. 

O forse Otrionèo è l’uomo che sogna.  E racconta.

                                            Pasquale Balestriere

 

[1] Pithecusa o Pithekoussai era il nome greco dell’isola d’Ischia.

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9 risposte

  1. Conoscevo già ” La Fuga”, un racconto spettacolare, avvincente, che ti trascina dentro, ti accora partecipe al ritmo di parole che si inseguono e ti inseguono, con un lessico straordinario che ti porta a considerarla tutta l’esistenza come qualcosa per cui non è mai lo stesso il sole che sorge e tramonta.

      1. E fino lì ci arrivavo anch’io. Il racconto sembra fare riferimento a qualcosa di già scritto probabilmente in greco. Il fulvo è un riferimento casuale o una caratteristica somatica degli abitanti dell’isola che indica una precisa provenienza? Ad esempio i biondi che troviamo in Sicilia indicano l’ascendenza normanna. O Otrionèo sii meno sibillino e istruisci l’amica tua ignorante!!! E forse qualche altro lettore clandestino che non osa intervenire in un blog di così alto livello.

        1. No, Carla, il racconto fa riferimento solo a se stesso. E il riferimento è casuale. Sul territorio isolano abbondano le capigliature castane, nelle varaie tonalità; seguono quelle nere, poi le bionde e le rosse. Poi ce ne sono molte … bianche.

          1. Se è così doppiamente bravo. Credevo che il racconto fosse la trasposizione di qualche leggenda locale.

  2. Racconto che la dimensione onirica rende diacronico e che recupera pienamente il senso delle radici originarie.
    Nulla di vago, di fantastico, di surreale, solo coscienza storica individuale.
    Molto opportuno lo stile “omerico”, icastico e scolpito, che Pasquale escogita per questa narrazione straordinariamente nitida ed efficace.
    Concordo con Tino: “La fuga”, pur nella sua brevità, è un piccolo capolavoro.

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