Isabella Morra

 

                         ISABELLA MORRA

     POETESSA DELICATA E SFORTUNATA

 

Sui manuali più diffusi di Storia della letteratura italiana spesso non si fa il minimo cenno di Isabella di Morra o Isabella Morra. Più facilmente si incontrano – per quanto riguarda quell’epoca, che è il Cinquecento – Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Vittoria Colonna, Veronica Franco, Tullia d’Aragona.

Come poetessa è  una (ri)scoperta di Croce che, nel 1928, si arrampicò fino al castello di Valsinni per conoscere la dimora-prigione di Isabella e per capire i lati oscuri del dramma che la coinvolse. Esperienza che divenne materia del saggio “Storia di Isabella Morra e Diego Sandoval De Castro”.

Di famiglia baronale, Isabella nacque a Favale (l’odierna Valsinni, in provincia di Matera) nel 1520 (ma la data non è del tutto certa).  Sembra peraltro che la famiglia Morra fosse addirittura di origine gotica o, quanto meno, normanna. Certo fu pesantemente implicata nella congiura di Capaccio (1246), ordita per uccidere Federico II di Svevia, fallita la quale i congiurati furono tutti giustiziati e anche qualche esponente dei Morra, che non volle o non riuscì a fuggire, pagò con la vita. Dalla famiglia Morra, feudataria del posto, prese il nome del paese di Morra, in provincia di Avellino, cui in seguito si aggiunse l’aggettivo “Irpino”. La denominazione fu ancora trasformata  in Morra De Sanctis  per aver quel paesino dato i natali al celebre critico letterario Francesco de Sanctis.

Ma torniamo a Isabella e alla sua dolorosa e breve storia. Il padre Giovan Michele, nella guerra che nel Cinquecento oppose a lungo Francia e Spagna  per il possesso dell’Italia, si schierò dalla parte francese: scelta sbagliata se, ancora una volta, la spedizione francese in Italia,  causata dal Sacco di Roma (1527)  da parte dei lanzichenecchi, dopo iniziali successi, si risolse in un sostanziale fallimento per la morte del comandante Odet de Foix, visconte di Lautrec, durante l’assedio di Napoli.  Giovan Michele nel 1528 dovette riparare in Francia ( insieme con un figlio Scipione, che divenne un brillante diplomatico e fu addirittura segretario della Regina di Francia Caterina de’ Medici)  e vi rimase poi per il resto della vita, in parte dimentico del resto della famiglia.

Isabella rimase, con gli altri familiari, nel castello di Valsinni : la madre, Luisa Brancaccio, era sempre chiusa nelle sue stanze in preda a una forma depressiva; intristivano ulteriormente Isabella  i fratelli rozzi e violenti, il paesaggio brullo e ostile e la solitudine, interrotta, per fortuna, dalle visite del precettore che l’aveva ben educata alla letteratura, acuendone la sensibilità poetica. Fu costui, che era canonico e pare si chiamasse Torquato, a stabilire un contatto tra lei e un nobile spagnolo, Diego Sandoval De Castro,  e a favorire lo scambio epistolare , assumendosene personalmente il compito. La cosa non passò inosservata e nel paese si cominciò a mormorare. E, sebbene il rapporto fosse -come sembra- solamente epistolare (e neppure è scontato che fosse amoroso, in quanto la moglie di Diego era amica di Isabella ), i fratelli, venuti a conoscenza della cosa, prima uccisero il canonico, poi Isabella e, infine, tesero un agguato a Diego e tolsero la vita anche a lui, rifugiandosi poi in Francia presso il padre Giovan Michele per scampare alle ire degli Spagnoli. Era il 1546 e la povera Isabella concludeva la sua vita a soli  26 anni.

Per capire  la bravura poetica di Isabella, occorre riflettere sul fatto che ella visse isolata, mille miglia lontana da qualsiasi contatto culturale e artistico (accademie, salotti, corti, università…) e perciò la sua poesia è intimamente legata all’essenza della sua vita, la rispecchia, ne dice l’agrezza e l’abbandono.

Quanto alla produzione poetica, di lei ci rimangono solamente dieci sonetti e tre canzoni, rispetto a un numero di componimenti che dovette essere molto più alto.  E benedetto sia il ritrovamento,  sia pure di questi pochi componimenti, tra le  carte processuali riguardanti la morte di Isabella,  perché fa in qualche modo  giustizia di quella damnatio memoriae a cui i fratelli assassini l’avevano destinata.

Se nei sonetti si riflette una personalità sensibile e dolente,  a cui è negata ogni prospettiva di vita felice, relegata com’è in un luogo che non ama e da cui vorrebbe evadere, le tre canzoni elevano Isabella in una sfera di serenante spiritualità, dove è attratta dall’amore di Dio.

Qualche critico l’ha definita petrarchista. Io non ne sono affatto sicuro, perché mi par di notare in questa poetessa, strappata alla vita in così giovane età, una voce sicura e personale.

Riporto di seguito un sonetto di Isabella:

 

D’UN ALTO MONTE ONDE SI SCORGE IL MARE

 

D’un alto monte onde si scorge il mare
miro sovente io, tua figlia Isabella,
s’alcun legno spalmato[1] in quello appare,
che di te, padre, a me doni novella.

Ma la mia adversa e dispietata stella
non vuol ch’alcun conforto possa entrare
nel tristo cor, ma, di pietà rubella[2],
la salda speme in pianto fa mutare:

ch’io non veggo nel mar remo né vela
(così deserto è l’infelice lito)
che l’onde fenda o che la gonfi il vento.

Contra Fortuna allor spargo querela,
ed ho in odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.

                          ***

 

Isabella perse di fatto il padre all’età di otto anni circa, quando Giovan Michele dovette fuggire in esilio, e da questo sonetto si può capire quanto quel vuoto sia per lei opprimente: nel secondo verso, rompendo volutamente il ritmo dell’endecasillabo, Isabella, con una certa solennità, si fa figura poetica o personaggio letterario, quasi producendosi su un’ideale ribalta  e sottolineando con il sintagma “tua figlia” un forte legame d’amore. Ma quel padre neppure merita un tanto intenso sentimento: infatti accoglierà presso di sé i figli assassini e fuggiaschi e si preoccuperà di loro. E della sventurata Isabella si ignora perfino il luogo di sepoltura.

 

 

 

 

 

[1] Legno spalmato per “nave” è espressione petrarchesca (F. Petrarca, Le Rime, Giunti-Barbèra, Firenze, 1976, sonetto XLIV- 271 )

[2] Di pietà rubella: nemica di ogni pietà.

Altri scritti dello stesso autore:

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email

2 risposte

  1. La disposizione degli accenti ( specie nel secondo verso) non è sempre armonica, nondimeno l’eloquio poetico ha un empito e una sostenutezza che lo rendono, in più punti, nobile e pregiato.
    La parte più riuscita del sonetto è la seconda quartina, eloquente e dolorosa lamentazione per la sorte avversa, poi proseguita e completata nelle terzine successive.

  2. Bella e commovente questa vicenda che non conoscevo e bello il sonetto seppure in qualche punto il ritmo inciampa. Ma considerando quei tempi per una giovane donna, non possiamo che ammirarla

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *