CARLO BETOCCHI
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L’ultimo carro
Prima che l’alba sfarfalli,
dentro un suono di sonagliere
l’ultimo carro a cavalli
passa, al grido del carrettiere.
Terribilmente giocondo
è questo suon di sonagliere
squillante nel buio mondo
al grido aiuh! del carrettiere.
Sveglia chi deve svegliare,
il can del giardino di rose,
il gallo che sa cantare,
le lavandaie, belle spose.
Entrando nella farina
sveglia il pane, fin dentro il forno,
squillasse in campi di brina,
di pane riempirebbe il mondo.
Passando a una casa gialla
che l’uomo dice inabitata
turba un’occulta farfalla
dentro un solaio addormentata.
Va il suo cavallo mancino
con una zampa chiotta chiotta:
sovra il lastrico, argentino
il cavallo manritto schiocca.
L’ultimo carro a cavalli
passa al grido del carrettiere,
con strepitosi sonagli,
avanti l’alba, in strade nere.
La messa disertata
In un borgo selvaggio,
in un borgo della montagna,
sotto l’ombre del faggio
una chiesa si lagna;
un’erta strada oscura
porta tra le sue mura.
La campana ha suonato,
non un uomo si vede ancora,
raccolti sul sagrato
s’accapigliano alla mora;
e fanciulli cattivi
lanciano acuti gridi.
In chiesa malinconica
sta il prete con la stola gialla,
una luce inarmonica
di qua e di là sfarfalla;
terribilmente bruna
ogni cosa vi sfuma.
Quella povera donna
che sta sgomenta è inginocchiata
all’altare della Madonna,
e quell’altra disperata:
poveramente disperse
sotto l’ombre universe.
Nel mezzo è il corpo bianco
della chiesa, di tre fanciulle,
il cui cantare stanco
vola alle travi brulle;
il prete non risponde
a quell’anima monde.
Ma Gesù Cristo volle
Due bambini a piè dell’altare,
prese due tristi zolle
le fece respirare;
ed erano due pargoli,
eran nudi com’angioli.
In essi, che baloccano
sopra gli scalini di marmo,
meravigliosi toccano
i raggi d’un bel sole calmo;
vive, nel Corpus Domini,
la Messa senza uomini.
Di questo parlar mio
Di questo parlar mio, che si frantuma,
so così poco come il terrazziere
sa della tazza ritrovata in cocci
entro il suo sterro: e qualche coccio ha un suo
quieto brillare, un poco spento
dalla terra, che ricorda altri giorni,
ed altre forme, anzi l’intera forma,
la genuina e perfetta,
sotto un sole che fu per un momento
al suo apogeo, e brillò sulle labbra
giovanili che bevvero, fresche
come prugne a settembre,
de’ suoi colori, alle soavi nebbie
che li velavano: labbra,
tazza e bevanda ancora vive in questi
pochi frammenti; e il resto è sogno.
Così, da più oscure latebre
Così, da più oscure latebre, si libera
un io sconosciuto, invecchiando, cui
non badammo da giovani, o che intravisto
tememmo, e parevaci il peggio di noi,
il più abbandonato e senza speranza;
eppure era lui, nella sua essenza precaria
era l’uomo, nella triste sua carne,
e mortale destino, e ivi dentro
il suo amore, melanconico e vorace,
e fatuo, indegno di risposta: e ora che il crudo
suo vero rivelasi, tu, anima, specchio
d’eterno, che cosa farai? Così s’interroga
il vecchio, dondolando la testa, mentre
soffre e dubita.
Lo stravedere dei vecchi
Lo stravedere dei vecchi! Guardateli!
Ascoltatene uno, come son io, forse
il più debole! La mente che vacilla,
e l’azzurro che spera, mentre l’ombra
lenta, furtiva, risale i tetti:
alle mie spalle scompaiono ninnoli
e oggetti, caracollano via tavole
e sedie, s’involano alcove, trepide
masserizie amorose svaniscono
via leggere, la mia vita si spoglia,
tutta perduta vibra nell’azzurro.
Carlo Betocchi
Carlo Betocchi nacque a Torino nel 1899 e morì a Bordighera il 25 maggio 1986. Trasferitosi ancora piccolo a Firenze con la famiglia, studiò all’Istituto Tecnico fiorentino, dove conobbe Piero Bargellini. Diplomatosi perito agrimensore, partecipò, negli ultimi anni, alla Prima Guerra Mondiale. Nel 1928 fondò, con Bargellini, la rivista Il Frontespizio. Tra le sue numerose raccolte di poesia si ricordano Realtà vince il sogno (1932), L’estate di San Martino (1961), Un passo, un altro passo (1967), Prime e ultimissime (1974), Poesie del sabato (1980). Antonio Porta ritiene che Prime e ultimissime “sia il suo miglior libro perché trova nella fioritura imprevedibile della vecchiaia … una forza di accenti e un rigore di discorso che prima veniva deviato verso una ingenuità lirica autentica ma non sempre convincente” (A. Porta, Poesia degli Anni Settanta, Feltrinelli, Milano 1980).
Betocchi è poeta singolare e indipendente, anche se qualcuno ha voluto accostarlo in qualche modo alla corrente ermetica.
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3 risposte
“La vita è un testo che si dispiega in una sorta di libro, in cui convivono forme, suoni, colori, parole, azioni […]. Tuttavia non sempre siamo in grado di leggere questo libro che pur ci appartiene. O forse non vogliamo. Eppure il libro c’è, sta lì, si arricchisce giorno per giorno…”
Quste belle parole di Pasquale, messe come premessa al blog che ci ospita, paiono perfettamente consonanti con le liriche di Betocchi che, con un linguaggio pulito e diretto, ci svela – o meglio, ci indica – il mistero dell’esistenza, la realtà della vita. Non con artificiose dissertazioni metafisiche, ridondanti interpretazioni o sospetti ermetismi, ma con la semplicità delle cose che ci stanno intorno, anche le più umili, le quali ci parlano e ci insegnano. Attraverso il costante legame con la natura il Nostro tratteggia ambienti, situazioni, personaggi, oggetti che hanno una loro voce e che con noi vogliono dialogare per guidarci alla scoperta del significato e del mistero della vita. Forse in lui alberga ancora un fanciullino pascoliano, trasportato in un Novecento denso di contraddizioni. In un secolo via via sempre più sordo al canto della natura, alla sua ricchezza, che non sa più porgere orecchio al dolore, che però non è mai in Betocchi disperazione, ma quasi gioioso soffrire, che non può non far parte di ognuno di noi e che, pur presente in ogni cosa, non riesce ad offuscare il gioioso mistero del mondo e della nostra esistenza.
Come sono belli questi tuoi commenti Lido! Semplici, chiari e sinceri. Si sente che vengono da un poeta…non c’è quell’erudizione che si ritrova e non di rado nei commenti di certi critici di scuola, quando si compiacciono di sfoggiare un’erudizione tanto mirabile quanto noiosa per chi del mestiere non è. C’è umanità, c’è cuore.
Queste poesie mi sono piaciute perché le trovo rasserenanti. A me non pare che nel poeta ci sia amarezza quando parla della vecchiaia. Mi sembra, anzi, che il vecchio dell’ultima poesia , ripensando alla paura che da giovane ne aveva, ora che c’è arrivato ne parli in modo quieto , senza farne un dramma, come di cosa da accettare con rassegnazione perché parte del ciclo della natura. La vecchiaia, con tutti i suoi guai, appare anche come il momento in cui la vita si spoglia di molte cose e si fa sotto alcuni aspetti più lieve…come se lo sfumare di certe facoltà avesse un suo lato buono e ci regalasse una nuova leggerezza nel distaccarci dalle preoccupazioni che ci hanno sempre angustiato. E’ come dire che ogni cosa , se la si guarda e prende per il verso giusto, un po’ di buono ce l’ha. Un modo di parlare saggio e amichevole, certo non è allegro, ma neanche amaro . Uno che dice “ tutta perduta vibra nell’azzurro” non vedrà tutto rosa ma nemmeno troppo nero, tanto per restare in tema di colori. E d’altra parte una persona di fede come il poeta appare in “ la messa disertata” valuta le cose in maniera diversa da chi non crede in nulla. Mi è piaciuta anche la prima: tutta un gioco di suoni : sonagli, grida, canto di galli , il cane che si desta, lo zoccolio dei cavalli, il fornaio, le lavandaie…leggi, e vedi e senti i suoni, le voci :è il ridestarsi del giorno, è il sole che torna, è la vita che ogni mattino sboccia uguale e sempre nuova, operosa e lieta, il trionfo della luce sulle tenebre. C’è nell’aria il profumo del carpe diem…ogni giorno è una conquista e va vissuto nella più gioiosa pienezza possibile.