Sergio Corazzini, Desolazione

Sergio Corazzini

Corazzini (1886- 1907) pubblicò la sua prima raccolta di versi,  “Dolcezze”, a diciotto anni. Ne seguirono altre cinque. Morì a 21 anni. Ebbe poco dalla vita; ma la sua opera prometteva poesia.
Nella conposizione che proponiamo è evidente la stoccata al dannunzianesimo ma anche tanta autocommiserazione (che in qualche punto sfiora il masochismo), l’affranto  rifiuto della poesia e i toni dolenti.

Desolazione del povero poeta sentimentale

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te
arrossirei.
Oggi io penso a morire.

III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle catedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

 

Sergio Corazzini

(da Piccolo libro inutile, 1906)

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3 risposte

  1. Il titolo dice già tutto dello stato d’animo del poeta, stanco di vivere e al contempo desolato davanti all’idea della morte. Uno stato d’animo che prima o poi, a lungo o per brevi momenti, in maniera più o meno angosciosa, ogni uomo ha provato. E’ una poesia dal sapore di prosa, in un lessico semplice e immediato, in sintonia con un animo ripiegato su se stesso e poco propenso a voli lirici, un linguaggio che va dal quotidiano , adatto a un clima di dolore, di stanchezza che rasenta lo sfinimento , di piccolezza, di tristezza, al prezioso dove certe parole rivelano la scelta voluta di espressioni colte e raffinate. Il tutto si muove su un ritmo frammentato che suona come un respiro ansimante, difficoltoso o come un susseguirsi di singhiozzi; è il fiato corto , il respiro dell’angoscia. L’atmosfera come di preghiera, di supplica e il susseguirsi di immagini religiose danno l’impressione che il distacco dalle cose della terra sia avvertito come un fatto già molto vicino. E’ una poesia che sconforta, che fa scattare in chi legge, almeno in me, una sensazione di compassione e di disagio.

  2. Una palese confessione a se stesso. Quasi un sottile piacere nel riconoscere il proprio dolore, il volere immergersi in totale solitudine nel silenzio, per poter piangere sulla propria incapacità di vivere. Si avverte evidentissima un’aria crepuscolare, dove la desolazione e la muta disperazione la fanno da padroni. Eppure in questa oscurità si avverte anche un’ansia d’amore, in un atteggiamento di mistica attesa. Non è un dolore urlato, quello del poeta; è un dolore confessato solo a se stesso, quasi senza lacrime. Un dolore muto. Quello che fa più male… e scava più a fondo.

  3. Questa lamentazione di Corazzini, malgrado l’andamento anaforico, il refrain ostinato, quasi ossessivo dell’invocazione alla morte,
    questa “litania del trapasso”, però, come osserva Lido, si svolge lungo una scrittura lucida, essenziale, lontana dal sentimentalismo lacrimoso dell’enfasi autocommiserativa.
    È una scrittura poetica non solo sobria e dignitosa ma anche di alta caratura formale, aliena da ridondanze e compiacimenti gratuiti, capace persino, ritraendo se stesso, di immagini di commovente dolcezza.

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