ASSUNTA SPEDICATO
Assunta Spedicato nasce a Bisceglie dove, a seguito della prematura morte del padre, a soli 14 anni è costretta a intraprendere un’attività lavorativa per poter continuare gli studi. Le incomprensioni e l’ambiente familiare talvolta poco accogliente, la portano in breve a trovare rifugio nella scrittura, in particolare nella poesia. Col tempo perfeziona lo stile e riscuote diversi consensi. Nel 2014 pubblica la raccolta “Dedalo in luce” in qualità di vincitrice del Premio “…alla ricerca della prima perla” per la MonteGrappa Edizioni; nel 2017 pubblica la sua seconda silloge “Ubriaco di vita i miei giorni” in qualità di vincitrice del 1° Premio alla terza edizione del Premio letterario nazionale Casinò di Sanremo “Antonio Semeria”; nel 2023 la “Rivista Letteraria” diretta da Giuseppe Amalfitano le conferisce il 1° premio per la poesia al 28° Premio letterario “Maria Francesca Iacono” città di Ischia e le pubblica la silloge “Come la luna”; nel 2024 giunge alla sua quarta pubblicazione “Strade al Mare” grazie al 1° premio per la poesia inedita “Sandra Mazzini” conferitole al XXI Premio Letterario Nazionale Città di Forlì dal Centro Culturale L’Ortica di Forlì.
Dal 2018 è stata coordinatrice del Premio letterario internazionale Napoli Cultural Classic, giunto alla XVIII edizione. Negli ultimi anni, inoltre, ha fatto parte del Comitato Editoriale Libri nel Borgo Antico, festival letterario organizzato dall’Associazione Borgo Antico di Bisceglie e collabora in qualità di giurata in diversi premi, tra questi, dal 2020, al Concorso “Trieste… Invito alla Poesia” indetto dall’Associazione Poesia e Solidarietà di Trieste e, dal 2022, al Concorso letterario “Il Dono per la Vita” indetto dalla FINTRED Av/Sa (Federazione Italiana Nefropatici Trapiantati Rene e Donatori) avente come finalità la sensibilizzazione ai temi inerenti le donazioni di sangue, organi e midollo.
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Alcune poesie
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Occhi da pensare
I miei occhi non ascoltano più
la nitidezza del paesaggio, se ne stanno
seduti ad esprimere l’asciutto
nella pioggia dirompente di colori
con l’andare
a definire tortuose densità.
I miei occhi se ne vanno
arrancando per odori
con le mani tuffate dentro l’aria
e i pori che si spogliano d’inverno
per giacere al tepore della luce.
Ma se è vero che il libro chiuso
non è limite al racconto
e che il prato è sempre verde
anche se dirada
di certo ci sarà dell’altro pane
per sfamare occhi da pensare.
Questo il credo
da quando un sogno m’ha svelato
che al volo non bastarono le ali.
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Convivenze
C’è un segno di resa
nelle cose rotte che non si vanno ad aggiustare
e si lasciano andare, con l’attitudine a guardarle
come se ci si specchiasse
con riflesso affezionato, inclini ad accettarsi
così come si resta, usati ed abusati
come se nel riconoscersi fosse insita la via,
il mezzo a spartire un raggio di clemenza.
Forse sarà umana l’idea di riciclarsi
l’ingegno a concepirsi altro. Va detto
che non è facile sul tardi,
quando le pieghe sulla pelle son scavate,
pensare di rimediare al meglio
gettando via gli schemi.
Se pure fossi io traguardo di alterna prospettiva
per prima dovrei pensare a far pronte anime e persone
abituarle, somministrando congedi graduali
perché c’è un vizio di possesso, persino nel più caro
che attenta la pazienza e la reclama all’infinito
e non ammette gli si cambino i rapporti
anche quando sono rotti
e non c’è verso di aggiustarli.
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Letarghi
Sta tutta lì la tua poesia
nel trolley imbarcato ad ogni passo
per un viaggio proiettato tra le stelle
di cui credi detenere l’esclusiva.
Sta lì, nell’ovatta della roba
che non puoi portarti addosso,
negli strati d’un mondo senza vento
o a lato di una tasca, dove trattieni
quel che avanza al necessario.
È tutta lì, anche se poi non credi
possa entrare altra poesia
nel bagaglio di chi ti viaggia a fianco
o che possa uscire da una sua piega
a sgualcirti la stiratura della pelle.
L’hai colta nel solco ereditato
senza impegno, così come fioriva.
L’hai fatta tua prima del tempo
e mantenuta nel tempio di un’idea
con le preghiere della notte, recitate
per cullare e addormentare le paure.
La mastichi tuttora, consumando
consuetudini, nutrendola del vizio
di risarcire abusi abusando le parole
o di compiacere l’ovvio amore per il pane.
E invece hai rimboccato le distanze
tra te e il verso improrogabile del tempo,
da me e dall’involucro dei nostri sensi,
tra noi e il sogno divenuto l’incubo
di non riuscire più a cogliere poesia
dal ritratto attento delle nostre vite.
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Svolta al solito finale
(lettera aperta alla felicità)
…e nel riflettere altro dolore
ancora giovane mi muore la felicità.
No, stavolta non mi morire
non ho più voglia di confezionarti ceri
né di lasciare fiori alla croce sull’asfalto
preferisco razionarti ora
saperti del biancore della luna
piuttosto che vederti bruciare nella luce.
Per una volta, prova a vincere la voglia
missionaria che ti spezza in pane
ragiona
come potresti tu, nata dal nulla
così minuta e tenera, prestare soccorso
a tutte le onde che si piegano in mare?
Una goccia non può sedare i rovesci del cielo
neanche se tu fossi un recipiente saldo
sapresti contenere l’emorragia del vento,
troppo breve il filo di sutura
e isolata l’intenzione di riparare
a strappi piccoli e grandi, al morso
che sta iniettando rabbia
dai lembi al sangue della Terra.
No, stavolta non ti lascerò morire
non ti tradirò coi miei risvegli
avrò cura, mia fragile felicità, e per una volta
almeno, potrò giacerti accanto, ubriaca
e sana nell’illusione che tu sia intoccabile.
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Ritratto di una sera
Brillava come nuova la campagna
attorno al casale rivissuto
all’interno ogni spazio era misura
ed ogni cosa sembrava volta indietro
perfetta pure l’aria prossima alla sera
nel suo esaltare il tondo della luna
mentre vago si rendeva il manto
di umidità che trasaliva dalla terra.
All’ombra cascante delle giacche
fremevano vivaci nell’attesa
le gonne leggere come foglie
e i foulard spartani sulle braccia
ad accennare il fremere d’autunno.
E quando in fine sedemmo per la cena
tra una parola spesa e l’altra tralasciata
mentre ciascuno nel proprio dibatteva
interna mi si schiarì la tua tristezza
di cera avevi il volto nell’andare oltre la mia schiena
mentre volgevi languido più in là
a saldare il sorriso ad un saluto. Per me
nessuno sguardo prima di sbiadire.
Andasti via nel mezzo, scindendo di netto la poesia
ed io, nell’osservare il drappo di foglie ancora vive
chiudersi alle tue spalle, non ebbi più timore
dell’umidità che increspava i miei capelli.
Vidi la luna illuminare il prato di occasioni
e splendere a incorniciare il ritratto di una sera.
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Dalla sorgente al cielo
(Luigi Vanvitelli e l’acquedotto Carolino)
Sarà stato il ricordo del suono alla sorgente
il tremolio nel canto dell’acqua appena scorta
sarà stata l’idea di duplicare il cielo
a far viaggiare l’acqua sfidando vuoti e altezze
una lieve pendenza, solo quella
per preservare la voce da correnti insidiose
nel procedere lieto per tratti sospesi
tra tanto silenzio e qualche gorgheggio
e le pause studiate a gestire il respiro
per rendere al meglio i debutti in cascate
l’esordio di voci, bianche nel coro
e il ritorno nell’aria di vasche e fontane.
Sarà stata la radice educata alla bellezza
il desiderio di dare eternità al sogno
sarà stata la Dinamica Stellare, l’universo
che gli viveva tutto, compresso nella mente
a suggerirgli grandi cose, a liberare spazi e tempi
e fornire ai suoi occhi la visione
di quanto ancora lì non c’era.
Solo un genio avrebbe concepito sull’antico
un teatro così vivo per replicare all’infinito
il viaggio dalla sorgente al cielo.
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Orlo
(Beirut 27 settembre 2024)
Se fosse solo l’orlo di un abito sdrucito
t’inviterei con ago e filo a riparare col cucito
e ce ne andremmo a conoscere la stoffa
concilianti come trama nell’ordito.
Se fosse solo l’orlo un po’ sbeccato
staremmo attenti a non metterci la bocca
e finiremmo col filtrare il vino nel boccale
per brindare senza schegge all’evento occasionale.
Se non fosse il baratro che tutti noi risucchia
potremmo scegliere di starcene lontani
e riparare da un angolo del mondo
gli equilibri sfuggiti dalle mani
ma siamo solo gocce cadute nell’imbuto,
noi si cercava il mare, invece qui
si è spinti a traboccare. E mentre il peggio accade
il cielo si fa muto e non lascia evaporare.
Assunta Spedicato
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Stralci di giudizi critici
La Poesia di Assunta Spedicato si snoda quasi tutta sul registro dell’intimismo, non fine a se stesso ma come misura di quanto l’io medesimo riesca a capirsi, a penetrare a fondo dentro le proprie emozioni e di conseguenza a gestirle e a sopravvivere a quelle che lo turbano di più. C’è questo insistito domandarsi sul come e il perché degli accadimenti quotidiani nel loro evolversi spesso in contrasto con i propri desideri. (Carla Baroni)
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In un saliscendi continuo di tonalità emotive, l’Autrice ci racconta il suo mondo interiore che diviene eco e riflesso della condizione universale.
Nella drammaticità e nella speranza che ci accompagnano via via che c’inoltriamo nella sua scrittura poetica, sentiamo la sua forte e gentile volontà di resistere agli urti del vivere, esercitando la pazienza e la capacità di ascolto che ci permettono di risuonare col sentire altrui. Queste empatiche virtù, unite a un’ardenza selvatica, la inducono ad abbandonare i quartieri periferici della città con i loro edifici indifferenziati per intraprendere i sentieri appartati dell’interiorità. (Lucia Guidorizzi)
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Di questa poesia più di ogni cosa convince la felicità delle immagini che spesso si coniuga con un’acuta capacità di osservazione e di registrazione, non priva di un’assorta propensione alla riflessione. E tutto ciò trova fondamento e piena realizzazione in un tessuto linguistico denso, pacato, fecondo. (Pasquale Balestriere)
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8 risposte
Una poesia personalissima, intima, densa di immagini e di sinestesie, evocativa e raffinata.
In definitiva, godibilissima.
Grazie Lido per la puntualità nel lasciare le tue impressioni che trovo sempre acute e rispettose
È una prosa lirica intimista, un soliloquio autoanalitico, la poesia di Assunta Spedicato, che solo la sicura padronanza linguistica distingue da un libero flusso di pensiero.
In realtà la poetessa compone un diario interiore esclusivo, versificando, a dire il vero con grande libertà metrica, la trama mobile e inesausta dei pensieri e delle sensazioni che popolano una mente femminile, sensibile e vigile, governata da quella che si potrebbe definire una “logica delle emozioni”.
Infatti cuore e ragione concorrono, non di rado confondendosi, in questa scrittura poetica analogica,
rigogliosa di similitudini e di metafore.
In tal modo, nei meandri dell’anima, Assunta riscrive la realtà che la circonda.
Grazie Luciano per quanto scrivi, soprattutto per l’avermi messa davanti allo specchio a guardare i dettagli della mia scrittura. Io però la immaginavo diversa, un po’ malnutrita e incerta. Solo nell’ultima cosa che hai scritto, in quella sì, penso di riconoscermi.
Grazie davvero.
Uno degli aspetti più singolari della poesia di Assunta Spedicato è l’uso di vocaboli che non sembrerebbero adeguati al contesto “Gli occhi” non vedono ma “ascoltano” e poi “i miei occhi se ne vanno/arrancando per odori/con le mani tuffate dentro l’aria/e i pori che si spogliano d’inverno/per giacere al tepore della luce.” Assunta, quindi, attribuisce alla vista una percezione più ampia, globale, che investe tutto il suo essere creando così immagini di grande suggestione. In definitiva una poesia molto moderna, che sa osare.
Ringrazio per l’acuta osservazione, in realtà ho vissuto delle esperienze che mi hanno dato modo di riflettere sull’importanza degli occhi. Forse, a un certo punto, sarà stata la paura di perdere la vista a spronarmi a scrivere un qualcosa che mi desse coraggio. Tutto qui.
A parte il fatto che le immagini create da questa poetessa sono sempre belle, la poesia che mi è piaciuta di più è ” Svolta al solito finale”, proprio per quello che nel titolo stesso preannuncia, ossia perché esce dalla consueta idea di una felicità irraggiungibile ( idea che pare quasi appiccicata addosso all’uomo in quanto creatura decisamente fragile e inevitabilmente mortale – cosa , fra l’altro, vera) e si veste dell’incrollabile volontà di voler mantenere in vita a tutti i costi la felicità. Questo non ha niente a che vedere con l’illusione di poter essere sempre felici…si sa che non è cosa realizzabile! né vuol dire che il semplice riproporsi di esserlo basti a risolvere i nostri guai personali e a mettere alla realtà del mondo un vestitino rosa… Nulla può fermare ” i rovesci del cielo”, né è possibile che la nostra vita sia tutta luce, ma vuol dire rifiutarsi di buttare la spugna considerando partita persa la ricerca della felicità, vuol dire saper vedere ed apprezzare la parte di bene che ci è toccata, contentarsi dei quei momenti di gioia che possiamo avere, anche se sono ” modesti”, ma che sono nostri, reali, sia se conquistati sia se piovutoci fra le mani gratia Dei, e tenerceli cari. Non è necessario essere costantemente felici né godere di chissà che gioie esaltanti, ardenti come il sole…forse la gioia più vera è quieta e la sua luce è pacata come quella della luna .Non è cosa molto diversa dal carpe diem in fondo…La trovo una filosofia confortante, equilibrata, spontanea e il tutto, naturalmente , esposto più che bene.
Tutto vero, aggiungo anche di considerare la felicità, quella piccola, come una mia creatura e di nutrire per lei un sentimento protettivo, nel senso che non le permetterei mai di fare un bagno in mare aperto quando so che è frequentato da squali. Piuttosto la lascerei giocare sulla battigia, sotto lo sguardo vigile di chi le vuole bene. Poi si sa, ogni scarrafone è bello a mamma sua, però ora sono particolarmente felice perché so che il mio scarrafone è piaciuto anche a lei, e qui, in questa nicchia curata da persone preparate e rispettose, non ho alcun timore di esprime la mia gioia.
Grazie.