Una poesia carducciana: bella e vera.
GIOSUE CARDUCCI
DAVANTI SAN GUIDO
*
I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.
Mi riconobbero, e -Ben torni omai –
Bisbigliaron vèr’ me co ’l capo chino –
Perché non scendi? Perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d’una volta: oh, non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! –
-Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d’un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei –
Guardando io rispondeva -oh di che cuore!
Ma, cipressetti miei, lasciatem’ ire:
Or non è piú quel tempo e quell’età.
Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.
E massime a le piante. — Un mormorio
Pe’ dubitanti vertici ondeggiò,
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe’ parole:
-Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L’umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com’è allegro de’ passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da’ fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co ’l lor bianco velo;
E Pan l’eterno che su l’erme alture
A quell’ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. –
Ed io – Lontano, oltre Apennin, m’aspetta
La Tittí – rispondea – ; lasciatem’ ire.
È la Tittí come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio cipressi! addio, dolce mio piano!-
-Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? –
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de’ cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia;
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch’è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co ’l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Pieno di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com’era bella
Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
-Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. –
Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
Giosue Carducci
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Mi incantavo ad ascoltare la mamma di mia moglie che la recitava a memoria: bellissima. A dire il vero recitava anche un lunghissimo poemetto che descriveva le avventure di Percival, forse una particolare traduzione dal ciclo bretone, che, purtroppo, se n’è andata insieme a lei, perché non sono mai più riuscito a trovarla, e non mi ricordo i versi per effettuare una ricerca specifica.
Come se n’è andata, insieme a quella generazione che ha cresciuto la mia, quel tipo di scuola che faceva imparare le poesie, anche quelle lunghe e lunghissime, a memoria. Che fosse migliore o peggiore: non saprei dire. Io so solo che a memoria ho imparato ben poco: nemmeno le mie saprei ripetere: forse L’infinito, A Silvia, Il sabato del villaggio, Valentino, Il gelsomino notturno, Novembre… insomma: robetta (si fa per dire) rispetto a ciò di cui si stava parlando. Ricordo che anni fa per sfida personale mi proposi/imposi di imparare a memoria Marzo 1821 del Manzoni. Ce la feci in una settimana durante il turno di notte, e devo dire che la mia autostima ne giovò. Ora non sono piú nemmeno sicuro della data del titolo, che ho sparato in un impeto di reminiscenza un po’ avventata. Non chiedetemi di recitare, farei figuracce, non sono in grado, non è nelle mie corde, ma, grande nutro il rispetto e la stima per coloro che lo sanno fare.
E pensare, caro Marco, che nel lontano 1958 all’esame di licenza media, questa poesia e altre 14 sorelle scritte da autori famosi-tutte rigorosamente imparate a memoria- insieme ad altre poesie e a numerosi brani di prosa e allo studio dell’Odissea e della grammatica costituivano il rispettabile programma di Italiano presentato da noi alla commissione esaminatrice. A me toccò proprio Davanti San Guido, che “recitai”, come si diceva allora, senza alcuna esitazione dal primo all’ultimo verso, rispondendo prontamente alle domande, con grande compiacimento dell’esaminatore e del resto della commissione.
Reminiscenze di giovane ragazzo. Alle medie, dai Salesiani, non ce la facevano studiare, come altre dello stesso. La leggevo e rileggevo per conto mio. Un racconto, un dipinto, quasi, di emozioni, luoghi, figure, sentimenti. I cipressi, ancorati alla propria terra, custodi della memoria, ammonitori ed amorevoli, che esortano a posare un poco la vita, a rallentare la corsa, per tornare e ricordare un tempo più a nostra misura, ad affetti mai dimenticati.
A questa poesia sono molto affezionata in quanto legata alla mia infanzia o alla prima adolescenza. Non so più quando la studiai a scuola, se alle elementari o alle medie, so però che me la fecero imparare a memoria e la cosa non mi pesò. Ma adesso rileggendola e non affidandomi al ricordo la trovo fuori dal tempo anche dello stesso Carducci con quei vocaboli così antiquati “rusignoli”, “polledri” e le insistite ripetizioni. Eppure come di nessun’altra ci siamo appropriati di certe espressioni come “un pover uom tu se’ ” ” e il vento ce lo disse che rapisce degli uomini i sospir”, “sette paia di scarpe ho consumato”, “tu dormi alle mie grida disperate” e altre ancora. Almeno io le usate spesso, fanno parte ormai del mio lessico. Forse uno dei tanti pregi di questa poesia è proprio quello di essere entrata nel linguaggio di tutti i giorni con naturalezza, senza artifici, essendo universalmente conosciuta.
Per ultimo non sapevo che Giosue si scrivesse senza accento.
Cara Carla, prima di tutto un saluto e un abbraccio.
Hai ragione, rileggendola ora si trovano parole desuete, invecchiate, quasi… ammuffite. Ma le parole – come ben sai – non muoino mai definitivamente: si ritirano nel loro tempo, pazienti e stanche – magari osservando quelle nuove che han preso il loro posto – e hanno consapevolezza di essere ormai trascurate, poco usate. Ma ci sono ancora, pronte a ritornare alla vita. E spesso fioriscono assai meglio delle più giovani e acerbe, poiché proprio il tempo le ha cosparse di profumi lontani. Siamo noi, in parte, nella convulsione di una corsa che non ci lascia più il tempo di ascoltare, che non siamo più capaci di apprezzare la voce dei nostri antichi affetti. E certe antiche parole, non più usate, sono… bellissime.
Un classico che le persone della mia età collegano generalmente alla loro infanzia. Non ho una particolare predilezione per questa poesia anche se forse dovrebbe essermi cara dato che i cipressetti sono a due passi da casa mia ( ci sono pochi chilometri da Bolgheri a Piombino) e dunque la poesia in qualche misura parla di ” cose anche mie”…Il fatto è che per me è legata al ricordo che mi era difficile impararla perché lunga e con parole ” complicate”. Ma non è questo il punto vero, lo so,…il fatto è che ora che sono ” grandina”, se la leggo mi rivedo davanti nonno, i miei, la mia gente che ora non c’è più e a me non piace rivangare queste cose. Fanno male e basta. Lo stesso linguaggio così arcaico mi fa venire in mente nonna Natalina che per dire , per esempio, ” riconosciuto” diceva “raffigurito”…insomma non riesco a inquadrare questi versi nell’ottica di una poesia, del lavoro di un poeta famoso ecc con immagini così e cosà ecc… Non so separare la mia vita, le mie emozioni dal testo in sé che in definitiva con me non c’entra affatto. Sarà certo cosa sbagliata, sarà una reazione immatura e nel caso mio non sarebbe un fatto strano..!.il mio avvicinarmi ad una poesia è in genere cosa di cuore, di pancia, di pelle, di quel che volete meno che di testa. Che sia cosa pessima o buona poco mi importa 😀 Ognuno è fatto com’è fatto, e d’altra parte se all’ultimo momento mi sono rivoltata e sono nata alla rovescia ( in senso vero) da qualcosa si dovrà pur vedere, no?!
“Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d’un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei –
Guardando io rispondeva -oh di che cuore!
Ma, cipressetti miei, lasciatem’ ire:
Or non è piú quel tempo e quell’età.
Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
….”
Una struggente nostalgia temperata da una sottile autoironia pervade questo canto della memoria, giustamente famoso.
Il finale, satirico, ammonitore e polemico come nelle corde più autentiche del poeta toscano, è un apologo che riporta al presente personificando gli animali al modo di Esopo e si proietta in un futuro tecnologico con l’immagine dell'”ansimante vaporiera” a cui “i polledri” e l'”asin bigio” reagiscono in modo opposto.
Così, in “Davanti San Guido, passato presente e futuro si allineano in un unico tempo.