Colloquio di Ettore e Andromaca

OMERO

ILIADE

Canto sesto, 459 – 620

 

Colloquio di Ettore e Andromaca

(Un delicato quadretto familiare dove vincono gli affetti. Per un momento, ai bordi dell guerra. )

La traduzione è di Vincenzo Monti

*

…………..………. veloce Ettorre
Dalle soglie si spicca, e ripetendo
Il già corso sentier, fende diritto
Del grand’Ilio le piazze: ed alle Scee,
Onde al campo è l’uscita, ecco d’incontro
Andromaca venirgli, illustre germe
D’Eezïone, abitator dell’alta
Ipoplaco selvosa, e de’ Cilíci
Dominator nell’ipoplacia Tebe.
Ei ricca di gran dote al grande Ettorre
Diede a sposa costei ch’ivi allor corse
Ad incontrarlo; e seco iva l’ancella
Tra le braccia portando il pargoletto
Unico figlio dell’eroe troiano,
Bambin leggiadro come stella. Il padre
Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto
Astïanatte, perchè il padre ei solo
Era dell’alta Troia il difensore.
   Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque.
Ma di gran pianto Andromaca bagnata
Accostossi al marito, e per la mano
Strignendolo, e per nome in dolce suono
Chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito!
Il tuo valor ti perderà: nessuna
Pietà del figlio nè di me tu senti,
Crudel, di me che vedova infelice
Rimarrommi tra poco, perchè tutti
Di conserto gli Achei contro te solo
Si scaglieranno a trucidarti intesi;
E a me fia meglio allor, se mi sei tolto,
L’andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!
Ch’altro mi resta che perpetuo pianto?
Orba del padre io sono e della madre.
M’uccise il padre lo spietato Achille
Il dì che de’ Cilíci egli l’eccelsa
Popolosa città Tebe distrusse:
M’uccise, io dico, Eezïon quel crudo;
Ma dispogliarlo non osò, compreso
Da divino terror. Quindi con tutte
L’armi sul rogo il corpo ne compose,
E un tumulo gli alzò cui di frondosi
Olmi le figlie dell’Egíoco Giove
L’Oreadi pietose incoronaro.
Di ben sette fratelli iva superba
La mia casa. Di questi in un sol giorno
Lo stesso figlio della Dea sospinse
L’anime a Pluto, e li trafisse in mezzo
Alle mugghianti mandre ed alle gregge.
Della boscosa Ipoplaco reina
Mi rimanea la madre. Il vincitore
Coll’altre prede qua l’addusse, e poscia
Per largo prezzo in libertà la pose.
Ma questa pure, ahimè! nelle paterne
Stanze lo stral d’Artémide trafisse.
Or mi resti tu solo, Ettore caro,
Tu padre mio, tu madre, tu fratello,
Tu florido marito. Abbi deh! dunque
Di me pietade, e qui rimanti meco
A questa torre, nè voler che sia
Vedova la consorte, orfano il figlio.
Al caprifico i tuoi guerrieri aduna,
Ove il nemico alla città scoperse
Più agevole salita e più spedito
Lo scalar delle mura. O che agli Achei
Abbia mostro quel varco un indovino,
O che spinti ve gli abbia il proprio ardire,
Questo ti basti che i più forti quivi
Già fêr tre volte di valor periglio,
Ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro
Sire di Creta ed il fatal Tidíde.
   Dolce consorte, le rispose Ettorre,
Ciò tutto che dicesti a me pur anco
Ange il pensier; ma de’ Troiani io temo
Fortemente lo spregio, e dell’altere
Troiane donne, se guerrier codardo
Mi tenessi in disparte, e della pugna
Evitassi i cimenti. Ah nol consente,
No, questo cor. Da lungo tempo appresi
Ad esser forte, ed a volar tra’ primi
Negli acerbi conflitti alla tutela
Della paterna gloria e della mia.
Giorno verrà, presago il cor mel dice,
Verrà giorno che il sacro iliaco muro
E Priamo e tutta la sua gente cada.
Ma nè de’ Teucri il rio dolor, nè quello
D’Ecuba stessa, nè del padre antico,
Nè de’ fratei, che molti e valorosi
Sotto il ferro nemico nella polve
Cadran distesi, non mi accora, o donna,
Sì di questi il dolor, quanto il crudele
Tuo destino, se fia che qualche Acheo,
Del sangue ancor de’ tuoi lordo l’usbergo,
Lagrimosa ti tragga in servitude.
Misera! in Argo all’insolente cenno
D’una straniera tesserai le tele:
Dal fonte di Messíde o d’Iperéa,
(Ben repugnante, ma dal fato astretta)
Alla superba recherai le linfe;
E vedendo talun piovere il pianto
Dal tuo ciglio, dirà: Quella è d’Ettorre
L’alta consorte, di quel prode Ettorre
Che fra’ troiani eroi di generosi
Cavalli agitatori era il primiero,
Quando intorno a Ilïon si combattea.
Così dirassi da qualcuno; e allora
Tu di nuovo dolor l’alma trafitta
Più viva in petto sentirai la brama
Di tal marito a scior le tue catene.
Ma pria morto la terra mi ricopra,
Ch’io di te schiava i lai pietosi intenda.

     Astianatte
Così detto, distese al caro figlio
L’aperte braccia. Acuto mise un grido
Il bambinello, e declinato il volto,
Tutto il nascose alla nudrice in seno,
Dalle fiere atterrito armi paterne,
E dal cimiero che di chiome equine
Alto su l’elmo orribilmente ondeggia.
Sorrise il genitor, sorrise anch’ella
La veneranda madre; e dalla fronte
L’intenerito eroe tosto si tolse
L’elmo, e raggiante sul terren lo pose.
Indi baciato con immenso affetto,
E dolcemente tra le mani alquanto
Palleggiato l’infante, alzollo al cielo,
E supplice sclamò: Giove pietoso
E voi tutti, o Celesti, ah concedete
Che di me degno un dì questo mio figlio
Sia splendor della patria, e de’ Troiani
Forte e possente regnator. Deh fate
Che il veggendo tornar dalla battaglia
Dell’armi onusto de’ nemici uccisi,
Dica talun: Non fu sì forte il padre:
E il cor materno nell’udirlo esulti.
Così dicendo, in braccio alla diletta
Sposa egli cesse il pargoletto; ed ella
Con un misto di pianti almo sorriso
Lo si raccolse all’odoroso seno.
Di secreta pietà l’alma percosso
Riguardolla il marito, e colla mano
Accarezzando la dolente: Oh! disse,
Diletta mia, ti prego; oltre misura
Non attristarti a mia cagion. Nessuno,
Se il mio punto fatal non giunse ancora,
Spingerammi a Pluton: ma nullo al mondo,
Sia vil, sia forte, si sottragge al fato.
Or ti rincasa, e a’ tuoi lavori intendi,
Alla spola, al pennecchio, e delle ancelle
Veglia su l’opre; e a noi, quanti nascemmo
Fra le dardanie mura, a me primiero
Lascia i doveri dell’acerba guerra.
Raccolse al terminar di questi accenti
L’elmo dal suolo il generoso Ettorre,
E muta alla magion la via riprese
L’amata donna, riguardando indietro,
E amaramente lagrimando. Giunta
Agli ettorei palagi, ivi raccolte
Trovò le ancelle, e le commosse al pianto.
Ploravan tutte l’ancor vivo Ettorre
Nella casa d’Ettór le dolorose,
Rivederlo più mai non si sperando
Reduce dalla pugna, e dalle fiere
Mani scampato de’ robusti Achei.

***

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6 risposte

  1. In questo incontro-addio tra il campione troiano con la moglie e il figlioletto, alle porte Scee, Omero ci tocca e ci commuove con l’indovinatissima descrizione del timore del bimbo al terribile ondeggiare dell’elmo guerresco del padre. E questo – a mio parere – è il momento più intenso della scena: più delle lamentazioni di Andromaca o delle speranze di suo marito. È un momento quasi unico, di indicibile tenerezza (in seguito un altro lo avremo nella supplica di Priamo ad Achille, per riavere il corpo del figlio…) in cui, in questo poema guerresco, viene portata allo scoperto e dichiaratamente, prevalendo su tutto, l’intimità e la sacralità degli affetti familiari. Ma Ettore dovrà compiere il suo dovere e il suo destino.

    Da “Dei sepolcri” del Foscolo:

    – E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
    ove fia santo e lagrimato il sangue
    per la patria versato, e finchè il Sole
    risplenderà su le sciagure umane.

    Quale miglior commento di questo?

  2. L’Iliade è il libro della guerra, parla dell’ineluttabilità della guerra, sancisce la necessità della guerra, esalta il suo splendore, della guerra intesa come motore imprescindibile delle vicende umane.
    L’Iliade magnifica i forti e disprezza i vili, celebra i vincenti assistiti dagli dei ma rende onore anche agli sconfitti, che sono tali perché privi del favore dei Numi e, forse per questo, sono eroi anche più dei vincenti. Tre sole sono le figure che si discostano da questo “cliché” guerresco e che fanno da contraltare alla sterminata schiera di prodi impavidi guerrieri: un pacifista che Omero liquida come un vile deforme (Tersite, libro Secondo),
    un vecchio che rivendica il corpo del figlio ( Priamo, libro Ventiquattresimo) e una donna a cui la guerra ha tolto tutti gli affetti (Andromaca, libro Sesto).
    Eppure, a ben guardare, sono proprio questi tre personaggi le figure più credibili del grande Poema omerico.

  3. Una delle pagine più toccanti dell’Iliade, una di quelle che ci commuovono anche quando le studiamo e siamo giovani e la tensione emotiva è controllata dalla paura dell’interrogazione e del voto che in quella circostanza sono l’interesse primario. Una scena colma di amore, di tenerezza, di pena per l’avversità del fato, di senso del dovere. Un padre che dentro di sé sa che la sua ora è arrivata, che affida il figlio agli dei, che già lo vede saggio e onorato, con gli occhi dell’affetto e della speranza, ben sapendo che difficilmente lui gli sarà accanto. Un guerriero in armatura, pronto a difendersi e ad uccidere, che si intenerisce di fronte al timore del figlioletto nel vederlo così diverso dal padre a cui è abituato. Un marito che sa di avere una responsabilità tremenda, sa cosa succederà alla sua famiglia se le cose andranno male, ma che non può sottrarsi nè al volere degli dei nè al dovere verso la patria ,. nè può mettere in secondo piano il proprio onore. Una moglie e madre che per una volta esce dal “ guscio” che segnava i limiti di tutte le donne : controllare le ancelle, tessere, guidare l’andamento della casa, allevare i figli, e si permette di entrare nel mondo dell’uomo per consigliare al marito di rinunciare al combattimento e di rimanere a proteggere la famiglia. E si rivolge a lui con tenerezza, amore, supplica e disperazione perché lui è baluardo e amico, è amante e scudo. Su tutto preme la cappa di piombo dell’inevitabilità del destino e del senso del dovere. Una pagina terribile, tenera, cruda e dolcissima, sicuramente una di quelle che nessuno dimentica.

  4. Un celebre riferimento in Giovanni Pascoli, dai Canti di Castelvecchio

    UN RICORDO

    Andavano e tornavano le rondini,
    intorno alle grondaie della Torre,
    ai rondinotti nuovi. Era d’Agosto.
    Avanti la rimessa era già pronto
    il calessino. La cavalla storna
    calava giù, seccata dalle mosche,
    l’un dopo l’altro tutti quattro i tonfi
    dell’unghie su le selci della corte.
    Era un dolce mattino, era un bel giorno:
    di San Lorenzo. Il babbo disse: “Io vo„

    E in un gruppo tubarono le tortori.
    Esse là nella paglia erano in cova.
    Tra quel hu hu, mia madre disse: “Torna
    prestino„ “Sai che volerò!„ “Non correr
    tanto: la tua stornella è appena doma„
    “Eh! mi vuol bene!„ “Addio„ “Addio„ “Vai solo?
    non prendi Jên?„ “Aspetto quel signore
    da Roma…„ “È vero. Ti verremo incontro
    a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.
    Tu ci vedrai passando„ “Io vi vedrò„

    E Margherita, la sorella grande,
    di sedici anni, disse adagio: “Babbo…„
    “Che hai?„ “Ho, che leggemmo nel giornale
    che c’è gente che uccide per le strade…„
    Chinò mio padre tentennando il capo
    con un sorriso verso lei. Mia madre
    la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
    come dicendo: A cosa puoi pensare!
    E le rondini andavano e tornavano,
    ai nidi, piene di felicità.

    Mio padre palpeggiò la sua cavalla
    che l’ammusò con cenno familiare.
    Riguardò le tirelle e il sottopancia,
    e raccolte le briglie, calmo e grave,
    si volse ancora a dire: Addio! Mia madre
    s’appressò con le due bimbe per mano:
    la più piccina a lui toccò la mazza.
    Egli teneva il piede sul montante.
    E in un gruppo le tortori tubarono,
    e si sentì: Papà! Papà! Papà!

    E un poco presa egli sentì, ma poco
    poco, la canna come in un vignuolo,
    come v’avesse cominciato il nodo
    un vilucchino od una passiflora.
    Sì: era presa in una mano molle,
    manina ancora nuova, così nuova
    che tutta ancora non chiudeva a modo.
    Era la bimba che vi avea ravvolte,
    come poteva, le sue dita rosa,
    e che gemeva: No! no! no! no! no!

    Mio padre prese la sua bimba in collo,
    col suo gran pianto ch’era di già roco;
    e la baciò, la ribaciò negli occhi
    zuppi di già per non so che martoro.
    “Non vuoi che vada?„ “No!„ “Perchè non vuoi?„
    “No! no!„ “Ti porto tante belle cose!„
    “No! no!„ La pose in terra: essa di nuovo
    stese alla canna le sue dita rosa,
    gli mise l’altro braccio ad un ginocchio:
    No! no! papà! no! no! papà! no! no!

    Non s’udì che quel pianto e quei singulti
    nel tranquillo mattino tutto luce.
    Più non raspava i ciottoli con l’unghia
    la cavalla, e volgea la testa smunta
    alla bimba. E le tortori, hu hu!
    Povera bimba! non avea compiuti
    due anni, e ancor dormiva nella culla.
    Sapea di latte il suo gran pianto lungo:
    assomigliava ad un vagir notturno.
    Mio padre disse: “Non partirò più„

    Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
    la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
    Lontanò essa con un ringhio acuto.
    E mio padre baciò la creatura,
    e le disse: “Non vado: entro; mi muto,
    e sto con te. Perchè tu sia sicura,
    prendi la canna„ Rabbrividì tutta
    essa, come un uccello quando arruffa
    le piume; le spianò; poi con le due
    braccia abbracciò la canna di bambù.

    Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
    non tornò più. Non si rivide a casa.
    Lo portarono a sera in camposanto,
    lo stesero in un tavolo di marmo,
    dissero, oh! sì! dissero ch’era sano,
    e che avrebbe vissuto anche molti anni.
    Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
    ma piena del suo sangue era una mano.
    Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
    ciò che di lui rimase, ove sarà?

    Sorella, a volte penso che tu l’abbia,
    che tu lo tenga ancora fra le braccia.
    Così mi pare a volte, che ti guardo
    e tu non vedi, che tu stai pregando.
    Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
    e tieni ancora gli occhi fissi in alto.
    Stai come quando ti lasciò tuo padre;
    sicura, come allora. Ma una lagrima
    ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
    balbetta ancora, sì: Papà! Papà!

  5. Dieci decine di endecasillabi sciolti a raccontare, nei dettagli, la cronaca di una tragedia familiare, l’armonia degli affetti infranta dalla cieca violenza.
    Come in Omero l’eterna contesa fra pace e guerra.
    Un capolavoro assoluto di narrazione
    poetica, di elegia narrativa.
    Grazie a Leo per averla proposta.

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