(Un delicato quadretto familiare dove vincono gli affetti. Per un momento, ai bordi dell guerra. )
La traduzione è di Vincenzo Monti
*
…………..………. veloce Ettorre Dalle soglie si spicca, e ripetendo Il già corso sentier, fende diritto Del grand’Ilio le piazze: ed alle Scee, Onde al campo è l’uscita, ecco d’incontro Andromaca venirgli, illustre germe D’Eezïone, abitator dell’alta Ipoplaco selvosa, e de’ Cilíci Dominator nell’ipoplacia Tebe. Ei ricca di gran dote al grande Ettorre Diede a sposa costei ch’ivi allor corse Ad incontrarlo; e seco iva l’ancella Tra le braccia portando il pargoletto Unico figlio dell’eroe troiano, Bambin leggiadro come stella. Il padre Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto Astïanatte, perchè il padre ei solo Era dell’alta Troia il difensore. Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque. Ma di gran pianto Andromaca bagnata Accostossi al marito, e per la mano Strignendolo, e per nome in dolce suono Chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito! Il tuo valor ti perderà: nessuna Pietà del figlio nè di me tu senti, Crudel, di me che vedova infelice Rimarrommi tra poco, perchè tutti Di conserto gli Achei contro te solo Si scaglieranno a trucidarti intesi; E a me fia meglio allor, se mi sei tolto, L’andar sotterra. Di te priva, ahi lassa! Ch’altro mi resta che perpetuo pianto? Orba del padre io sono e della madre. M’uccise il padre lo spietato Achille Il dì che de’ Cilíci egli l’eccelsa Popolosa città Tebe distrusse: M’uccise, io dico, Eezïon quel crudo; Ma dispogliarlo non osò, compreso Da divino terror. Quindi con tutte L’armi sul rogo il corpo ne compose, E un tumulo gli alzò cui di frondosi Olmi le figlie dell’Egíoco Giove L’Oreadi pietose incoronaro. Di ben sette fratelli iva superba La mia casa. Di questi in un sol giorno Lo stesso figlio della Dea sospinse L’anime a Pluto, e li trafisse in mezzo Alle mugghianti mandre ed alle gregge. Della boscosa Ipoplaco reina Mi rimanea la madre. Il vincitore Coll’altre prede qua l’addusse, e poscia Per largo prezzo in libertà la pose. Ma questa pure, ahimè! nelle paterne Stanze lo stral d’Artémide trafisse. Or mi resti tu solo, Ettore caro, Tu padre mio, tu madre, tu fratello, Tu florido marito. Abbi deh! dunque Di me pietade, e qui rimanti meco A questa torre, nè voler che sia Vedova la consorte, orfano il figlio. Al caprifico i tuoi guerrieri aduna, Ove il nemico alla città scoperse Più agevole salita e più spedito Lo scalar delle mura. O che agli Achei Abbia mostro quel varco un indovino, O che spinti ve gli abbia il proprio ardire, Questo ti basti che i più forti quivi Già fêr tre volte di valor periglio, Ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro Sire di Creta ed il fatal Tidíde. Dolce consorte, le rispose Ettorre, Ciò tutto che dicesti a me pur anco Ange il pensier; ma de’ Troiani io temo Fortemente lo spregio, e dell’altere Troiane donne, se guerrier codardo Mi tenessi in disparte, e della pugna Evitassi i cimenti. Ah nol consente, No, questo cor. Da lungo tempo appresi Ad esser forte, ed a volar tra’ primi Negli acerbi conflitti alla tutela Della paterna gloria e della mia. Giorno verrà, presago il cor mel dice, Verrà giorno che il sacro iliaco muro E Priamo e tutta la sua gente cada. Ma nè de’ Teucri il rio dolor, nè quello D’Ecuba stessa, nè del padre antico, Nè de’ fratei, che molti e valorosi Sotto il ferro nemico nella polve Cadran distesi, non mi accora, o donna, Sì di questi il dolor, quanto il crudele Tuo destino, se fia che qualche Acheo, Del sangue ancor de’ tuoi lordo l’usbergo, Lagrimosa ti tragga in servitude. Misera! in Argo all’insolente cenno D’una straniera tesserai le tele: Dal fonte di Messíde o d’Iperéa, (Ben repugnante, ma dal fato astretta) Alla superba recherai le linfe; E vedendo talun piovere il pianto Dal tuo ciglio, dirà: Quella è d’Ettorre L’alta consorte, di quel prode Ettorre Che fra’ troiani eroi di generosi Cavalli agitatori era il primiero, Quando intorno a Ilïon si combattea. Così dirassi da qualcuno; e allora Tu di nuovo dolor l’alma trafitta Più viva in petto sentirai la brama Di tal marito a scior le tue catene. Ma pria morto la terra mi ricopra, Ch’io di te schiava i lai pietosi intenda.
Astianatte
Così detto, distese al caro figlio
L’aperte braccia. Acuto mise un grido
Il bambinello, e declinato il volto,
Tutto il nascose alla nudrice in seno,
Dalle fiere atterrito armi paterne,
E dal cimiero che di chiome equine
Alto su l’elmo orribilmente ondeggia.
Sorrise il genitor, sorrise anch’ella
La veneranda madre; e dalla fronte
L’intenerito eroe tosto si tolse
L’elmo, e raggiante sul terren lo pose.
Indi baciato con immenso affetto,
E dolcemente tra le mani alquanto
Palleggiato l’infante, alzollo al cielo,
E supplice sclamò: Giove pietoso
E voi tutti, o Celesti, ah concedete
Che di me degno un dì questo mio figlio
Sia splendor della patria, e de’ Troiani
Forte e possente regnator. Deh fate
Che il veggendo tornar dalla battaglia
Dell’armi onusto de’ nemici uccisi,
Dica talun: Non fu sì forte il padre:
E il cor materno nell’udirlo esulti.
Così dicendo, in braccio alla diletta
Sposa egli cesse il pargoletto; ed ella
Con un misto di pianti almo sorriso
Lo si raccolse all’odoroso seno.
Di secreta pietà l’alma percosso
Riguardolla il marito, e colla mano
Accarezzando la dolente: Oh! disse,
Diletta mia, ti prego; oltre misura
Non attristarti a mia cagion. Nessuno,
Se il mio punto fatal non giunse ancora,
Spingerammi a Pluton: ma nullo al mondo,
Sia vil, sia forte, si sottragge al fato.
Or ti rincasa, e a’ tuoi lavori intendi,
Alla spola, al pennecchio, e delle ancelle
Veglia su l’opre; e a noi, quanti nascemmo
Fra le dardanie mura, a me primiero
Lascia i doveri dell’acerba guerra.
Raccolse al terminar di questi accenti
L’elmo dal suolo il generoso Ettorre,
E muta alla magion la via riprese
L’amata donna, riguardando indietro,
E amaramente lagrimando. Giunta
Agli ettorei palagi, ivi raccolte
Trovò le ancelle, e le commosse al pianto.
Ploravan tutte l’ancor vivo Ettorre
Nella casa d’Ettór le dolorose,
Rivederlo più mai non si sperando
Reduce dalla pugna, e dalle fiere
Mani scampato de’ robusti Achei.
In questo incontro-addio tra il campione troiano con la moglie e il figlioletto, alle porte Scee, Omero ci tocca e ci commuove con l’indovinatissima descrizione del timore del bimbo al terribile ondeggiare dell’elmo guerresco del padre. E questo – a mio parere – è il momento più intenso della scena: più delle lamentazioni di Andromaca o delle speranze di suo marito. È un momento quasi unico, di indicibile tenerezza (in seguito un altro lo avremo nella supplica di Priamo ad Achille, per riavere il corpo del figlio…) in cui, in questo poema guerresco, viene portata allo scoperto e dichiaratamente, prevalendo su tutto, l’intimità e la sacralità degli affetti familiari. Ma Ettore dovrà compiere il suo dovere e il suo destino.
Da “Dei sepolcri” del Foscolo:
– E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
L’Iliade è il libro della guerra, parla dell’ineluttabilità della guerra, sancisce la necessità della guerra, esalta il suo splendore, della guerra intesa come motore imprescindibile delle vicende umane.
L’Iliade magnifica i forti e disprezza i vili, celebra i vincenti assistiti dagli dei ma rende onore anche agli sconfitti, che sono tali perché privi del favore dei Numi e, forse per questo, sono eroi anche più dei vincenti. Tre sole sono le figure che si discostano da questo “cliché” guerresco e che fanno da contraltare alla sterminata schiera di prodi impavidi guerrieri: un pacifista che Omero liquida come un vile deforme (Tersite, libro Secondo),
un vecchio che rivendica il corpo del figlio ( Priamo, libro Ventiquattresimo) e una donna a cui la guerra ha tolto tutti gli affetti (Andromaca, libro Sesto).
Eppure, a ben guardare, sono proprio questi tre personaggi le figure più credibili del grande Poema omerico.
Una delle pagine più toccanti dell’Iliade, una di quelle che ci commuovono anche quando le studiamo e siamo giovani e la tensione emotiva è controllata dalla paura dell’interrogazione e del voto che in quella circostanza sono l’interesse primario. Una scena colma di amore, di tenerezza, di pena per l’avversità del fato, di senso del dovere. Un padre che dentro di sé sa che la sua ora è arrivata, che affida il figlio agli dei, che già lo vede saggio e onorato, con gli occhi dell’affetto e della speranza, ben sapendo che difficilmente lui gli sarà accanto. Un guerriero in armatura, pronto a difendersi e ad uccidere, che si intenerisce di fronte al timore del figlioletto nel vederlo così diverso dal padre a cui è abituato. Un marito che sa di avere una responsabilità tremenda, sa cosa succederà alla sua famiglia se le cose andranno male, ma che non può sottrarsi nè al volere degli dei nè al dovere verso la patria ,. nè può mettere in secondo piano il proprio onore. Una moglie e madre che per una volta esce dal “ guscio” che segnava i limiti di tutte le donne : controllare le ancelle, tessere, guidare l’andamento della casa, allevare i figli, e si permette di entrare nel mondo dell’uomo per consigliare al marito di rinunciare al combattimento e di rimanere a proteggere la famiglia. E si rivolge a lui con tenerezza, amore, supplica e disperazione perché lui è baluardo e amico, è amante e scudo. Su tutto preme la cappa di piombo dell’inevitabilità del destino e del senso del dovere. Una pagina terribile, tenera, cruda e dolcissima, sicuramente una di quelle che nessuno dimentica.
Un celebre riferimento in Giovanni Pascoli, dai Canti di Castelvecchio
UN RICORDO
Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi. Era d’Agosto.
Avanti la rimessa era già pronto
il calessino. La cavalla storna
calava giù, seccata dalle mosche,
l’un dopo l’altro tutti quattro i tonfi
dell’unghie su le selci della corte.
Era un dolce mattino, era un bel giorno:
di San Lorenzo. Il babbo disse: “Io vo„
E in un gruppo tubarono le tortori.
Esse là nella paglia erano in cova.
Tra quel hu hu, mia madre disse: “Torna
prestino„ “Sai che volerò!„ “Non correr
tanto: la tua stornella è appena doma„
“Eh! mi vuol bene!„ “Addio„ “Addio„ “Vai solo?
non prendi Jên?„ “Aspetto quel signore
da Roma…„ “È vero. Ti verremo incontro
a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.
Tu ci vedrai passando„ “Io vi vedrò„
E Margherita, la sorella grande,
di sedici anni, disse adagio: “Babbo…„
“Che hai?„ “Ho, che leggemmo nel giornale
che c’è gente che uccide per le strade…„
Chinò mio padre tentennando il capo
con un sorriso verso lei. Mia madre
la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
come dicendo: A cosa puoi pensare!
E le rondini andavano e tornavano,
ai nidi, piene di felicità.
Mio padre palpeggiò la sua cavalla
che l’ammusò con cenno familiare.
Riguardò le tirelle e il sottopancia,
e raccolte le briglie, calmo e grave,
si volse ancora a dire: Addio! Mia madre
s’appressò con le due bimbe per mano:
la più piccina a lui toccò la mazza.
Egli teneva il piede sul montante.
E in un gruppo le tortori tubarono,
e si sentì: Papà! Papà! Papà!
E un poco presa egli sentì, ma poco
poco, la canna come in un vignuolo,
come v’avesse cominciato il nodo
un vilucchino od una passiflora.
Sì: era presa in una mano molle,
manina ancora nuova, così nuova
che tutta ancora non chiudeva a modo.
Era la bimba che vi avea ravvolte,
come poteva, le sue dita rosa,
e che gemeva: No! no! no! no! no!
Mio padre prese la sua bimba in collo,
col suo gran pianto ch’era di già roco;
e la baciò, la ribaciò negli occhi
zuppi di già per non so che martoro.
“Non vuoi che vada?„ “No!„ “Perchè non vuoi?„
“No! no!„ “Ti porto tante belle cose!„
“No! no!„ La pose in terra: essa di nuovo
stese alla canna le sue dita rosa,
gli mise l’altro braccio ad un ginocchio:
No! no! papà! no! no! papà! no! no!
Non s’udì che quel pianto e quei singulti
nel tranquillo mattino tutto luce.
Più non raspava i ciottoli con l’unghia
la cavalla, e volgea la testa smunta
alla bimba. E le tortori, hu hu!
Povera bimba! non avea compiuti
due anni, e ancor dormiva nella culla.
Sapea di latte il suo gran pianto lungo:
assomigliava ad un vagir notturno.
Mio padre disse: “Non partirò più„
Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
Lontanò essa con un ringhio acuto.
E mio padre baciò la creatura,
e le disse: “Non vado: entro; mi muto,
e sto con te. Perchè tu sia sicura,
prendi la canna„ Rabbrividì tutta
essa, come un uccello quando arruffa
le piume; le spianò; poi con le due
braccia abbracciò la canna di bambù.
Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
non tornò più. Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto,
lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch’era sano,
e che avrebbe vissuto anche molti anni.
Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
ma piena del suo sangue era una mano.
Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
ciò che di lui rimase, ove sarà?
Sorella, a volte penso che tu l’abbia,
che tu lo tenga ancora fra le braccia.
Così mi pare a volte, che ti guardo
e tu non vedi, che tu stai pregando.
Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
e tieni ancora gli occhi fissi in alto.
Stai come quando ti lasciò tuo padre;
sicura, come allora. Ma una lagrima
ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
balbetta ancora, sì: Papà! Papà!
Dieci decine di endecasillabi sciolti a raccontare, nei dettagli, la cronaca di una tragedia familiare, l’armonia degli affetti infranta dalla cieca violenza.
Come in Omero l’eterna contesa fra pace e guerra.
Un capolavoro assoluto di narrazione
poetica, di elegia narrativa.
Grazie a Leo per averla proposta.
6 risposte
In questo incontro-addio tra il campione troiano con la moglie e il figlioletto, alle porte Scee, Omero ci tocca e ci commuove con l’indovinatissima descrizione del timore del bimbo al terribile ondeggiare dell’elmo guerresco del padre. E questo – a mio parere – è il momento più intenso della scena: più delle lamentazioni di Andromaca o delle speranze di suo marito. È un momento quasi unico, di indicibile tenerezza (in seguito un altro lo avremo nella supplica di Priamo ad Achille, per riavere il corpo del figlio…) in cui, in questo poema guerresco, viene portata allo scoperto e dichiaratamente, prevalendo su tutto, l’intimità e la sacralità degli affetti familiari. Ma Ettore dovrà compiere il suo dovere e il suo destino.
Da “Dei sepolcri” del Foscolo:
– E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
Quale miglior commento di questo?
è vero…poche parole del Foscolo per dire tutto per sempre.
L’Iliade è il libro della guerra, parla dell’ineluttabilità della guerra, sancisce la necessità della guerra, esalta il suo splendore, della guerra intesa come motore imprescindibile delle vicende umane.
L’Iliade magnifica i forti e disprezza i vili, celebra i vincenti assistiti dagli dei ma rende onore anche agli sconfitti, che sono tali perché privi del favore dei Numi e, forse per questo, sono eroi anche più dei vincenti. Tre sole sono le figure che si discostano da questo “cliché” guerresco e che fanno da contraltare alla sterminata schiera di prodi impavidi guerrieri: un pacifista che Omero liquida come un vile deforme (Tersite, libro Secondo),
un vecchio che rivendica il corpo del figlio ( Priamo, libro Ventiquattresimo) e una donna a cui la guerra ha tolto tutti gli affetti (Andromaca, libro Sesto).
Eppure, a ben guardare, sono proprio questi tre personaggi le figure più credibili del grande Poema omerico.
Una delle pagine più toccanti dell’Iliade, una di quelle che ci commuovono anche quando le studiamo e siamo giovani e la tensione emotiva è controllata dalla paura dell’interrogazione e del voto che in quella circostanza sono l’interesse primario. Una scena colma di amore, di tenerezza, di pena per l’avversità del fato, di senso del dovere. Un padre che dentro di sé sa che la sua ora è arrivata, che affida il figlio agli dei, che già lo vede saggio e onorato, con gli occhi dell’affetto e della speranza, ben sapendo che difficilmente lui gli sarà accanto. Un guerriero in armatura, pronto a difendersi e ad uccidere, che si intenerisce di fronte al timore del figlioletto nel vederlo così diverso dal padre a cui è abituato. Un marito che sa di avere una responsabilità tremenda, sa cosa succederà alla sua famiglia se le cose andranno male, ma che non può sottrarsi nè al volere degli dei nè al dovere verso la patria ,. nè può mettere in secondo piano il proprio onore. Una moglie e madre che per una volta esce dal “ guscio” che segnava i limiti di tutte le donne : controllare le ancelle, tessere, guidare l’andamento della casa, allevare i figli, e si permette di entrare nel mondo dell’uomo per consigliare al marito di rinunciare al combattimento e di rimanere a proteggere la famiglia. E si rivolge a lui con tenerezza, amore, supplica e disperazione perché lui è baluardo e amico, è amante e scudo. Su tutto preme la cappa di piombo dell’inevitabilità del destino e del senso del dovere. Una pagina terribile, tenera, cruda e dolcissima, sicuramente una di quelle che nessuno dimentica.
Un celebre riferimento in Giovanni Pascoli, dai Canti di Castelvecchio
UN RICORDO
Andavano e tornavano le rondini,
intorno alle grondaie della Torre,
ai rondinotti nuovi. Era d’Agosto.
Avanti la rimessa era già pronto
il calessino. La cavalla storna
calava giù, seccata dalle mosche,
l’un dopo l’altro tutti quattro i tonfi
dell’unghie su le selci della corte.
Era un dolce mattino, era un bel giorno:
di San Lorenzo. Il babbo disse: “Io vo„
E in un gruppo tubarono le tortori.
Esse là nella paglia erano in cova.
Tra quel hu hu, mia madre disse: “Torna
prestino„ “Sai che volerò!„ “Non correr
tanto: la tua stornella è appena doma„
“Eh! mi vuol bene!„ “Addio„ “Addio„ “Vai solo?
non prendi Jên?„ “Aspetto quel signore
da Roma…„ “È vero. Ti verremo incontro
a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.
Tu ci vedrai passando„ “Io vi vedrò„
E Margherita, la sorella grande,
di sedici anni, disse adagio: “Babbo…„
“Che hai?„ “Ho, che leggemmo nel giornale
che c’è gente che uccide per le strade…„
Chinò mio padre tentennando il capo
con un sorriso verso lei. Mia madre
la guardò coi suoi cari occhi di mamma,
come dicendo: A cosa puoi pensare!
E le rondini andavano e tornavano,
ai nidi, piene di felicità.
Mio padre palpeggiò la sua cavalla
che l’ammusò con cenno familiare.
Riguardò le tirelle e il sottopancia,
e raccolte le briglie, calmo e grave,
si volse ancora a dire: Addio! Mia madre
s’appressò con le due bimbe per mano:
la più piccina a lui toccò la mazza.
Egli teneva il piede sul montante.
E in un gruppo le tortori tubarono,
e si sentì: Papà! Papà! Papà!
E un poco presa egli sentì, ma poco
poco, la canna come in un vignuolo,
come v’avesse cominciato il nodo
un vilucchino od una passiflora.
Sì: era presa in una mano molle,
manina ancora nuova, così nuova
che tutta ancora non chiudeva a modo.
Era la bimba che vi avea ravvolte,
come poteva, le sue dita rosa,
e che gemeva: No! no! no! no! no!
Mio padre prese la sua bimba in collo,
col suo gran pianto ch’era di già roco;
e la baciò, la ribaciò negli occhi
zuppi di già per non so che martoro.
“Non vuoi che vada?„ “No!„ “Perchè non vuoi?„
“No! no!„ “Ti porto tante belle cose!„
“No! no!„ La pose in terra: essa di nuovo
stese alla canna le sue dita rosa,
gli mise l’altro braccio ad un ginocchio:
No! no! papà! no! no! papà! no! no!
Non s’udì che quel pianto e quei singulti
nel tranquillo mattino tutto luce.
Più non raspava i ciottoli con l’unghia
la cavalla, e volgea la testa smunta
alla bimba. E le tortori, hu hu!
Povera bimba! non avea compiuti
due anni, e ancor dormiva nella culla.
Sapea di latte il suo gran pianto lungo:
assomigliava ad un vagir notturno.
Mio padre disse: “Non partirò più„
Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro
la cavalla, aspettando ad un altro uscio.
Lontanò essa con un ringhio acuto.
E mio padre baciò la creatura,
e le disse: “Non vado: entro; mi muto,
e sto con te. Perchè tu sia sicura,
prendi la canna„ Rabbrividì tutta
essa, come un uccello quando arruffa
le piume; le spianò; poi con le due
braccia abbracciò la canna di bambù.
Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo
non tornò più. Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto,
lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch’era sano,
e che avrebbe vissuto anche molti anni.
Ma uno squarcio aveva egli nel capo,
ma piena del suo sangue era una mano.
Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,
ciò che di lui rimase, ove sarà?
Sorella, a volte penso che tu l’abbia,
che tu lo tenga ancora fra le braccia.
Così mi pare a volte, che ti guardo
e tu non vedi, che tu stai pregando.
Tieni le braccia in croce, un poco lasse;
e tieni ancora gli occhi fissi in alto.
Stai come quando ti lasciò tuo padre;
sicura, come allora. Ma una lagrima
ancora scorre a te, di quelle, e il labbro
balbetta ancora, sì: Papà! Papà!
Dieci decine di endecasillabi sciolti a raccontare, nei dettagli, la cronaca di una tragedia familiare, l’armonia degli affetti infranta dalla cieca violenza.
Come in Omero l’eterna contesa fra pace e guerra.
Un capolavoro assoluto di narrazione
poetica, di elegia narrativa.
Grazie a Leo per averla proposta.