GIUSEPPE (PINO) MACRÌ
Il Generale
Doveva dimenticare, Luca: «Da carceriere a carcerato. Da martello a incudine» perdeva la testa. Notti chiare chiare, fantasmi anche di giorno: Mara, solo Mara nei suoi pensieri.
«Una diavoleria, certamente una fattura» si arrovellava il giudice.
E per dimenticare decise di partire: isola, mare, poi terra, e a est ancora mare e ancora terra. A caccia, lontano da casa.
A Durazzo il colore predominante era il grigio: grigio il molo, grigi i palazzoni squadrati, gli altissimi cancelli, i bunker depredati, grigie le strade, l’aria…
Fu affidato a un vecchino dall’età indefinita, gli occhietti teneri come fatti di panna. Smagrito, l’arco della schiena che mostrava i suoi nodi. Cacciatore di mestiere, aveva consumato gran parte della vita lasciando i piedi a mollo nelle acque stagnanti.
Il Generale, lo chiamavano, ma il suo vero nome era Hamit.
La mattina dopo, di buon’ora, si presentò ai cancelli dell’Hoteli Gjuetisi per portare Luca a caccia nella palude di Lushnje.
8 risposte
Non so se siano episodi inventati o realmente vissuti: non ha importanza. Ciò che conta è che si riesca a catturare l’attenzione e a sollecitare la partecipazione di chi legge, ad inivitarlo ad immergersi in ambienti e situazioni che vivano e operino di vita propria. Gli ambienti del padule, le scene di caccia qui descritte sono… ben descritte, e potrebbero appartenere a luoghi diversi, con diversi protagonisti, ma con la stessa intensità di lirismo venatorio che in più punti diviene poesia.
Oggi la caccia di un tempo non esiste più, esistono solo gruppi di “sparatori” che vagolano per le campagne o nelle riserve a pagamento per ripetuti tiri su selvaggina appositamente liberata, quando addirittura non collocata in punti prestabiliti. Questi novelli “scacciatori” non potranno mai sperimentare le suģgestioni di un aspetto alle vasche all’alba, né provare l’emozione di un cane in ferma un attimo prima del frullo improvviso. Una volta una giornata di caccia non era solo… una giornata di caccia, ma molto di più…
Caro Lido,
ogni mio bozzetto, ogni racconto ha un fondo (grande o piccolo) di verità. Spesso personale. Non so e non saprei scrivere senza raccontarmi.
Questa storia, ad esempio, sono due storie in una: una vissuta e l’altra, vera, raccontata. Il vecchietto (Hamit, un soldo di uomo raggrinzito e al contempo tenero, aveva occhi chiari come le acque delle sorgenti del suo paese) era la guida che mi assegnarono in Albania. E mi parlò della “Capitolata”, dei partigiani, dei tedeschi che trucidarono più gli italiani che gli albanesi. E, a modo suo, a gesti, a sorrisi, di tanto altro…
Un grande, il piccolo Generale!
Che meraviglia questa prosa, vivida, vera, sempre dentro l’aria, la terra, l’acqua….
Tutto al maschile l’amore per la vita di questo racconto: la donna, la caccia, la guerra e il destino che rovescia le parti.
E una profonda conoscenza della natura e delle creature che la popolano appare in questa memorabile descrizione:
“Passarono la Piana di Tirana, maremma pettinata dal vento; terra rossa, pantani e sporchi dove le prime rondini sfrecciavano veloci, mentre i maschi delle quaglie, eternamente innamorati, intonavano precoci serenate per convincere femmine non ancora pronte. Per aria caracollanti gambettoni e stupefacenti chiurli, piagnucolose pavoncelle ondeggiavano, coppie di marzaiole si rincorrevano crocchiando.”
Luciano, grazie!
Hai colto in pieno il messaggio. Nel senso che, ogni volta, dico, mi dico: “niente poesia, niente rulalità, lontano dalla mia isola, poca natura…”.
Ma niente, non ci riesco! Troppo forte, alla fine di ogni raccolta, di ogni racconto, emergono le radici della mia TERRA. Mi avviluppano, mi catturano. E tutto passa in secondo piano, la nostalgia di un’aurora mi assale ed è la… fine.
Caro Pino, il suo racconto, come i precedenti, mi è piaciuto moltissimo a parte che l’ho dovuto leggere tre volte per capirlo completamente un po’ per quegli inserti alla Camilleri di parlato non in italiano, un po’ per certe anticipazioni nella narrazione spiegate solo alla fine. La ripetuta lettura, però, dimostra l’alto indice di gradimento. E le perdono anche di essere un cacciatore di brutto in quanto certe descrizioni non si possono inventare di sana pianta. Tuttavia, dato che lei sa, da vero scrittore, imbastire un lungo racconto su una trama esilissima, quasi inesistente, valendosi del suo colorito linguaggio, perché non uscire un tantino dal campo venatorio e invadere altri spazi offrendoci una ulteriore dimostrazione del suo innegabile talento? Aspetto la sua prossima creazione!
Cara Carla,
le rispondo con piacere.
Innanzitutto mi intriga confrontarmi con persone che non amano la caccia. Ed è una cosa bellissima: anch’io, se non fossi nato cacciatore (nei geni, nel sangue, o chissà per quale altro volere) avrei odiato, combattuto, osteggiato caccia e cacciatori. E ci sta. Più passa il tempo e più ci sta. Ci deve stare. Ma la caccia, quella che una frangia di estremisti e falsi ecologisti vuole far passare, merita un discorso diverso; costruttivo e non fazioso. Per presentare e per fare le prefazioni dei miei due libri di raccolta di racconti (‘O Calabbres’ e Andrea e le fate) ho chiamato di proposito quattro amici che odiavano la caccia. Ed è stato fantastico, costruttivo, per me e per loro. Il mio miglior amico (Andrej Longo, scrittore sopraffino) è venuto a funghi fino a sfinirsi, a caccia con i miei cani, ad asparagi graffiandosi mani e polpacci. E alla fine quell’odio era diventata poesia, quasi amore.
E le anticipo una cosa che dura da… tre anni! Ha messo il dito nella piaga: sto tentando di scrivere un romanzo. FORSE finalmente la bozza è una vera bozza, e FORSE sto tentando di lasciar fuori caccia, natura e soprattutto Ischia. Ma non so se riuscirò a farlo. Di solito, prima di mandare in stampa, esce fuori la mia anima troppo “antica” e sono guai.
La ringrazio e la abbraccio, P.
P.S. Se la faccia tosta di presentare il romanzo supererà la vergogna, la vorrei seduta in prima fila.
E’ proprio bello!!! Di solito mi annoio quando un racconto non è tutto avventura, cambi di scena, sorprese…ma con questo scrittore non è possibile non restare attaccati alla pagina col piacere di rimanere immersi in una natura così viva che ti pare di esserci dentro. Bellissime anche le pennellate per dipingere la rossa, con quel ” tumulto di capelli” e i fianchi della moglie : prepotenti quelli…prepotente lei . Con un sostantivo e un aggettivo scelti ad hoc questo fenomeno di Macrì ha messo a fuoco le due donne e tu le hai “viste”, te ne sei fatto un’idea e non te le scorderai. Complimenti.
Lidia cara,
sempre belle, gratificanti forse più di quello che merito, le tue parole.
Le cose, le persone, uomini e donne, il sole o il mare, le vedo, le osservo, le compenetro (curioso come sono) prima di descriverle. Mi devono piacere, nel bene o nel male. E devono essere vere, più che verosimili. La rossa per esempio… Se uno si mette a pensare… mi metto a nudo come sempre. Evviva la parola scritta! La verità, la bellezza delle parole. La bellezza, dentro e fuori di uomini e di donne.
E, una chicca, un’anticipazione: nel romanzo (incrociamo le dita…) la rossa diventa una donna dai capelli sempre tumultuosi, ma neri come l’ebano. Sempre prorompente, intrigante, irresistibile agli occhi di P….o, ma P….o, al momento, ha un’altra donna nella testa, solo quella. La guarda, l’appezza per istinto, ma in cuor suo non la vede.