Pino Macrì, Il Generale

GIUSEPPE (PINO) MACRÌ

 

 

Il Generale                         

 

Doveva dimenticare, Luca: «Da carceriere a carcerato. Da martello a incudine» perdeva la testa. Notti chiare chiare, fantasmi anche di giorno: Mara, solo Mara nei suoi pensieri.

   «Una diavoleria, certamente una fattura» si arrovellava il giudice.

   E per dimenticare decise di partire: isola, mare, poi terra, e a est ancora mare e ancora terra. A caccia, lontano da casa.

 

   A Durazzo il colore predominante era il grigio: grigio il molo, grigi i palazzoni squadrati, gli altissimi cancelli, i bunker depredati, grigie le strade, l’aria…

   Fu affidato a un vecchino dall’età indefinita, gli occhietti teneri come fatti di panna. Smagrito, l’arco della schiena che mostrava i suoi nodi. Cacciatore di mestiere, aveva consumato gran parte della vita lasciando i piedi a mollo nelle acque stagnanti.

Il Generale, lo chiamavano, ma il suo vero nome era Hamit.

 

   La mattina dopo, di buon’ora, si presentò ai cancelli dell’Hoteli Gjuetisi per portare Luca a caccia nella palude di Lushnje.

   «U ndal! As nuk duhet të largoni mushkonjat!  Immobile! Nemmeno le pupille devi muovere, neanche le zanzare devi scacciare!» ordinò Hamit quando arrivarono nel campo. Il giudice si calò nella fossa stivali nella melma e si accovacciò col pesante Baikal in mano. Sul terreno molle attorno alla buca, la guida accodò due pavoncelle, e schiacciato nell’erba cominciò a modulare richiami come lamenti. Ammaliati dai fischi, luccicanti pivieri dorati credevano e venivano al gioco sfarfallando!    Sui rintocchi delle dodici: «Mangiamo?» chiese il magistrato rintronato e soddisfatto dalle schioppettate e dal sole.Le rughe incartapecorite di Hamit si distesero di colpo: «Po! Sì! Su palafitta è vjetër rifugio. Ora è restorant di shefi di paese. Pochi lek e noi mangiare peshku e bere rakija» strofinò le mani ossute e sorrise senza contenersi.      «Andiamo» disse Luca. Sciolsero il cane, misero i due zimbelli nella gabbietta, le prede nella ladra e si avviarono. Passarono per un intrico di cannegiole, di falasco e di rigagnoli di acqua chiarissima.    «Albania è paese di acqua. Ma tu non bere: qui passano pecore e pastori. Barinjtë më të këqij se delet. Dele më të pastra, peggio pastori che pecore, più pulite pecore che pastori» sputò zampettando. E a dispetto dell’età, leggerissimo continuò a calpestare faloppa e fango. Luca si fermò, si piegò ginocchia in gola e riprese fiato.

Intanto il bracco era in ferma di fronte a un ciuffo di biancospino appena fiorito. Un filo di bava indugiava sulla buffa piega del labbro, l’iride come di vetro, la zampa destra piegata ad arte: una statua. Solo la pelle sui muscoli vibrava pervasa da una scossa. L’espressione d’improvviso divenne feroce, gli occhi folli puntati di sbieco a controllare la posizione del cacciatore. Luca si avvicinò, pestò il velo che inumidiva la base della vegetazione quando lento lento partì un croccolone. Allo sparo si capovolse e informe cadde sull’argine. Il cane abboccò l’uccello con delicatezza e lo riportò scodinzolando. Era bellissimo, chiaro, il becco lungo e sottile; era la prima starnotta che prendeva.

Camminarono ancora. Passarono la Piana di Tirana, maremma pettinata dal vento; terra rossa, pantani e sporchi dove le prime rondini sfrecciavano veloci, mentre i maschi delle quaglie, eternamente innamorati, intonavano precoci serenate per convincere femmine non ancora pronte. Per aria caracollanti gambettoni e stupefacenti chiurli, piagnucolose pavoncelle ondeggiavano, coppie di marzaiole si rincorrevano crocchiando.

   Arrivarono ad una gora, una laguna magica che sembrava il suo mare.

Un tuffo al cuore: stregato, fulminato dal sole alto, il giudice respirò a pieni polmoni gonfiando il petto. L’acqua era uno specchio che rifletteva il cielo. Il ciglio erboso all’orizzonte un’effimera striscia di verde che separava il lago dall’azzurro del mare.

   Erano gli unici clienti del ristorante; pulito, con grandi pilastri di cemento a sostenere enormi travi di legno chiaro. Vetrate tutt’intorno, vertigini che ti proiettano in acqua. Il proprietario era come il Generale aveva descritto strada facendo: mezzo secolo ben portato, brillantina sui capelli, faccia scolpita, camicia aperta.

   «Hyni Gjenerali» così Bukuri salutò Hamit.

   «Komandant ju hëngri patat…Comandante ha mangiato tue oche e tu ancora mangi sue parole!» rincarò ridacchiando.

«Ju mieshter ketu» disse invece rivolto a Luca. Si inarcò in un inchino stappando un inesistente copricapo, ma si vedeva lontano un miglio che il padrone era lui.

   «Mjeshtër di locanda ha molie moolto giovane. E moolto bella. Mos shiko nusen, non guardare sposa per favore» disse la guida appena l’oste si ritirò pieno di sé.

E in quel momento, come evocata dalle parole di Hamit, la donna apparve. Non ci voleva un occhio allenato per apprezzarla: un tumulto di capelli rossi, ciglia finte, occhi prigionieri di mille congetture mandavano frecciate come dardi. Era fasciata da un pantalone color panna che scendeva morbido e dava forma a cosce tornite come colonne doriche. Un corpetto attillato finiva sui fianchi e un reggipetto dai bordini di pizzo tratteneva un seno esuberante. Ai piedi aveva zoccoletti di cuoio dal tacco alto e la sola unghia dell’alluce pittata di rosso. Come si faceva a non guardarla?

   «Cacchio, ma è proprio un femminone esagerato» disse Luca dissimulando l’interesse mentre la donna si avvicinava reggendo tra le mani piatti stracolmi.

   «Gje? Çfarë?» rispose Hamit non capendo.

   «Orpo, tieni ragione!» disse l’italiano a occhi stecchiti.

   Si chiamava Lejda: «Zë një vend» soffiò a due passi dal tavolo.   Servì pesci e gamberi arrostiti di ogni tipo e di ogni misura. Dorati, cotti alla perfezione. Da bere portò la grappa. Solo grappa, ma molto più buona dell’assenzio che si tracannava nelle bettole. L’acqua era bandita: «Të bën të djersitesh, dhe të dhemb, fa sudare, ma soprattutto fa male» come ripetevano gli indigeni finendo sempre col ridere.

   Prima dell’ultimo prosit uscirono per sgranchirsi le gambe. Un’arietta fresca catturò fumi e pensieri: «Perché ti chiamano Generale?» chiese a un tratto Luca confuso dal rakija.

   E il vecchio raccontò…

   Cinquant’anni prima, nel bel mezzo del mese di febbraio, accucciato dietro quattro cannelle, Hamit fece l’aspetto nell’acquitrino di Patok, marcite, dedali di laghetti e di chiari. Nottata infinita, con i pappataci che anche col gelo gli avevano succhiato metà del sangue.

Finalmente albeggiò.

Accarezzato da un’acquazzina gelata che non bagnava neanche, prese la via di casa. E seguendo piste che conosceva a menadito, percorrendo incolti, passando fossi e piscine, superando distese di campi dissodati dal gelo, Hamit si sentì più felice del solito. Aveva preso tre grandi oche, e smilzo com’era le portava dietro le spalle tenendole per il collo. Nonostante la stanchezza ogni tanto sorrideva; parlava da solo, ragionava, si faceva due conti: con un’oca intera la famiglia avrebbe mangiato tre giorni. Le altre barattate al mercatino di Bubq o tra i vicoli di quello più grande di Kruja, il bazar ai piedi del Castello. Intendeva premiarsi prima di tornare dalla moglie Alma, che coi suoi novanta chili faceva tremare l’ordito del pavimento di legno a ogni passo. Voleva pavoneggiarsi prima di rimettere piede nella baracca fatta di fango e paglia dove, con l’ondulazione dei fianchi potenti e prepotenti, la consorte faceva il bello e il cattivo tempo.

Avrebbe fumato un po’ di tabacco buono, o messo sotto i denti una grassa aringa di “prima” succhiando la testa e sgranocchiando la lisca. In bocca già avvertiva il pizzicore del rakija che avrebbe tracannato al Bazaar Derexhik raccontando i mirabili tiri effettuati col Damasco.    Camminava da un’ora, aveva finalmente lasciato le terre e stava attraversando il paesino di Cudhi quando a cento metri dall’osteria un ufficiale a cavallo lo fermò col saluto: «Compagno, come ti chiami? Dove hai preso queste belle oche?».

   «Hamit mi chiamo, signor Komandant. Al lago le ho cacciate» raddrizzò le ossa battendo gli stivaloni di gomma vulcanizzati cento volte.

   «Bene! Con questi uccelli hai il privilegio di sfamare mezza compagnia di compatrioti. Partigiano Hamit, per me tu sei il Capitano… anzi, che dico: da oggi sei il Generale dei cacciatori di Kruja!». Fece un cenno ai suoi scudieri che senza ulteriori convenevoli scipparono le tre papere dalle mani anchilosate del giovane Hamit.

    Da quel lontano inverno, durante colossali bevute e chiassosi litigi in lerce cantine, Hamit ha raccontato mille volte la storia che gli ha lasciato questo beffardo soprannome: il Generale!

   Rientrarono per il bicchiere della staffa e per pagare il conto.

   «Stasera io ti portare in laguna, non in moçal dove ho preso oche! Nei canali, proprio nel grykederdhja di Divjaka! Lì tanti shapkë, garganey… e quando entra acqua nuova, gjermanët dal collo verde!» disse il vecchio con un filo di voce e i piccoli occhi commossi come il più segreto dei segreti.

   «Gli sono rimasti solo gli occhi, ma questo ha la forza di Maciste!» pensò Luca che, comandato da uno slancio inconsueto, lo abbracciò.

La guida, facendo sfavillare la pipa di terracotta, tirò dal sottile cannuccio il pessimo trinciato. Di piacere.

   «Adesso però torniamo in paese. Voglio stendermi» disse Luca.

Strinse la mano a Bukuri e buttò l’occhio in direzione della cucina come se il fatto non fosse il suo. La tendina era aperta per metà, e Lejda lo fissò in modo inequivocabile. Gli sorrise muovendo di un niente viso e spalle, alzò le sopracciglia come a dirgli: «Cosa credi! Il padrone sono io! Peccato che te ne vai…».

  «Ma guarda un po’» pensò Luca.

E per la prima volta dopo due anni Mara si allontanò, e si trasformò in ricordo il sapore di pesca gialla del primo bacio, fumo divenne il verde smeraldo degli occhi spruzzati da pagliuzze d’oro. Distante l’isola, sciolti i nodi, sbiadita la malia, confusa in quella bruma fatta di niente.

   «Ora tu riposa» disse il Generale battendogli una mano sulla spalla.

   «Palude ci aspetta» e con un saltello si incamminò sulla strada impolverata che già le ombre cominciavano a sfiorare.

Pino Macrì

Altri scritti dello stesso autore:

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Email

8 risposte

  1. Non so se siano episodi inventati o realmente vissuti: non ha importanza. Ciò che conta è che si riesca a catturare l’attenzione e a sollecitare la partecipazione di chi legge, ad inivitarlo ad immergersi in ambienti e situazioni che vivano e operino di vita propria. Gli ambienti del padule, le scene di caccia qui descritte sono… ben descritte, e potrebbero appartenere a luoghi diversi, con diversi protagonisti, ma con la stessa intensità di lirismo venatorio che in più punti diviene poesia.
    Oggi la caccia di un tempo non esiste più, esistono solo gruppi di “sparatori” che vagolano per le campagne o nelle riserve a pagamento per ripetuti tiri su selvaggina appositamente liberata, quando addirittura non collocata in punti prestabiliti. Questi novelli “scacciatori” non potranno mai sperimentare le suģgestioni di un aspetto alle vasche all’alba, né provare l’emozione di un cane in ferma un attimo prima del frullo improvviso. Una volta una giornata di caccia non era solo… una giornata di caccia, ma molto di più…

    1. Caro Lido,
      ogni mio bozzetto, ogni racconto ha un fondo (grande o piccolo) di verità. Spesso personale. Non so e non saprei scrivere senza raccontarmi.
      Questa storia, ad esempio, sono due storie in una: una vissuta e l’altra, vera, raccontata. Il vecchietto (Hamit, un soldo di uomo raggrinzito e al contempo tenero, aveva occhi chiari come le acque delle sorgenti del suo paese) era la guida che mi assegnarono in Albania. E mi parlò della “Capitolata”, dei partigiani, dei tedeschi che trucidarono più gli italiani che gli albanesi. E, a modo suo, a gesti, a sorrisi, di tanto altro…
      Un grande, il piccolo Generale!

  2. Che meraviglia questa prosa, vivida, vera, sempre dentro l’aria, la terra, l’acqua….
    Tutto al maschile l’amore per la vita di questo racconto: la donna, la caccia, la guerra e il destino che rovescia le parti.
    E una profonda conoscenza della natura e delle creature che la popolano appare in questa memorabile descrizione:

    “Passarono la Piana di Tirana, maremma pettinata dal vento; terra rossa, pantani e sporchi dove le prime rondini sfrecciavano veloci, mentre i maschi delle quaglie, eternamente innamorati, intonavano precoci serenate per convincere femmine non ancora pronte. Per aria caracollanti gambettoni e stupefacenti chiurli, piagnucolose pavoncelle ondeggiavano, coppie di marzaiole si rincorrevano crocchiando.”

    1. Luciano, grazie!
      Hai colto in pieno il messaggio. Nel senso che, ogni volta, dico, mi dico: “niente poesia, niente rulalità, lontano dalla mia isola, poca natura…”.
      Ma niente, non ci riesco! Troppo forte, alla fine di ogni raccolta, di ogni racconto, emergono le radici della mia TERRA. Mi avviluppano, mi catturano. E tutto passa in secondo piano, la nostalgia di un’aurora mi assale ed è la… fine.

  3. Caro Pino, il suo racconto, come i precedenti, mi è piaciuto moltissimo a parte che l’ho dovuto leggere tre volte per capirlo completamente un po’ per quegli inserti alla Camilleri di parlato non in italiano, un po’ per certe anticipazioni nella narrazione spiegate solo alla fine. La ripetuta lettura, però, dimostra l’alto indice di gradimento. E le perdono anche di essere un cacciatore di brutto in quanto certe descrizioni non si possono inventare di sana pianta. Tuttavia, dato che lei sa, da vero scrittore, imbastire un lungo racconto su una trama esilissima, quasi inesistente, valendosi del suo colorito linguaggio, perché non uscire un tantino dal campo venatorio e invadere altri spazi offrendoci una ulteriore dimostrazione del suo innegabile talento? Aspetto la sua prossima creazione!

    1. Cara Carla,
      le rispondo con piacere.
      Innanzitutto mi intriga confrontarmi con persone che non amano la caccia. Ed è una cosa bellissima: anch’io, se non fossi nato cacciatore (nei geni, nel sangue, o chissà per quale altro volere) avrei odiato, combattuto, osteggiato caccia e cacciatori. E ci sta. Più passa il tempo e più ci sta. Ci deve stare. Ma la caccia, quella che una frangia di estremisti e falsi ecologisti vuole far passare, merita un discorso diverso; costruttivo e non fazioso. Per presentare e per fare le prefazioni dei miei due libri di raccolta di racconti (‘O Calabbres’ e Andrea e le fate) ho chiamato di proposito quattro amici che odiavano la caccia. Ed è stato fantastico, costruttivo, per me e per loro. Il mio miglior amico (Andrej Longo, scrittore sopraffino) è venuto a funghi fino a sfinirsi, a caccia con i miei cani, ad asparagi graffiandosi mani e polpacci. E alla fine quell’odio era diventata poesia, quasi amore.
      E le anticipo una cosa che dura da… tre anni! Ha messo il dito nella piaga: sto tentando di scrivere un romanzo. FORSE finalmente la bozza è una vera bozza, e FORSE sto tentando di lasciar fuori caccia, natura e soprattutto Ischia. Ma non so se riuscirò a farlo. Di solito, prima di mandare in stampa, esce fuori la mia anima troppo “antica” e sono guai.
      La ringrazio e la abbraccio, P.
      P.S. Se la faccia tosta di presentare il romanzo supererà la vergogna, la vorrei seduta in prima fila.

  4. E’ proprio bello!!! Di solito mi annoio quando un racconto non è tutto avventura, cambi di scena, sorprese…ma con questo scrittore non è possibile non restare attaccati alla pagina col piacere di rimanere immersi in una natura così viva che ti pare di esserci dentro. Bellissime anche le pennellate per dipingere la rossa, con quel ” tumulto di capelli” e i fianchi della moglie : prepotenti quelli…prepotente lei . Con un sostantivo e un aggettivo scelti ad hoc questo fenomeno di Macrì ha messo a fuoco le due donne e tu le hai “viste”, te ne sei fatto un’idea e non te le scorderai. Complimenti.

    1. Lidia cara,
      sempre belle, gratificanti forse più di quello che merito, le tue parole.
      Le cose, le persone, uomini e donne, il sole o il mare, le vedo, le osservo, le compenetro (curioso come sono) prima di descriverle. Mi devono piacere, nel bene o nel male. E devono essere vere, più che verosimili. La rossa per esempio… Se uno si mette a pensare… mi metto a nudo come sempre. Evviva la parola scritta! La verità, la bellezza delle parole. La bellezza, dentro e fuori di uomini e di donne.
      E, una chicca, un’anticipazione: nel romanzo (incrociamo le dita…) la rossa diventa una donna dai capelli sempre tumultuosi, ma neri come l’ebano. Sempre prorompente, intrigante, irresistibile agli occhi di P….o, ma P….o, al momento, ha un’altra donna nella testa, solo quella. La guarda, l’appezza per istinto, ma in cuor suo non la vede.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *