PIERO BIGONGIARI
*
Notizia biobibliografica
Piero Bigongiari nacque a Navacchio (Pisa) nel 1914. Laureatosi con Momigliano all’Università di Firenze discutendo una tesi su Leopardi, insegnò presso la stessa università Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea. Fece parte fin dalla prima ora della corrente ermetica fiorentina e fu critico acuto ed elegante della letteratura italiana e di quella francese, collaborando con le più importanti riviste letterarie dell’epoca (Campo di Marte, Letteratura, ecc.). Morì a Firenze nel 1997. Tra le sue opere di poesia si ricordano: La figlia di Babilonia (1942), Rogo (1952), Il corvo bianco (poesie, 1955), Le mura di Pistoia (1958), Torre di Arnolfo (1964), Antimateria (1972), Moses (1979), Autoritratto (1985),Col dito in terra (1986), Nel delta del poema (1989), La legge e la leggenda (1992) e Dove finiscono le tracce (1996).
La lunga e densa esperienza poetica di Bigongiari rivela una tensione spirituale e morale ricca, fervida e insieme problematica; il suo incedere lirico è piano, pacato, interrogante, come di chi, al di là del rovello del pensiero, cerchi risposte non ambigue, parole di chiarezza per necessari svelamenti. (P. B.)
*
La tempesta
Forse è questa l’ora di non vedere
se tutto è chiaro, forse questa è l’ora
ch’è solo di sé paga, ed il tuo incanto
divaga nell’inverno della terra,
nell’inferno dei segni da capire.
Ma non farti vedere dimostrare
ancora le tue formule, è finita
l’orgia dei risultati rispondenti
alle cause. Sei sola, batti i denti
accosto ai vetri nevicati, tetri.
Divergono in un morbido riaccendersi
d’altro sangue i destini che ci unirono.
Tu li ricordi come – in queste tarde
ore che riscoccano dalla pendola –
in un fuoco di tocchi, in un orrendo
scatenarsi, dai tuoi armadi, di bambole.
La nostra vita, catturata, vedi,
mentr’era armata solo di silenzio,
come dai parafulmini ridesti
da un lampo, trova il filo da seguire
per non morire restando se stessa.
*
Coro dei compagni di Nessuno
Chi non ci disse che andare contro
è andare incontro a sé, ma anche urtare
le più rare radici dell’enigma?
Andavamo controvento verso la patria,
attento ognuno alla sua sàrtia tesa,
al muoversi dell’onda, al bisbiglio
che in ogni esilio soffoca nel cuore
il traudirsi di ogni lontananza
in ciò che amore disse un giorno a ognuno
sorpreso dal fervore dello sguardo
posato sulle cose consuete.
Gli embrici destinati ricoprivano
i nostri passi e quelli dell’assente,
dell’amata da poco che tornava
per un niente a trovarci: una forcina
dimenticata. Era una scusa. Mente
dolcemente così la verità.
È così serio il gioco. Si dilata
come un impasto lievitato ciò
che contiene in sé d’altro. Chissà… Certo
altro non sapevamo dell’oscuro
e scaltro impeto della mano che indicava
qualcosa nel futuro.
Siamo qui
sulla riva del mare. Là un’isola,
o è una nuvola?, luccica di specchi
controsole. Noi qui spingiamo l’ombra
della nostra persona contro l’onda
che dolcemente suona ai nostri piedi
di un paese perduto. Il nostro? I nostri
eredi siamo noi? Di qual viaggio
che non sa se ritorna o in quale luogo
inoltra il proprio speco luminoso?
Chiede aiuto il giro d’orizzonte,
qua il mare, dilà il monte. Noi dobbiamo
andare in quale direzione? A quale
incontro prepararci? E quell’isola,
se è un’isola e non è un miraggio
che ci rimanda in raggio il desiderio,
qualcuno dice che è Samo, ma
è possibile che tanto ci siamo
allontanati dalla rotta? Dopo
quale vittoria? Perché c’è chi pensa
che abbiamo vinto?
O forse dovevamo
dire qualcosa a qualcuno. Che
non siamo noi i vincitori? Intanto
chi è partito a esplorare non ritorna.
Il mare trema lieve, non risponde
nemmeno l’eco. Il mormorio delle onde
a sorsi deglutisce il nostro fiato.
E non sappiamo se essere infelici
di quanto accade. O non accade? Il nostro
sguardo non altro ascolta che le rade
immagini che chiamano a raccolta,
come rare pernici che divariano
candide sulle nevose pendici,
il nulla, le sue mirifiche strade.
O è la culla incipiente del sonno?
Non è che siamo arrivati laddove
credevamo di essere ancora in viaggio?
È questa l’Ade? Siamo già in ritardo?
*
L’enigma innamorato
La vita che ti ho dato, più che mia,
era la voce stessa dell’enigma
innamorato. Tu mi hai restituito,
non so se vero, il suo senso più alato.
Siamo partiti insieme pel viaggio
lontani dalla Sfinge. O era con noi?
Quella laringe ancora gorgogliava
qualcosa… O era solo il lieve raggio
di sole che davanti ai nostri passi
calpestava viole, accecava
grattacieli vetrati, confondeva
negli aeroporti arrivi e partenze.
Ci siamo amati come in un sogno
se è vero, come è vero, che l’amore
ha bisogno soltanto di se stesso
anche se non è in ogni lontananza
da chicchessia che l’ubbia di ogni senso
cancella la distanza dal recesso
in cui danza insensato il suo stesso
significato. Amore non significa?
D’ogni conoscenza altro non magnifica
che il volerne sapere sempre meno?
Sulle rive del Meno mi guardavi
con un sorriso strano. Eri tu
la Sfinge? Mi prendesti premurosa
per mano mentre il sole ancora tinge
del suo ambiguo splendore – quali acque?
Che cosa Amore finge? Cosa tacque?
O la sua voce è sempre più sottile,
la sua parola più e più silenziosa…
Che cosa osa, in quali contrade
sposta le strade, agita la rosa
profumata delle tue labbra, amata?
Non vuole forse farsi riconoscere
nemmeno da se stesso? Lui, solare,
vive meglio nell’ombra del suo eccesso?
È la felicità forse che ha smesso
di ossessionarlo? Parlo, ascolto, dico
all’amore mendico di aspettarci:
troppo veloce è il suo passo aprico
tra i suoi sparsi destini: elevarsi,
distruggersi, trovarsi, anche nascondersi
nell’evidenza. Udito, inaudito,
ha la dolcezza di un canto smarrito.
Ha più fini che mezzi, se l’amore
non ha confini. Ha cuore e non ha cuore
l’amore che esibisce nell’esistere
le sue tessere, le false e le vere?
L’incredulo vuole essere creduto,
sedulo nella sua divina malizia.
Dove ostenta pigrizia, non credetelo:
è lì che abile tesse la sua tela,
è lui che rivela ciò che svela.
Piero Bigongiari
***
7 risposte
Una scrittura poetica, quella di Bigongiari, da vero professore, da vero letterato di rango. Un ermetismo dunque, adorno di ricercatezza lessicale, a tratti anche elegante, dalla sintassi elaborata oltre che ( peculiarità del poeta) disseminata da una quantità di punti interrogativi.
L’uso troppo insistito della rima e dell’assonanza anche a metà verso – ottenute talvolta adoperando termini arcaici – toglie smalto ai contenuti. Infatti l’autore sembra più occupato a giocare con le parole che a esprimere con sincerità i propri sentimenti.
Variare fino a sovvertire gli schemi metrici tradizionali
tramite corrispondenze fonetiche “fuori ordinanza”, assonanze o consonanze a fine verso, allitterazioni e rime interne ( per tacere degli scarti ritmici), Carla, fa parte del bagaglio consolidato della poesia italiana novecentesca.
Lo hanno fatto, ciascuno a suo modo,
in molti e, in qualche caso ( vedi, ad esempio,Montale e Caproni), con risultati ragguardevoli.
Tu, giustamente, osservi che in Bigongiari c’è un’insistenza eccessiva nell’escogitare tali virtuosismi tanto da fare pensare a un’ostentazione gratuita e un po’ narcisistica delle proprie capacità compositive.
Ma dire ciò sarebbe forse ingiusto.
Meglio, come fai tu, limitarsi a rilevare uno squilibrio formale di eccedenza che abbassa la tensione poetica di una scrittura che, per il resto, non manca di pregi di lingua e di contenuti.
Non riesco a commentare. Non capisco, al di là di un intrico di ricercatezze e di parole che non mi emozionano, a cosa si voglia arrivare. Una costruzione dotta, ma voluta. Un perpetuo interrogarsi senza risposte, un insistito – e secondo me sterile – rincorrersi in quello che per tutti è il mistero della vita e dei sentimenti. Non amo l’ermetismo, anche se cesellato, lustrato e accomodato. Già è profondo il buio in cui tutti ci troviamo immersi e moltiplicare gli incroci ad un cammino già di per sé ignoto ci serve a poco. Anzi, a nulla.
quel che suscita in me questa poesia è una sorta di tenerezza e di pena per il disorientamento del poeta, che poi è quello di tutti, di fronte al mistero che ci circonda e per l’incongruenza in cui inciampiamo ad ogni passo. C’è magari una certa insistenza…quei numerosi interrogativi… che potrebbe essere considerata sincera o anche una posa…però posso capirlo e direi che lo sento vicino perché questa maniera di interrogarsi mettendo su carta una domanda dietro l’altra, quasi ragionando col foglio… spesso viene spontanea anche a me, pur nella modestia dei miei mezzi e nella limitatezza delle mie capacità, intendiamoci! …ma come modo, voglio dire, di porsi di fronte al foglio visto come un mezzo per mettere a fuoco i punti salienti dei nostri dubbi…lo sento familiare.
Caro Luciano, hai ragioni da vendere però questa poesia mi dà l’impressione di essere molto costruita cosa che non dovrebbe mai apparire qualunque possa essere la veridicità dell’assunto. Poi ognuno la pensa come crede.
La poesia di questo interessante autore è un dialogare fitto tra passato e presente, un confronto tra ideali e consapevolezze, dove l’uno scava nel vissuto alla continua ricerca di conferme, mentre l’altro, nella sua veste matura, solleva dubbi mettendo a nudo il tanto taciuto. Mi è sembrato come se l’una rimbecasse amorevolmente l’altra parte, e ogni domanda fosse una nuova versione della stessa domanda: “Cosa n’è stato dei sogni e dei pensieri d’un tempo?”. Uno stile intenso, con sfumature di una sensualità inattesa che ho apprezzato molto. Grazie.