RAFFAELE CARRIERI
Nato a Taranto nel 1905, morì in provincia di Lucca nel 1984. Poeta, scrittore e critico d’arte, ebbe un’adolescenza e una giovinezza molto avventurose: giovanissimo, abbandonò Taranto e girovagò per i paesi balcanici, poi partecipò all’impresa fiumana al seguito di D’Annunzio; ferito, trascorse la convalescenza a Taranto, da dove -guarito- ripartì, imbarcato su navi mercantili con rotte mediterranee. Gabelliere a Palermo per due anni, si trasferì successivamente a Parigi, dove rimase vari anni, entrando in proficuo contatto con ambienti culturali d’avanguardia e con personaggi di primo piano nel campo dell’arte e della letteratura. Tornato in Italia, si stabilì a Milano, dove trovò lavoro stabile come critico d’arte in vari giornali. Conobbe e frequentò i più importanti artisti di quel periodo: tra questi Picasso, Modigliani. Guttuso, Fiume . Scrisse in prosa (opere narrative e saggi) ma soprattutto in poesia. Tra le sillogi pubblicate si ricordano Il lamento del Gabelliere (1945), Souvenir caporal (1946), La civetta (1949), Il trovatore (1953), Canzoniere amoroso (1958), La giornata è finita (1963), Io che sono cicala (1967), Stellacuore (1970), Le ombre dispettose (1974), Fughe provvisorie (1978), La ricchezza del niente (1980).
Spirito inquieto e vagabondo, attratto dall’arte nelle sue varie manifestazioni, si esprime in una poesia principalmente autobiografica e, per certi versi, realistica, segnata fortemente dall’esperienza parigina e da quella temperie culturale. Eppure tale realismo si risolve spesso, specialmente nelle ultime raccolte, nei toni sfumati della favola e dell’elegia, nei meandri del sogno. E comunque Carrieri rimane un gentile, gioioso e curioso cantore della vita. (P.B.)
*
Le strade
Quello che sono e sono stato
domandatelo alle strade
dei paesi della sete.
Tufi lucertole spine,
bell’uva sulle colline
dove fui ladro di galline.
Strade di cenere e pomice
lavorate dallo scorpione.
Dove ramingo io vissi
la cicala ancora muore.
Quello che sono e sono stato
domandatelo alle strade.
Una dice, scatenato!
E mostra le ferite
che fuggendo ho lasciato.
Dalle braccia di mia madre
dalle mani dell’amata
sempre fuggiasco sono stato.
Da me solo inseguito
braccato, colpito.
Re per un giorno
per cent’anni povero.
Soldato bracciante gabelliere:
su ogni nuova strada
nuovo mestiere.
Domandate ai sentieri della neve
alle doline alle cordigliere
quello che sono e sono stato.
Domandatelo alle strade.
Alla malora carte
cartigli e scartoffie
che potevano darmi gloria.
La vita ho consumato
su carta e inchiostro.
Mio Dio quanto ho limato
notte e giorno.
Mio Dio quanto ho penato.
*
Quando canti
Civetta, quando tu canti
quando batti sul mio cuore
l’antico mesto richiamo,
quando intrecci sul mio cuore
il primo al secondo anello
come un doppio limpido zero,
quando dai cieli morti
al silenzio vedova torni
nel breve giro di un suono
leghi la mia alla tua notte.
*
Ci siamo riconosciuti
Ci siamo infine riconosciuti
nei grilli caduti
dal cielo d’estate.
Come gli zingari rovinati
da un medesimo editto
abbiamo salvate
le donne e i loro capelli
che ci fanno ombra
sulla pianura.
Abbiamo tolto il lutto
a specchi e campanelli
per divertire l’anima scura.
Commedianti e mendicanti
ci siamo riconosciuti
come l’uva
di una medesima pergola.
Ci siamo messi a cantare
e a ballare
al suono dei tamburi
ciascuno con una cicala
in quadriglia.
Ah, occhi duri
che ci invidiate l’allegria
le donne e i dadi
nella terra di nessuno:
per fare freschi sguardi
ci son voluti millenni di digiuno.
*
Sera d’Africa
I cammellieri fermarono i cammelli.
L’aria era piena di tamburi
come un cestello è pieno d’uova.
Disceso dalla mia torre di stracci
strinsi molte mani
e molto mi inchinai.
Quale giuoco interrotto ripresi?
I millenni divennero specchi
inganni e begli sguardi.
Sposai Sara con la vista.
i neri capelli furono miei
e il gelsomino dei seni.
Senza disfare veli
presi la via del mare.
Sara di nuovo nel tallero
conservato nella lana
suona ancora nell’aria
delle mie sere d’Africa.
*
Tavoliere
Quando scendo dagli Appennini
alla patria remota dei fieni
dell’orbo mi sovviene
asino delle cisterne
che lo zero ripete sempre
alla sete del Tavoliere.
Lunga sete zero cocente
muore l’acqua della sorgente.
*
Ho perduto vecchi amici
Ho perduto vecchi amici
che sembravano fedeli,
e altri più giovani e leggieri
sono usciti dai muri
come ladruncoli svaniti.
Se ne sono andati quasi tutti
in punta di piedi,
ballerini incapaci
che fingevano volare
verso frontiere assicurate.
Nessuno si voltò a guardare
dalla mia parte informe
dove, dopo le rovine,
la musica ricominciava.
*
Per non udire
Alle trombe, a tutte le trombe
dissi fate più rumore.
E anche ai violini
al tamburo e agli ottoni.
Per non udire amore,
per non riudirlo
fino all’orlo
versai vino
e col vento mi coprii.
*
Fra poco
Consumato l’ultimo
inchiostro, fra poco
fra poco sarò pronto.
Raffaele Carrieri
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Non lo conoscevo. Trovo – almeno a me così pare – in questi versi un’ansia irrequieta di conoscersi, di conoscere e descrivere cose, situazioni, luoghi tra loro distanti. Una descrizione spezzata, anche dolorosa se vogliamo, poiché la vita stessa è mutamento, è sostanzialmente sofferenza, inquietudine, insoddisfazione, ricerca perpetua e vana. Una poesia instabile, dove insieme alla rievocazione di luoghi e vicende esteriori ed esterne, si aprono orizzonti interirori, paesaggi dello spirito, costanti incertezze, consapevoli caducità. Pellegrino del mondo, il Carrieri, va alla continua ricerca della propria anima, del proprio essere. Ogni luogo diventa il suo luogo, ma mai definitivamente goduto, mai stabilmente accettato come definitivo. C’è, intera, l’ansia di vivere, nel panorama mutevole del Novecento. Un insistito compiacimento, amaro e sottile: la rivendicazione non dichiarata, ma presente, di appartenervi.
Mi piacciono i poeti come questo che sanno esprimersi con immagini nuove distinguendosi dalla massa. Certo la vita avventurosa è stato lo stimolo fecondo al suo modo di porgersi fuori dalle righe ma è il risultato che conta non come ci si è arrivati.
E inoltre ritrovare un omonimo -forse lontanissimo parente -farà molto piacere al nostro amico Cesare Carrieri – ferrarese doc e che però sta cercando le sue radici nel profondo Sud – il quale non avrà mai il coraggio di scrivere due righe su questo blog.
“Lunga sete zero cocente
muore l’acqua della sorgente.”
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“Ah, occhi duri
che ci invidiate l’allegria
le donne e i dadi
nella terra di nessuno:
per fare freschi sguardi
ci son voluti millenni di digiuno.”
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“La vita ho consumato
su carta e inchiostro.
Mio Dio quanto ho limato
notte e giorno.
Mio Dio quanto ho penato.”
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C’è una frequentazione sporadica, quasi incidentale, della rima nelle stanze polimetriche di Raffaele Carrieri. La sua poesia è un lirismo lucido, narrativo più che auto analitico, una “rechèrche” che non si arresta al tempo delle vicende personali, una retrospezione che ama calarsi in una dimensione popolare, transepocale, generazionale.
Carrieri guarda le cose dall’alto, con un distacco che ne conserva i profili, e che, per contrasto, ne accentua la componente nostalgica.
A suo modo e nei suoi limiti, ricorda il grandissimo Francois Villon:
“Ho perduto vecchi amici
Ho perduto vecchi amici
che sembravano fedeli,
e altri più giovani e leggieri
sono usciti dai muri
come ladruncoli svaniti.
Se ne sono andati quasi tutti
in punta di piedi,
ballerini incapaci
che fingevano volare
verso frontiere assicurate.
Nessuno si voltò a guardare
dalla mia parte informe
dove, dopo le rovine,
la musica ricominciava.”
Raffaele Carrieri
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“Dove sono i bei compagni cortesi
Che seguivo nel tempo passato,
Così dolci a cantare, così svelti a parlare,
Così pronti nel fare e nel dire?
Alcuni sono morti e putrefatti,
Di loro più niente resta adesso:
Riposo abbiano in Paradiso
E Dio tuteli chi è ancora vivo!
Di chi ancora c’è, alcuni son diventati,
Deo gratias!, grandi signori e dottori;
Altri mendicano nudi
E il pane lo vedono sui banchi del mercato;
Altri ancora sono entrati nei conventi
Dei Celestini e dei Certosini,
e hanno uose come i pescatori di ostriche.
Guardate fra loro quante sorti diverse.”
Francois Villon