Pasquale Balestriere, Del tradurre

PASQUALE  BALESTRIERE

 

 

DEL TRADURRE 

 

Traduzioni e traduttori  (Tradimenti e traditori?) 

Che l’operazione del tradurre sia un’arte è cosa risaputa e condivisa. Solo che al termine “arte” viene attribuito generalmente il significato neutro di “attività” e non -come pure si dovrebbe-  quello vero e  proprio di “Arte”, che è l’unico giusto. Almeno nel caso in cui ad essere traslata da una lingua all’altra è la regina delle Arti, cioè la poesia.

Ma procediamo con ordine e senza noiose teorizzazioni, ma anzi attenendoci  a dati reali e, possibilmente, incontrovertibili. Accade spesso di sentire dalla bocca di studiosi di letteratura e di altri  addetti ai lavori che tradurre è sempre tradire; e che, quindi, la traduzione è innanzitutto un tradimento, tanto che traduttore diventa quasi sinonimo di traditore. Ma stanno davvero così le cose?

 

Etimologia

Diciamo subito che la faccenda di una presunta  sinonimia  “tradurre/tradire” esce malconcia  da un confronto etimologico fra i  due termini che, seppure fonicamente e graficamente identici nella loro parte iniziale prepositiva (tra-) e nella consonante che la segue (/d/), hanno in realtà significato diverso.  Infatti “tradurre” deriva dal latino “trans” (oltre, al di là, attraverso) e “ducere” (condurre, portare): quindi “portare oltre, al di là” cioè -per ciò che attiene al nostro discorso-  “trasportare da una lingua all’altra”,  ossia “tradurre”. “Tradire”, invece,  trova il suo fondamento nel latino “traděre”, da “trans” (oltre) e “dare” (dare, consegnare, affidare). Il verbo “traděre” ha tuttavia doppio significato: quello di “trasmettere, consegnare qualcosa a qualcuno”, da cui deriva il termine  “tradizione”; e quello di “consegnare con inganno qualcosa o qualcuno al nemico, macchinare contro la vita di qualcuno”, da cui il verbo “tradire” e il sostantivo “tradimento”. È interessante poi constatare che, sotto il profilo semasiologico,  i due valori  di “traděre” si fondano per la prima volta nei testi sacri cristiani (in primo luogo nel Vangelo), laddove si parla del “tradimento” di Giuda che “consegna con l’inganno” Cristo ai suoi nemici.[1]

 

Tradurre/tradire, specialmente in poesia

Dunque, anche etimologicamente oltre che semanticamente,  tradurre e tradire son cose diverse. Perché dunque gli esperti si ostinano a sostenere l’identificazione “tradurre/tradire”? I motivi sono molti e anche validi. Ma innanzitutto occorre premettere che vi sono tanti tipi di traduzione. Se occorre ridurre in altra lingua un testo in prosa, magari di natura denotativa o argomentativa, il prodotto nella lingua di destinazione è in genere molto vicino al testo originale, fino a identificarsi  quasi con esso. Il discorso cambia, e di molto, quando oggetto della traduzione diventa un testo connotativo, segnatamente un testo poetico; ed anche qui è riscontrabile un diverso grado di difficoltà nel tradurre che va, in senso crescente, dalla maggiore oggettività (e quindi traducibilità) della poesia epica alla soggettività e quasi intraducibilità della poesia lirica, passando attraverso il territorio comunque minato della poesia  drammatica.

Vale la pena di chiarire subito che qui, in particolare,  l’unica traduzione che  interessa è quella dei testi poetici, decisamente la più complicata;  e cerchiamo  di individuare  lucidamente e sinotticamente i motivi per cui  una traduzione può diventare un vero e proprio tradimento. Al primo posto va situata la specificità delle lingue, quella di partenza e quella di destinazione,  anche se appartenenti allo stesso ceppo. Qui il tradimento è necessario; codificato e determinato dalla stessa diversità dei due patrimoni linguistici in gioco, con l’estrema varietà  e singolarità dei significanti. Ciò è tanto più vero se si pensa al concetto pirandelliano dell’incomunicabilità anche tra persone che parlano la stessa lingua, nel senso che le parole hanno un significato diverso per chi le dice  e per chi le ascolta, perché  -chiosiamo-  diverso è il grado di possesso, diverse e individuali la dimensione  e percezione, anche  “fisiche”,  del lessico e delle strutture.  Oltre che la  peculiarità di ogni singola lingua, frappone ostacoli a una corretta traduzione  la diversa dislocazione spazio-temporale  dell’opera di partenza rispetto a quella di arrivo, con tutte le implicazioni del caso. In più va considerata, specialmente per i testi poetici, la capacità di offerta della lingua di destinazione (ricchezza lessicale e fonematica, potenzialità fonosimboliche, allusive, evocative e, relativamente alla versificazione, quelle rimiche, ritmiche,musicali ecc.); e vanno pure tenute da conto l’abilità e la perizia, del traduttore,  che deve mettere correttamente a fuoco testo e autore. Perché, se tradimenti vi sono, questi -almeno nel nostro caso- hanno sempre un nome e un cognome.

 

Doti del traduttore

Al traduttore, specialmente se di poesia, dove il linguaggio è sottoposto a tensioni e pressioni notevoli e a volte anche eccessive, è necessaria una profonda e raffinata conoscenza della lingua di  origine dell’opera e di quella di destinazione, percepite entrambe  fin nelle sfumature di significato;  e, ancora, padronanza quanto più possibile piena di tutti gli strumenti della comunicazione scritta; inoltre fine gusto estetico e senso della misura, per percepire e riprodurre il testo nelle sue caratteristiche, nella sua specificità, nella sua essenza, nelle sue atmosfere : perché la traduzione è un viaggio, un’avventura dello spirito e dell’intelletto, un’impresa connotata da intuizioni epifaniche  o esegetiche e da mo(vi)menti traslativi e ri-creativi.  Bisogna sempre  ricordare che a muoversi da una lingua all’altra è un complesso corpus semantico che richiede al traduttore  dedizione generosa e totale, un corpo a corpo con l’una e l’altra lingua, una sensibilità prensile e vibratile che – tutte insieme- supportino l’operazione del tradurre nel corso completo  del suo farsi, nelle singole fasi del suo definirsi. E tutto ciò non sembri eccessivo, né si commetta l’errore di ritenere superflua una sola di queste doti; ché anzi chi traduce deve aggiungervi una precisa conoscenza  non solo dell’opera che lo coinvolge, ma anche delle altre opere e delle vicende biografiche dell’autore, oltre che del suo periodo storico e delle opere consimili (se ve ne sono) di altri autori; e, insieme, tener ben presente la realtà umana e sociale destinataria della sua fatica intellettuale, il pubblico insomma.  In poche parole  il traduttore deve mettersi nei panni dell’autore, consonare con lui, ancor più se questi è un poeta; e, nonostante tutto ciò, avere la consapevolezza  che il testo di arrivo sarà altro rispetto all’originale.

Come tradurre

Poiché la traduzione è, nella sua prima fase,  sottrazione di un testo alla sua lingua originaria, quella della seconda fase deve essere soprattutto un’opera di restituzione, sia pure in altra lingua. Perché ciò avvenga nel modo più indolore possibile, è fondamentale che il traduttore sia in pieno possesso dei requisiti ricordati poco fa, con l’aggiunta, magari, di capacità poetiche.  Va detto però che quasi mai l’operazione di restituzione trova completa, ossia totale, realizzazione -soprattutto, come s’è detto, per la diversità delle lingue coinvolte- .  E allora? Allora la bravura del traduttore sta nel ridurre quanto più possibile il tradimento, stando vicino al testo ( e qui non c’entra niente la cosiddetta “traduzione letterale”, che anzi è opportuno evitare), al suo significato o senso;  “leggendolo”, anzi svelandolo, con delicata acutezza e prudenza esegetica, fin nelle pieghe più recondite.  Fedeltà al senso, dunque, come elemento fondamentale della traduzione, preservando per quanto possibile gli elementi caratterizzanti lo stile dell’ autore,evitando corse in avanti  ed anche velleitari e dannosi tentativi di malintesa attualizzazione o modernizzazione. E tenendo la barra dritta, stando nel testo e attenendosi alle sue ragioni, seguendone il filo logico senza deviazioni o evasioni  pericolose. Qualora poi qualcuno si interroghi -come  pure è avvenuto-  se nell’economia complessiva  della versione debba prevalere il testo o il traduttore, beh, qui va detto che è basilare una collaborazione tra le parti, nel senso che il traslatore ha, sì, autonomia ma solo in un certo ambito, entro certi confini e fino a un certo punto; deve mantenere saldi legami con il testo, stare dentro  un’ interpretazione plausibile, non superare la soglia di un significato complessivo credibile. Anche se, come è noto, quella del tradurre è sempre inevitabilmente un’operazione soggettiva, in tutti i suoi  momenti.

Obiettivo della traduzione

Uno solo, e apparentemente semplice,  è il risultato che deve prefiggersi un traduttore serio e onesto: mettere il lettore nelle condizioni di capire l’autore come se ne leggesse il testo nella lingua originaria. Per questo la sua intermediazione deve essere intelligente e cauta, colta e sensibile, vivida e acuta; e, naturalmente, sempre basata sul pieno possesso delle due lingue chiamate in causa.

Conclusione, con aneddoto

Alcuni anni fa -era dicembre-  mi capitò di polemizzare (educatamente) con un traduttore che aveva commesso l’errore di usare  l’aggettivo  possessivo “proprio” ( che, se non è rafforzativo, si usa solo per la  terza persona) in luogo dell’aggettivo “nostro” (che è di prima persona plurale) in un contesto simile a questo che segue: “noi aprivamo le pagine del libro come in casa propria apriamo le finestre”, invece del corretto: “noi aprivamo le pagine del libro come in casa nostra apriamo le finestre”. Ancora oggi non so se il traduttore abbia colta la differenza tra le due forme, perché, sempre con gentilezza, ma anche con una certa sicumera, così  rispose ai miei rilievi: “Grazie di nuovo, non insisto, dal punto di vista grammaticale lei sembra più ferrato di me, ma qui siamo nel campo della traduzione poetica, dove modestamente ho pochi rivali e dove per me vale molto la sonorità, la musicalità, e per me quello che ho scritto suona bene. Cordiali saluti e con l’occasione Buone Feste. “(segue le firma) “PS. Se proprio non le va giù la consideri una licenza poetica“.  Lasciai perdere, ricambiai gli auguri, ma avrei voluto rispondergli che le licenze poetiche non vanno a scapito gratuito, e sottolineo gratuito,  della grammatica. Tuttavia non so se avrebbe capito.                                                                                                                                                                          Io invece considero che, come ho già scritto tra l’altro nel paragrafo “Doti del traduttore” e ribadito in “Obiettivo della traduzione”, alla base di ogni intenzione (non velleità!)  traslativa debba esserci necessariamente  un’accurata e profonda conoscenza delle due lingue chiamate in gioco, perché in mancanza di tale requisito è possibile ogni scempio. Se poi chi si avventura per questi sentieri insidiosi è in possesso anche delle qualità e degli strumenti che qui ho cercato di indicare, allora avremo buone probabilità di imbatterci in traduzioni che siano in grado di farci rivivere, con un grado di “tradimento” quasi impercettibile,  la genuinità, la ricchezza e le emozioni dell’opera originaria.

Pasquale Balestriere

[1] A tal proposito si veda anche B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Bompiani, Milano 1994, p.  46

 

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7 risposte

  1. Questo scritto di Pasquale è una disamina attenta e completa – e per me perfettamente condivisibile – della rischiosa operazione di trasposizione di un testo letterario da una lingua ad un’altra, maggiormente se si tratta di poesia.
    La poesia è un unicum, in cui si fondono armonicamente eventuali rime, ritmo, musicalità, assonanze, metafore ecc. Il tutto concorre a creare un prodotto della fantasia, un parto dell’anima, che andando al di là della realtà contingente la contiene e la supera, la pone al di là delle circostanze spazio-temporali, la trasforma e la nobilita. Portare quindi una poesia nata in un determinato spazio linguistico in un altro, può risultare disastroso o banalmente ripetitivo. Tradurre è tradire? si chiede Pasquale… Può essere tutte e due le cose insieme. Ma nella poesia in particolare, tradurre alla lettera non basta, anzi può essere estremamente deleterio, restituendo nella lingua di arrivo un corpo morto, privo degli originali bagliori, della sua primitiva vitalità. Credo che un buon traduttore-traditore debba conoscere – come giustamente afferma Pasquale – tutte le insidie e le sfumature della lingua di nascita, ma deve soprattutto avere la capacità di calarsi nel luogo e nell’ora in cui la versione originale è nata, in definitiva deve essere capace di “sentire” come ha sentito l’autore primo. Allora trasporre non è solo un atto di traduzione, di rispetto delle caratteristiche semantiche e della costruzione sintattica, ma diviene … un atto d’amore, di empatia con il testo e con il sentimento dell’originale. Un esempio per tutti: “La feuille” di Arnault, nella versione leopardiana che lungi da essere una traduzione letterale, ne rispetta i motivi, la musicalità, la narrazione fantastica, addirittura – secondo il mio modesto punto di vista – migliorandola, trasportandola ad un livello altissimo di lirismo interpretativo. Pasquale, in questo scritto, ha definito in modo esauriente e preciso tutte le implicazioni che si incontrano nelle diverse fasi di una trasposizione che voglia restare, essa stessa, poesia, restituendo il sentimento dell’originale, traducendo ciò che è “intraducibile”, ma che solo la sensibilità del traditore può mantenere: l’emozione e l’afflato della prima scrittura.

  2. In riferimento all’aneddoto riportato da Pasquale va sottolineato che un traduttore la grammatica della lingua in cui traduce la deve conoscere. Se non la conosce, come nel caso in questione, sta facendo qualcosa che non è in grado di fare ( fuori luogo nonché patetico poi il richiamo a una presunta “licenza poetica”).
    L’ampia dissertazione di Pasquale indica gli obbiettivi di una buona traduzione.
    Io personalmente credo che la traduzione perfetta non possa esistere perché trasferire interamente i contenuti semantici e fonetici di una lingua in un’altra è praticamente impossibile.
    Io me ne sono accorto traducendo Mallarmé e Valéry.
    Ogni traduzione, anche la più attenta, è destinata a risolversi in un naufragio linguistico. È già molto limitare i danni e riuscire almeno a ricostruire un “clima poetico” vicino alla sensibilità dell’autore.
    È stato notato più volte che il tentativo di ottenere una troppo stretta fedeltà al testo originale spesso porta a traduzioni scialbe e svigorite, insipide e straniate, sostanzialmente scolastiche, e che tradurre più liberamente può dare risultati più attraenti. Così spesso si hanno “belle traduzioni poco fedeli” oppure “traduzioni fedeli ma brutte”.
    Il difficile è proprio qui: riuscire a mantenere la vitalità del testo originale rispettandone la traccia linguistica.

  3. Considerazioni validissime ma valle a spiegare ai traduttori. Un mio amico, malgrado le mie sollecitazioni, si è rifiutato ostinatamente in una sua trasposizione dal francese di sostituire il termine “vegliardo” riferito a un uomo di cinquant’anni che oltretutto aveva stuprato una bambina perché cosi era l’esatta traduzione del testo ottocentesco. Non parliamo di tutti i modi di dire che resi alla lettera non hanno significato nella nostra.
    Orrore degli orrori: ho sentito tempo fa in una copisteria una scrittrice che rivelava di rifarsi al “traduttore automatico”. E ho conosciuto anche traduttrici semianalfabete che però erano di madrelingua.
    Per concludere: se volete conoscere a fondo un autore straniero affidatevi a traduttori di una certa fama per non essere fuorviati dall’inesperto che ha effettuato l’operazione.

  4. Ringrazio gli amici che hanno apportato questo interessante contributo di idee, arricchendo il post. Sarebbe auspicabile che ogni traduttore migliorasse ed elevasse il proprio livello di competenza, continuando a studiare e a perfezionarsi, per tentare di rendere in modo più adeguato atmosfere e sentori, ma prima ancora il senso, del testo di partenza. E facesse professione e pratica di umiltà.

  5. ho letto ora…un articolo straordinario! Per me dico una cosa sola : che il traduttore debba padroneggiare le due lingue va da sé , che debba conoscere bene l’autore in questione, il suo carattere la sua vita, la sua anima, il suo stile…e certo! Ma da parte mia la traduzione di un’opera letteraria è solo un ” male inevitabile” perché nulla può eguagliare il poeta o il romanziere. Certo…un libro di scienze, medicina, chimica , storia ecc è un’altra cosa…siamo su piani diversi: lì contano le informazioni , i concetti e quelli quando li hai tradotti correttamente basta…, ma un’opera letteraria risente eccome! della mano del traduttore . Mica solo la poesia, anche il romanzo, sì, perché mi ricordo bene due traduzioni di ” Tre uomini in barca”…mi restò impresso un punto nel quale si descrive Montmorency, il gatto: un traduttore aveva scritto che questo gatto” dopo innumerevoli battaglie d’amore aveva ancora un grosso pezzo di naso”,,,e un altro diceva che ” ” dopo innumerevoli battaglie d’amore conservava ancora un notevole pezzo di naso”…c’è una bella differenza!!….il naso resta quello, ma in ” notevole” c’è una sfumatura comica che l’anonimo e piatto ” grosso” se la sogna! Se questo è per un rigo di un romanzo figuriamoci nel caso di una poesia …. Un male inevitabile; questo è la traduzione! …se vogliamo che tutti possano leggere qualcosa quel qualcosa va per forza tradotto, però non è mai come l’originale. Può essere anche migliore, mica dico che debba per forza essere peggiore!…ma resta il fatto che è “un male inevitabile perché” non ti mostra l’autore com’è davvero. Quante volte ho pensato, leggendo Dante, alla fortuna di essere Italiana!…ma come fa la Divina Commedia a restare Divina tradotta in un’altra lingua!!!! E poveri diavoli…anche gli altri hanno il diritto di leggerla…e vorrà dire che prenderanno quel che passa il convento…d’altra parte noi facciamo lo stesso quando leggiamo Shakespeare o Lorca o chi vi pare…

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