Giuseppe (Pino) Macrì, Undici aprile 2020, Ventunesimo giorno

PINO MACRÌ

 

 

Undici aprile 2020.
Ventunesimo giorno

(Racconto vincitore del Premio Letterario “Maria Francesca Iacono” 2023)

***

Ho sempre tenuto un diario. Preciso, maniacale. E a pensarci era anche utile.

Poi da “grande” ho smesso. Turbamenti, figli, acciacchi, stagioni che si susseguivano veloci, non c’era tempo. Ma ora, con il Corona Virus, tempo ne avrei. Solo che non posso: è successo che non riesco a scrivere un rigo che sia un rigo. E non riesco neppure a leggere. Sul comodino, uno sull’altro, quattro profumati libri: “Tutta Frusaglia”, “La base della felicità”… E pensare che fino a ventuno giorni fa, testa affondata nel cuscino di piume, non azzeccavo gli occhi se non leggevo pagine su pagine. Invece adesso…

E meno male che ho l’orto attaccato alla casa. E così, chiuso nel recinto zappo, semino, monto e smonto, riciclo, invento. E penso. Organizzo e penso, codifico e ripenso.

 

11 aprile 2020, ventunesimo giorno, sette del mattino. Un sorso di caffè che è un mezzo schifo.

Questa macchinetta d’acciaio la devo buttare, ma poi, già accumulatore seriale, rifletto e mi capacito: non è tempo di gettare niente. Neppure un chiodo arrugginito, un elastico, mezza candela, un pezzo di cornice. Mi intalleo un po’ e riprovo: secondo sorso. Sembra orzo, non c’è niente da fare.

Aria brillante anche oggi, un silenzio surreale. Sarebbe bello poter uscire, andare sulla Pagoda, magari al tramonto. Salire i gradoni di pietra e riempirsi l’anima del profumo appiccicoso del lentisco. Guardare il mare dal braccio del faro, contare i suoi riflessi, giocare a indovinare il vento, fermare lo sguardo sul lussureggiante isolotto di Vivara, sul Castello, immobile e severo.

Il minimo rumore mi agita: «Drin, drin. Driinn», il telefono squilla sfacciato. Con la lentezza acquisita alzo la cornetta e rispondo: «Chi è?».

«Non attacchi per favore… Ho fatto un numero a caso… Negòt, sono di Bergamo».

Pausa lunga: «La prego, voglio scambiare solo due parole…», voce dolce.

Mille parole in realtà: ottant’anni, pensionato, ex insegnante di italiano. Chiuso in un appartamento al terzo piano incastrato in un palazzone di cemento. Solo.

Quasi non ho spiccicato parola. Ho pianto senza lacrime, e ho abbozzato un sorriso: «Mi chiami quando vuole», non ho detto altro. Mi tremava la voce. E le mani.

Riprovo col caffè. Apro la porta che dà sull’orto e guardo in alto, oltre la collina. Poi osservo le piantine di pomodoro dal portico. Quelle di basilico. Rialzo gli occhi: il cielo è più terso che mai. Un sospiro. Poi un altro. La tettoia lascia cadere le ultime gocce di rugiada, i pomodori sono verdi, vigorosi. Se non prendono il virus, verranno su una bellezza.

Mi ripiglio. Due dita di latte freddo, un biscotto e comincio. Oggi attività leggera fino a mezzogiorno. Sciolgo la pittura, copro i mobili e inizio a stuccare una parete del salone. Grandi manovre da due giorni, ma in realtà sarà una giornata uguale identica alle ultime. Lavoro fino allo sfinimento, ma poi lascio perdere: al diavolo la casa! Vado nell’orto, afferro la zappa e zappo. Zappo. Zappo fino alla gratificante stanchezza. Nonostante gli acciacchi cronici mi muovo più che posso, così le rigaglie che mi tormentano diventano ingranaggi da ventenne: «ZzzZzz…», raddrizzo la schiena, alzo la testa; un drone attraversa il giardino, poi rallenta e indugia a tre metri da me. Riabbasso la testa, mi puntello sull’asta e pianto di nuovo il ferro nel terreno. È vita. Diversa, ma è vita. Pensi meno, almeno fino a quando c’è luce. Poi ti sistemi, quando sei di vena ti lavi pure, ceni, discorri con tua moglie, l’altro abitante della casa. Telegiornale: ascolti gli “esperti” ma dopo un po’ spegni. È sera, sembra sempre la stessa. Scrocchio il collo a destra: «Tac». A sinistra: «Tac, tac…». Mi stiro sul divano di fronte all’“Isola dei Morti”: il gozzo bianco si avvicina al maniero dello scoglio scuro, dietro di sé la scia immacolata e apparentemente immobile. Scia come eco di speranza o illusione, come sogno, come desiderio. È un’immagine che mi lucida gli occhi. È da ventuno giorni che guardando il dipinto blu, mi succede.

Inspiro. Butto fuori l’aria. Cena: tavola frugale, tovaglia bianca a quadretti rossi. Caciotta, pancetta di casa, la seconda raccolta di fave ammonticchiata al centro. Frenetici tocchiamo e spezziamo il pane con le mani, mani che si sfiorano senza volerlo. Abili sgusciamo e succhiamo le fave. Centelliniamo voluttuosi il vino, nettare divino. Lampi impagabili di pura felicità: sai che nonostante tutto domani ci sarà ancora il fresco levante, o la pioggerellina di aprile, quella che non bagna neanche. E come da mille anni sfrecceranno allegre le rondini in frac. Complice il vino, un palpito: nonostante quest’assurda pantomima un brivido mi sale dalla schiena. Vorrei condividere il pasto con mia madre, rinchiusa senza capire bene il motivo. Con i miei figli e le nipotine che vivono in altre dimore, vicini ma lontani in modo devastante.

«Drin. Drin. Driin».

«Buonasera, da Bergamo, ricorda? Stamani non le ho detto il mio nome: che crapù!».

«Ma lei è proprio solo?».

«Stefano, mi chiamo… solo… col vecchio Nemo».

Spalanco le orecchie: «Un cane?».

«Un bel pointer, docile. Con lui andavo a Pavia a sgnèpe. Vive in casa, è la mia compagnia».

«Anch’io vado a caccia e ho un cucciolone di Springer».

«La caccia! Mia moglie mi capiva, povera la mia Nora. Ho iniziato nelle risaie. Canali, incolti e tanti beccaccini: li sogno tutte le notti. Negot… così non penso ai carri dell’esercito che continuano a sfilare sotto casa lentamente, senza fare rumore. Mi avvicino alla finestra, chiudo gli occhi e immagino di calpestare fango e acqua, di passare cannelle e labirinti di erbe. Dopo un po’ li spalanco e vedo prati nuovi e campi pettinati dal vento da dove le allodole si alzano trillando gioiose. Li richiudo, e nella terra grassa dove i gambali di gomma affondano di poco, sento il gracidare lontano di un rospo, mentre una trasparente libellula riposa sulla punta di una canna ad ali tese… Fantastico di scoprire uno slargo che affaccia sul lago che in realtà è uno stagno, una palude, o forse è il mare… di indugiare su un argine dove d’inverno c’è solo pozzanghera. E di fissare il ciglio erboso, l’effimera striscia di verde che separa lo specchio d’acqua dal cielo, sentire la vita sospesa, fulminata dal sole o dal gelo. Negòt: vorrei vedere questa luce per l’eternità».

«Accidenti, lei è un poeta…», gli dico sbalordito. Anche stavolta le parole fanno fatica a uscire. Vorrei raccontargli una delle mie storie di caccia, ma aggiungo solo: «Le beccacce sono la mia ossessione».

«I beccaccini, i frullini, mi mancano… Poi da vecchio sparavo ai sasselli dal capanno di Carlo. Comodo, pure la stufetta avevamo. Carletto… un vero amico, più giovane di me. Ma ora è in ospedàl e non risponde a nessuno, nemmeno a me. Ma mi scusi! Non le ho chiesto come si chiama…», continua.

Tossetta. Altra pausa: «Mi chiamo Giuseppe, da noi il passo è soggetto ai venti, alle correnti. Insomma, tanti ricordi. Nostalgici, forti. Maa, Stefano, posso darti del tu? Sììì? Mi dai il numero?».

«Giuseppe, a mente non lo ricordo, il numero», e attacca.

Nottata agitata: ho fatto capriole nel letto come un capitone sulla sabbia. In testa ho ancora l’ultimo pezzetto di sogno: i binari marcati lasciati sul selciato polveroso dalle ruote dei camion che passano silenziosi tra edifici grigi e uguali. Il calabrone metallico invece parla: «Vai dentro!», mi intima ronzandomi sulla testa.

Alba: la luce che filtra attraverso la persiana mi sveglia del tutto.

Spalanco la finestra e apro i polmoni: il cielo è proprio celeste.

Solito caffè che oggi mi sembra accettabile. Non so perché, ma ho l’impressione, anzi, sono sicuro che Stefano richiamerà. E al telefono parlerò, questa volta. Gli racconterò di mio nonno che nel ‘17, dalla Calabria si trovò in Friuli, nel gelo, senza scarponi. E voleva morire, invocava di morire… Oppure no! Lo rincuorerò: parlerò di uccelli, di cani e di caccia. E parlerò a lungo, come ha fatto lui: ho tutte le parole ben in testa. Gli racconterò di quando in piena notte, Ercolino, novello Caronte, mi lasciò sui lastroni dell’isolotto di Santo Stefano. Indovinata l’insenatura, mantenendosi sui remi, il barcaiolo mi passò il cane e poi lo zaino, il fucile, gli stivali. Sbarbato e ripulito, cappello in testa, giaccone addosso, nei tasconi ami e lenze, sigari, cerini, Aspirina, nastro isolante, la torcia, due candele e un gomitolo di spago. Nella ladra un salame, pane, mezza forma di formaggio. Mentre mi arrampicavo, la solita sfida: realizzando di essere solo, paura e immortalità si alternavano. Scelsi la segreta numero 8 del vecchio carcere borbonico, e come sempre fui subito parte dello scoglio. Lassù, nel penitenziario vuoto, il silenzio perfetto era la mia angoscia più grande. Quando la quiete era così sconfinata da diventare un tumulto, e tra le crepe degli approdi l’onda lieve s’adagiava senza fare rumore, l’ansia mi assaliva. Sapevo di dover resistere a malanni, allo smisurato scorrere del tempo. Ma ero giovane, la passione mi divorava, il sogno mi dava coraggio. Godevo di quelle purissime gioie: giorni di attese, sale sulla faccia, le ferme di Tom, il cuore in gola. Poi il frullo improvviso, la stoccata, la spruzzata di piume brune. Le arcere… Ero su quella rupe per quei momenti!

Gli dirò tutto di quell’otto marzo, quando, dopo un’intera notte con l’acqua di traverso, il mare si mischiò col cielo e sembrò ingoiare l’atollo. L’isolotto era preda di una furiosa libecciata, con le onde che si frantumano sulle rocce, consumano le falesie e raggricciano i pensieri. Poi all’improvviso il vento girò e una fumaggine di perla si impadronì del faraglione. Quattro cartucce in tasca, fucile in spalla, uscii dalla cella e la nebbia mi avvolse. Pochi metri e il cane era già in ferma! Mi piegai e lo spinsi delicatamente: «Pa-pa-pa…», la beccaccia partì bassa e fragorosa, subito presa dal nulla. Un altro passo e un’altra arcera si involò. Regale, la testa inclinata, il becco all’ingiù, occhioni stupefatti, mostrò il petto e si incolonnò prima di essere ingoiata dalle nuvole. Dieci, venti, più avanzavo e più mi sentivo ghermito da remiganti e ginestre, schiaffeggiato da irridenti diavolesse che sparivano come fantasmi. Le ritrose fate divennero streghe che in un sabba orgiastico, celate dall’evanescente nebbiolina, si erano radunate sul pinnacolo. A decine, a centinaia… Mi girava la testa; in una vertigine d’infinito, mi adagiai nell’erba. Sorsate di profumata brina mi riempirono i polmoni. A sud, sull’orizzonte, la mia terra tremolava su pennellate d’argento.

Un falco pellegrino, stridendo sfrontato, si staccò dal fianco della roccia e venne a trovarmi. Mi assopii e piano l’incubo svanì. La caligine scomparve, come il terrore di una mattina senza l’alba, di un’aurora senza luce.

Dopo tre settimane Ercolino mi recuperò. Barba arruffata, qualche ruga più marcata, capelli come un indio, come ogni volta mi sarei riabituato pure alle parole.

Questa la storia che racconterò a Stefano quando richiamerà! Parleremo ancora di sovrumane visioni, di cieli vicinissimi. Quando eravamo liberi, felici senza saperlo. 

Prendo la zappa e torno nell’orto. Per un attimo alzo lo sguardo verso nuvole innocue e bianchissime. Affondo deciso il ferro nella terra. E ricomincio, cercando di tenere lontani i pensieri. Stasera, ventunesimo giorno, abbozzerò di nuovo qualcosa.

Pino Macrì

 

 

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14 risposte

  1. E’ finito? Non ce n’è un altro po’!? Mi piace così tanto che sono arrivata in fondo e m’è sembrato troppo presto. Certo che non avranno durato molta fatica a farlo vincere questo racconto…è talmente bello! Mi piace lo stile fluido, semplice, la parlata familiare, senza arzigogoli, senza pose, senza pesantezze insomma. Qui c’è la storia di tanti di noi nel primo periodo covid, quando ci siamo trovati di punto in bianco in un altro mondo e ci siamo sentiti in galera e ci siamo arrangiati come abbiamo potuto.. Mi veniva sempre a mente nonna Natalina quando parlava della Spagnola e diceva che aveva portato sottobraccio dei bimbi piccinini al cimitero avvolti in carta di giornale, perché non c’era più neanche il becchino. Pare una barzelletta…macabra, ma una barzelletta! e invece era vero e mi chiedevo come mai in famiglia mia nessuno se l’era beccata la famigerata spagnola. Chissà se questa storia di Stefano e Giuseppe è inventata o se è proprio vera-vera…forse sì perché Giuseppe starà per Pino…beh, importa fino a un certo punto…. Tutti noi siamo stati prigionieri, ci siamo sentiti ” diversi” dal solito, abbiamo cercato compagnia come abbiamo potuto…noi girelloni nel mondo virtuale abbiamo stretto legami sulla piazza di FB , abbiamo cercato anche noi la vicinanza di altri tramite il telefono. Lui ha avuto anche fortuna perché , bene o male, aveva un orto, e un orto e una zappa e niente mal di schiena, bastano per campare alla grande ! Stefano sarà stato più sacrificato, come tanta gente che magari abitava in tre stanze in città. C’è anche chi dalla finestra vede un muro, e dev’essere stata dura per loro, povera gente…o per chi aveva bambini e non poteva spiegare perché non li portava a giocare al parco….Bella questa amicizia così istintiva, nata nel bisogno, nata dal nulla…sentirsi nella stessa barca, aspettare che l’amico ci dica di sè un po’ di più, si faccia conoscere meglio, potergli dire di noi…scoprire interessi comuni come la caccia, cose semplici, cose vere. Bellissimi i panorami, la vista del mare, l’avventura dell’atollo. Mi piace come scrive e non è che a me piacciano tutti…quando leggo un romanzo cerco l’avventura, come i ragazzetti :-), ma chi sa scrivere davvero, ti conquista semplicemente ” parlando”.

    1. Cara Lidia, troppo buona con me!
      Da dove cominciare…
      Proprio ieri riflettevo ragionando su un post di FB: “20 marzo 2020, il giorno più brutto della nostra recente vita”. Nel servizio Conte and co. ci “dicevano” di rimanere nelle case senza poter più vivere. Reportage angosciante, apocalittico e tanto surreale da non sembrare vero, da non sembrare possibile. Era vero! E’ stato vero!
      E mi sono sentito di nuovo piccolo piccolo pensando a come abbiamo rimosso buona parte di quest’incubo indicibile. Pochi hanno scritto! Che strano…
      Forse, come ragionava Pasquale, proprio perchè troppo grande la tragedia: dovevamo rimuoverla, metabolizzarla con la non memoria. Almeno quella recente.
      Ho pensato a tante cose. Al silenzio di quei mesi. Alla luce. Ai miei nonni: avrebbero mai potuto concepire una cosa del genere?

      Due: Giuseppe sono io. Il fortunato con l’orto sono io. E ringrazio Dio per questo.
      E la telefonata era vera! Vera. Vera. Vera… Ho pianto un giorno intero intero…
      Una settimana prima me ne aveva parlato il mio amico, direttore del museo di Jesolo: “Sai che ci sono tanti anziani rinchiusi in casa che telefonano per sentire il rumore di una voce di un’altra persona?”.
      Uno scherzo, pensai, quando mia moglie mi passò la telefonata. E ancora ora, anche se sempre più sbiadita, sento la cadenza, la sofferenza e nello stesso tempo la gioia e la fierezza della sua voce lenta e cadenzata.
      La storia della caccia, invece, è inventata, aggiunta. Inserita per partecipare ad un concorso di letteratura venatoria. Roberto mi disse chi era, che faceva ora, dove viveva. E mi chiese di dov’ero. Avevo la gola, la bocca, il cervello secco. Arido. Ricordo la sensazione di singhiozzo che non c’era. Ridevo, sorridevo, mi ha detto mia moglie.
      Grazie ancora, Pino

      1. Caro Pino, io non sono troppo buona, ma neanche per sogno! Dico quello che penso e quello che penso è sempre vero per il semplice motivo che lo dico io : modesta, no ? 😀 Beh…un sorriso non ha mai fatto male a nessuno 🙂 Mi piace come scrivi e te l’ho scritto in un commentino semplice perché di critica non so un fico secco e non ho mai voluto saperne nulla, anzi…ho sempre accuratamente evitato di leggere saggi critici , prefazioni e cose del genere perché, mi si perdoni o no ( che fa lo stesso) mi stanno sullo stomaco. Commento volentieri chi mi piace… come mi riesce, ma lo faccio; se uno non mi piace…dipende : se è una brava persona , allora anch’io faccio la brava e una “carezza” non gliela faccio mancare perché chi fa del suo meglio è giusto che si senta gratificato…se è uno pieno di sé, allora glielo dico in altra maniera…in fondo sono una carogna, ma onesta perché lo so , lo dico e nemmeno me ne dispiaccio. C’è una gran soddisfazione a cantarle chiare a chi si crede chissà chi e in questo , se mi ci metto, sono meglio della Callas. Ma tu sei proprio bravo! Leggerti è piacevole, è respirare aria pulita da pose di qualsiasi genere, è vedere, sentire, vivere, conoscere, toccare con mano …e non è poco davvero. Torna a trovarci presto con un altro racconto bello come questo…

  2. Uno scrivere, questo di Macrí, di una fresca e spontanea leggerezza. Semplice ed efficace, il racconto prende avvio dalla trascorsa epidemia di Covid e dalle relative restrizioni da questa imposte, relegando ognuno in una momentanea solitudine preventiva, con l’annessa paura, specie per gli anziani, di un poco gradito anticipato trapasso. Compagni di ogni solitudine sono i ricordi. In questo caso innescati da quelli della telefonata di un altro anziano recluso che, pur di parlare con qualcuno per rompere il fastidioso isolamento, si mette a raccontare di caccia. Sì, la caccia: grande passione dell’autore, che si palesa nella descrizione degli episodi di una lontana battuta, in solitaria, alle beccacce, provvisorie abitatrici di isolate scogliere, colà riparate per riposare, durante un fortunale, nella loro lunga migrazione autunnale. Proprio in queste righe anch’io, cacciatore appassionato in gioventù, mi sono riconosciuto, mi sono ritrovato. Mi sono ritrovato in quel certo romanticismo delle cacce di una volta quando non esistevano ancora gli “sparatori”, invasati lestofanti che tirano a tutto in preda ad una follia omicida che li scaglia anche contro i più piccoli uccellini, le più insignificanti catture, pur di assordare, ad ogni ora del giorno, la riposante pace delle campagne. Il Macrì ci parla, invece, di una caccia in solitudine, di un ritiro spirituale quasi, nel tentativo di conquistare le ambitissime spoglie della “regina del bosco”: la beccaccia appunto, amante delle ombre, frequentatrice degli slarghi tappezzati di foglie morte sotto cui ama cercare, col lungo becco, i lombrichi suo cibo preferito. Una creatura elegante e sfuggente, la beccaccia, ambito trofeo dei veri cacciatori, croce e delizia dei cani da ferma. Mi sono ritrovato in queste descrizioni, nelle giornate nebbiose e umide, nei silenzi sospesi e nelle attese di un frullo improvviso, quando il fedele amico di cerca si irrigidiva in una puntata statuaria, che non ammetteva errori. Allora con silenziosa e rapida falcata, la regina s’involava silenziosa nella valletta di sosta, mostrandosi per un solo momento, da cogliere alla stoccata. E questa descrizione, in questo racconto, mi ha riportato alla mente un libro che mia zia Maria, sorella di mio padre, mi regalò nel lontanissimo 1956: “L’Arno e i cacciatori romantici”, di Vincenzo Chianini, in cui arieggiano descrizioni a questa paragonabili. E per finire, mi sovviene una graffiante epigrafe di Renato Fucini, cacciatore pure lui, lasciata in quel di Stabbia sul muro di un casotto di caccia di un tal Pinciano, amico suo, preso di mira per uno scherzo non proprio digeribile, sulla sua rinomata perizia nel confezionare, nei pranzi con gli altri amici cacciatori, i tanto rinomati e prelibati crostini di beccaccia: “Fermatevi e ammirate Stabbiolini: / questa è la reggia di Pinciano il grande / che senza le beccacce fa i crostini / grattandosi la merda alle mutande”. Buon appetito!

    1. Poverini! Ce la fate, eh, coi fucili contro quelle bestioline indifese! Sono gioielli dell’aria e vanno guardare e ascoltate. A me della caccia piace solo vedere il lavoro dei cani, specie la punta del pointer…un po’ meno la filata del setter, ma insomma anche quello è bello. Non come il pointer però, re del vento e della pianura, quello è davvero fenomenale. Quando andavo sul campo dopo aver preso il diploma di giudice della Federcaccia io mi incantavo col pointer: quando si ferma immobile…una statua!!! non c’è nulla di più regale. Ma poi basta. Poi una merenda e niente sparatorie.

      1. Lidia, è vero: come ferma il pointer non ferma nessun altra razza.
        Brioso L’Epagnol Breton, filante ed elegante (redditizio a beccacce…) il Setter, potente il Bracco tedesco, più ancora il Drathar, lentopede e bellissimo il Bracco italiano.
        Ma quando il Pointer “inchioda”, muscoli scolpiti e vibranti sotto la pelle, occhio pazzo, narici aperte, frustino immobile, e zampa a quarantacinque…
        Uno o Zar!
        Io ne ho avuto uno bello, bravo e anche buon riportatore. Buono come il pane, martire di un prepotente Springer cucciolone! Tommy, si chiamava…

    2. Caro Lido,
      embè, lo Stefano poeta del bozzetto sei tu! Che meravigliose sensazioni descrivi. Con quale sensibilità.
      Certo, appassionato cacciatore sono, ma soprattutto sono stato. La caccia… poesia fatta di natura, fatta di bruma nei polmoni, di albe dicembrine avvampate dalla tramontana gelida e leggera, di pioggia di traverso e di sole settembrino, non c’è più.
      Non ci può essere. Tutto cambiato, non solo gli habitat, le stagioni, gli inquinamenti. E non ci sono polemiche da fare: tutto troppo veloce, per una ruralità che ha bisogno di “tempo”, di emozioni, di sensibilità, di spazi. E di altro.
      Attività millenaria prima, che da dopo (e con) la rivoluzione francese, ha percorso decenni velocissimi e oramai fatali, prima di scomparire. E ora, quindi, la penna! Arma potentissima. Arma della memoria, che ribadisco, nel caso specifico della caccia, dell’aucupio, ha salvato generazioni dalla fame che portava anche alla morte. Vedi il vescovo di Capri che faceva… macumbe per augurare l’entrata delle quaglie. O erano guai, scomuniche, insurrezioni e fame nera.
      Ti abbraccio, Pino

    3. Caro Lido, buonasera!
      Caccia… cacciatori… atmosfere…
      Momenti ed emozioni, come dico sempre più spesso, “lontane”. Quasi fuori tempo.
      E io, inguaribile nostalgico, stento a ritrovarmi in questo periodo lucidissimo e iperveloce, dove un’influencer (sic!) stupidisce tanti sudditi senza sogni e (forse) senza futuro. Sicuramente senza emozione e senza amore.
      Detto ciò, se non ricordo male hai scritto un libro di racconti di caccia? Se sì, vuoi scambiarlo col mio “Andrea e le fate”? Ne ho ancora 3 copie, e ne sarei onorato.
      Ti abbraccio.

  3. Bellissimo racconto che evidenzia la capacità innata di questo scrittore di creare un testo quasi dal nulla. E poiché Lido ce l’ha sempre con la “poesia prosastica” qui, invece, è “prosa poetica”. Complimenti all’autore!

    1. Esatto Carla…verità vera ..è più poesia una prosa così che certe ” poesie” che fanno venire il torcibudello solo a leggerle… !

    2. Cara Carla,
      come ho significato più volte a Pasquale, non so dirti di poesia. Mi piace leggerle, ma poi non so dire, capire o disquisire. Figurati per i miei umilissimi scritti: bontà tua…
      Un abbraccio, Pino

  4. Evocazione e descrizione, cronaca e ricordo. Tutto evidente, tirato a lucido, incisivo, completo.
    Pino Macrì sa giocare col tempo e con le immagini trovando la giusta misura narrativa. In questo breve racconto fa un affresco mirabile della terza età e lascia il segno.
    Per me un grande scrittore.

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