Lorenzo Calogero, Alcune poesie

LORENZO CALOGERO

Nato il 28 maggio 1910 a Melicuccà (RC), esercitò per brevi periodi e malvolentieri (anche per turbe mentali e ricoveri in casa di cura) la professione medica, dandosi infine, verso la metà degli anni Cinquanta, completamente alla poesia, che peraltro già praticava dagli anni Trenta. Una vita sofferta, piena di fobie, di solitudine e di abbandono che si concluse con una fine che sembra avere le caratteristiche di un suicidio: il 25 marzo 1961 venne trovato morto -ma il decesso precedette di qualche giorno la scoperta- quasi certamente per eccesso di barbiturici. Ancora desta emozione il biglietto trovato vicino al suo corpo: “Vi prego di non essere sotterrato vivo”; e alimenta un’amara incredulità il fatto che il mondo letterario dell’epoca sia rimasto insensibile di fronte alla poesia di Lorenzo Calogero (fatta eccezione per Leonardo Sinisgalli, che gli fu vero amico, ne apprezzò il valore e, unico, cercò di aiutarlo). E non servì a nulla che Lorenzo si proponesse, inviando le sue poesie a editori, poeti, scrittori e critici letterari. Porte chiuse, sicché dovette pubblicare alcune raccolte a sue spese. Poi, come per miracolo, appena a un anno dalla sua morte, la scoperta di Lorenzo Calogero poeta, il classico “caso letterario”: l’italico mondo letterario andò in subbuglio, si scomodarono a parlare di questo poeta fino ad allora bellamente ignorato i più grandi poeti e critici letterari dello Stivale. Ma si trattò di un fuoco di paglia e presto Lorenzo Calogero tornò nell’ombra. Sfortunatamente.
In vita ha pubblicato: “Poco Suono”, Centauro Editore, Milano 1936: “Come in dittici”, ed. Maia, Siena 1956; “Ma Questo…”, ed. Maia, Siena 1955; “Parole del Tempo”, ed. Maia, Siena 1956. Altre opere sono uscite postume con l’editore Lerici.
Accanito lettore di poesia e, per questo, fervido frequentatore dell’universo creativo, alimentò la sua interiorità, esacerbata dalla durezza della vita, con la bellezza e la forza dei sentimenti, con visioni oniriche e surreali; e, sublimando qualche eco o influsso, memoria o eredità di autori precedenti , traccia un percorso di scrittura assolutamente autentico e personale, che può provocare allusioni o suggestioni accennando, per esempio a Campana, ma restando del tutto indipendente da lui e autonomo nella sua rappresentazione. Calogero ha infatti uno stile suo proprio, inconfondibile per scelte lessicali e per strutture morfo-sintattiche, privilegiando le figure retoriche di suono e di ordine. Ma soprattutto ha alle sue spalle una vita intensamente vissuta, con le sue illuminazioni. Necessaria in ogni vero poeta. (Pasquale Balestriere)

*

I BACI, LE PERSIANE VERDI

I baci, le persiane verdi,
verdi alberi modesti, verdi mobili intorno
sulle piagge dell’orto.
Trepido è un disegno sui tetti.
Una corolla scivola su persone morte.
Sapevi quanto intatto, leggiadro un desiderio,
era colpo di un sogno dischiuso,
sogno chiuso leggero di una morte.

*

A MOLTEPLICI SUONI

A molteplici suoni, mutate le penne
le vene d’aria, cosí chiara
avanza, da tempo, sul tempo della gioia
una chioma d’alberi varia. La cortina
è del sonno. Un atomo è il silenzio,
atona un’ignota rimembranza e, domani,
non più nuova – sensitivo! – guarda
nello splendente fulgore
la tua stessa aria. Un ghirigoro
cupo è il tuo corpo, il tuo grido
che passa, ignota (a gruppi uguali
verrà il suono) un’ala di un’isola
e, riesumando intorno, un cielo
già plumbeo. Intera
rianimata s’addentra un’ombra amata
e stanca nella stessa sfera
e ti rimanda al giorno opaco
del suo spesso regno.
Cadono a terra mutilate clemenze
al suo piede e sul fianco (la turbolenta
onda s’addensa) la spiaggia avara
solitaria a settembre, la distesa
violacea, un punto assiduo
ombroso del fluire cui si soffermino
chiari i tuoi passi
turbinosi come la febbre
e, perché non siano di noia
grigi gli inizi, i viali altocinti.
Ora so a memoria i suoni
nel cerchio che agevolmente sgorga.
Volenterose turbe s’alternano.
L’eco non sa parlare così triste!
fermamente si sdoppia e ti sorprende.
L’eco non sa parlare, così triste!
è giunta alla sua fine
e ti opprime gelida tanto. Dentro lo scheletro
nuda è la sua gola.
Hai gustato mentalmente
la velleità delle cose, dell’erba arida
mutevolmente rapidi i frammenti.
Sai quanta infanzia
era uno screzio. Ritorna allodola.
La vena non è piú nuda, non e piú sola,
non piú s’affolla allo stesso piede.
Chiusa nube odorosa sul tardi
era uno screzio. Ritorna allodola
incostantemente nel verde intrico dei rami
e dalla pioggia
si difende.
Cosi bruca, a volte,
tristemente filtrando fili di raggi
solitari il sole cui si soffermi già una cima.
S’affina in mutate vicende, in lievi
fievoli aliti freddi.
Mutevole
ha su immense acque ed ali
distesa l’immensità dei monti,
ferma, una linea.

*

SI CONFONDE QUESTO MERAVIGLIOSO PLENILUNIO

Si confonde questo meraviglioso plenilunio.
Lo spazio concavo era
una meravigliosa uccelliera,
dove a un nido, ad un bacio ignorato
fluivano meravigliosi i fiumi,
di cui vedevamo la meraviglia da lungi
nel nostro silenzio ch’era fame.

*

SILENZI VERGINI E IL CANTO MUTATO

Silenzi vergini e il canto mutato
senz’orme e questo vano agglomerarsi
delle colline che ti colpí come un grido,
un volo di rondine; e il fiume
è così enorme come una voce
in cui è vano specchiarsi. Dentro una voragine
tacito il tagliaboschi dritto
guarda e pei campi irrompe.
E un passo aereo si fa sempre più rado
passato a caso da un capo all’altro
in questo paese,
in un viottolo su e giù per le valli di confine.
Ecco ti porto un segno
intessuto sul tuo mantello
come fra tacite spire
tesse il ragno e il suo richiamo
è un fantasma dolce a seguire.

*

E RACCONTI

E racconti, ma il viavai
va e viene. Sono corpi morti
qua a terra seduti. Si rompono
in dialetto una violetta, una lontana
statua viola perdute insieme
altrove. Ma sono rosso sangue le tempie.

*

MA QUESTO

Gli estri, le cose esatte,
le monotone cose poi, ma questo
puoi estendere alle nuvole,
quando, rarefatto il tempo, il vuoto
è un rudere di passaggio.

Lorenzo Calogero

***

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4 risposte

  1. Cosa dire di fronte a versi come questi? Innanzi tutto mi pare comprensibile che non abbia avuto fortuna…qui c’è un affollarsi di immagini disposte l’una di seguito all’altra, l’una sull’altra, l’una dentro l’altra…come si fa a capirlo? Non c’è un vero filo conduttore…Io non sono un critico, nè un esperto, dico la mia alla buona : secondo me questa persona ha l’anima di un vero poeta, crea immagini bellissime, ma sono come pietre preziose buttate alla rinfusa in un cassetto…le prendi una per una e le ammiri : sono luminose, limpide, colorate, ma non sono nè una collana nè un braccialetto, sono un mucchietto di pietre, belle quanto vuoi, di pregio prese una per una, ma nulla di diverso. Questa è l’impressione che mi viene: l’anima di un artista che non ha gli strumenti per levigare, mettere in ordine il materiale a sua disposizione per cui questo materiale, benché di pregio, non produce altro che un disperso scintillio in un miscuglio di discorsi e di riflessioni nel quale si intuisce un’anima tormentata, che avrebbe avuto tanto da dire, ma che non ha potuto trovare la strada per dirlo in una maniera che si potesse definire ” poesia”.

  2. Anche, e principalmente, in questo autore avverto il disagio di vivere. Un disagio profondo che quasi preclude ai versi di farsi poesia e rimanere una muta raccolta di disperazione, di grida inascoltate. Frasi, considerazioni, pensieri, riflessioni isolate, apparentemente anche sconclusionate, in un affastellarsi di figure e figurazioni scolpite in una tragica solitudine: una lotta senza speranza. La spezzatura stessa dei componimenti, le connessioni difficilmente individuabili tra le varie parti, tutto concorre ad una fumosità tragica e, al contempo suggestiva, dove il lettore facilmente si smarrisce. Versi che nella loro farneticante natura grondano sofferenza ad ogni passo. La definirei – senza voler sminuirne il valore – una poesia… patologica, un costante, inascoltato grido di aiuto.

  3. Visionario Calogero lo è, ma il parallelo con Campana, Pasquale, regge fino a un certo punto.
    Calogero infatti manca quasi completamente di tessuto sintattico e procede per semplice associazione.
    Inoltre scivola sovente in una verbosità ridondante e un poco effettistica, là dove Campana distillava un’eloquenza sintetica e tragica in cui le iterazioni erano estenuate amplificazioni del dolore.
    Là dove le immagini di Campana erano pervasive e, a tratti, folgoranti quelle di Calogero appaiono più che altro criptiche se non nebulose e di dubbia interpretazione.

    1. Neppure mi son sognato, caro Luciano, di paragonare Calogero a Campana. Nel poeta calabrese ci sono, sparsi qua e là, accenni o echi riferibili o accostabili alla poesia di Campana, che probabilmente, almeno per un certo periodo, è stato assunto a modello dal Nostro. Intanto mi sento di affermare che, a parte Campana, è lui il poeta italiano a cui meglio si addice l’appellativo di “maledetto” , sia per vicende biografiche sia per scrittura poetica. Questa, poi, ha una sua complessità che se, da un lato presenta talvolta una certa componente effettistica, come tu dici, e anche criptica, dall’altro ha una verbalità docilmente piegata ad esprimere il mondo interiore del poeta: tumultuoso e ribollente, esso brama un’epifania immediata e necessaria; che la lingua qui esprime, a mio modo di vedere, nel modo più fedele possibile.

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