ANGELO MARIA RIPELLINO
(1923 -1978 )
Da Palermo a Mazara del Vallo, poi a Roma, per seguire, sempre con tutta la famiglia, il padre docente di lettere. All’università La Sapienza di Roma seguì i corsi di letteratura slava, area culturale in cui diventò uno dei massimi esperti italiani, forse addirittura il migliore. Frequenti viaggi di lavoro fece in Cecoslovacchia, Polonia, Russia e conobbe i più grandi scrittori di quei paesi. Docente universitario, fu anche traduttore ( il primo a far conoscere Pasternak in Italia) e poeta. Pubblicò vari volumi di poesie , di saggi e traduzioni.
In poesia “il suo disdegno del Realismo porta Ripellino ad avvicinarsi ai formalisti russi e cechi, e in particolare a Pasternak (…) Sorprenderà, innanzitutto, tra i suoi temi costanti, il senso di morte e di rinascita: entrambe stanno a far da contrappeso, nella struttura sinfonica dei suoi libri, ad altri termini contrapposti, quelli della follia e del precario equilibrio umano, della coscienza di vivere e della storia che uccide, nel momento in cui sembra a ciascuno di essere salvo.
(…) scrittura duttile, barocca, aperta a tutte le possibili variazioni, metafore, neologismi…” (G. Spagnoletti)
*
da “Notizie dal diluvio”, Einaudi Editore, 1969
Dove ci incontreremo dopo la morte?
Dove ci incontreremo dopo la morte?
Dove andremo a passeggio?
E il nostro consueto giretto serale?
E i rammarichi per i capricci dei figli?
Dove trovarti, quando avrò desiderio di te, dei tuoi occhi smeraldi,
quando avrò bisogno delle tue parole?
Dio esige l’impossibile,
Dio ci obbliga a morire.
E che sarà di tutto questo garbuglio di affetto,
di questo furore? Sin d’ora promettimi
di cercarmi nello sterminato paesaggio di sterro e di cenere
sui legni carichi di mercanzie sepolcrali,
in quel teatro spilorcio, in quel vòrtice
e magma di larve ahimè tutte uguali,
fra quei lugubri volti. Saprai riconoscermi?
*
Qui dentro io sono il sovrano
e mi appartengono tutti i colori:
l’azzurro del cielo-gabbiano,
l’inchiostro del mare spurgato da un pòlipo,
e le gialle campànule di un cotone stampato,
e il rosso sudore dell’arida terra,
e l’àureo torrente delle foglie autunnali.
Tutto ciò mi fu dato e sottratto e ridato
nel mio zoppicante destino, nella mia eterna guerra
per sopravvivere, in questo trèmito di acetilene,
e per troppe volte gli ho detto addio,
ben sapendo che tutto sarebbe durato
anche senza di me, anche se mi appartiene,
anche se non è mio.
*
Da “Lo splendido violino verde“, Einaudi 1976
Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo.
Devi associarti a una consorteria
di violinisti guerci, di furbi larifari,
di nani del Veronese, di aiuole militari,
di impiegati al catasto, di accòliti della Schickeria.
E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,
le gighe del marciume inorpellato,
inchinarti dinanzi ai feticci della camorra,
come Abramo dinanzi al volere del cielo.
Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi,
guai a chi resta solo come un re disperato
fra neri ceffi di lupi digrignanti.
*
Verdi trecce di capelli piovosi si spandono
Su questa lunga domenica vegetaliforme,
su questo celtico intreccio di rovesci e spruzzaglie.
Si rammarica il gatto Merlino, il batuffolo
impigliato in una camicia di latte e di nebbia.
Yellow sferruzza, assopita dal tedio insulare.
Sono strisciate di allume e metallo le strade corvine:
i solchi spinosi delle auto si allacciano
in molli entrelacs, in fasce ondeggianti.
Tutti gli amici riposano, stanchi, colmando
il mio universo di comici ronfi che spaurano
la gracile luce dei verdi capelli, la maliziosa
femmina pioggia, baldracca delle domeniche.
Angelo Maria Ripellino
2 risposte
Una descrizione spiazzante di un male di vivere che si alimenta e, nel contempo, rifiuta qualsiasi tipo di omologazione verso la consuetudine di una società prigioniera di se stessa, delle proprie stanche e mortali ripetizioni. Una poesia… di ribellione e di denuncia: graffiante, scarna, a tratti onirica. Senza dubbio efficace. In cui è presente, quasi ovunque, la non accettazione della provvisorietá e della brevità della vita, intesa come una beffa della creazione, che concede e poi toglie. Una torturs dello spirito senza alcuna certezza.
E’ ” duro” questo poeta, è amaro : avverto nelle sue poesie una profonda paura e un’altrettanto profonda sfiducia in tutto: sia in quello che riguarda questa terra che, e più che mai, in quel che riguarda l’altro mondo. Nella prima poesia c’è una visione dell’aldilà che mi ricorda quella dei nostri classici : un posto senza luce nè conforto, di ombre vaganti dove non s’è spazio per nulla che non sia solitudine e rimpianto, nella seconda c’è invece tutto il colore di questo mondo : i rossi, l’oro, è tutto un altro ambiente, o meglio, lo sarebbe se si potesse vivere in pace, cosa impossibile già a partire dal fatto che sappiamo che nulla ci appartiene davvero . Domina tutto la sfiducia nei rapporti con gli altri, siano essi persone, qui, che Dio di là. Non c’è una parola positiva nei confronti della gente…quel suo ” guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi” , suona di un’ironia amara e feroce. E’ una denuncia : ” guai a chi non ha appoggi perché senza quelli , e potenti, un povero diavolo non sopravvive” . Abramo si affidava a Dio, oggi o ti affidi a qualche pezzo da novanta o vai a picco. E’ un poeta che colpisce ma che non leggerei volentieri…perché certe verità sono dure a digerirsi ed è preferibile fingere che siano ubbie sue e basta.