PAOLO VOLPONI
Guerra di piume sopra la città
(La città è, naturalmente, la sua Urbino.)
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Ogni mattina appena il sole comincia a scaldare l’aria ha inizio la battaglia tra le cornacchie e i piccioni che in grandi, distinte moltitudini abitano la città. Quando il giorno è scuro, con una o due ore di ritardo, mentre si leva la temperatura diurna, comincia la stessa battaglia. In ogni caso lo spazio nel quale le due formazioni si incontrano è sempre lo stesso: il cielo davanti ai torricini, sopra il teatro, scosceso sul ghetto e sulle mura di Valbona, largo sul Mercatale, a vortice dentro le volte di Risciolo giù fino ai fossi. Più oltre verso l’Appennino e più alto in cima al monte delle vigne e alla Fortezza Albornoz, il cielo è fermo e vuoto e aspetta chi avrà vinto e prenderà il volo dominante. Chi perde slala in basso sulle case del Carmine e del borgo, si infila sotto le gronde delle strade o addirittura scende dentro i loggiati.
Le cornacchie iniziano la lotta buttandosi di slancio e stridendo dai vari ordini di cornici del Palazzo ducale, dai balconi nobili fra le due torri, dalle finestre aperte del giardino pensile e dalle murate più alte del castellare. I piccioni si muovono ad affrontarle con un volo pieno, ben disposto in una curva affilata, giungendo dalle file domestiche dei tetti più alti del centro della città e anche dai palazzi più autorevoli della piazza, dalla mole di San Francesco e dalle tettoie della Piazzetta delle Erbe. Un branco di piccioni viene giù dal monte, dagli orti dei maceri, dritto e rapido quasi in tuffo. Altri branchetti di piccioni accorrono dai tetti del Mercatale e di Ca’ Condi, presto raggiunti da altri, ancora più fitti e agitati, in crociera dalle campagne più vicine e dalle frazioni di Mazzaferro, Tufo, San Cipriano.
I piccioni cittadini intanto stanno facendo un altro giro per calcolare con maggiore esattezza il momento e il fronte dello scontro. Quelli in avanguardia dal Mercatale si alzano d’improvviso, come presi dal vento, a meno di dieci metri dalle mura lasciando scoperti e sorpresi gli stormi della campagna. Le cornacchie aspettano questi con un fronte teso tra il teatro e i torricini, alto e staccato da qualsiasi sporgenza in modo da consentire le più vertiginose acrobazie. Si infilzano o calano sciabolando con l’ala dentro i campagnoli battendoli prima ancora di colpirli. Questi non sanno dove ritirarsi: non vedono tettoie, né pagliai. Cercano scampo verso i neri alberi del Pincio, ma prima di poterli raggiungere subiscono una seconda ondata di colpi. Alcuni stramazzano sulla strada, altri a filo delle mura tra i sambuchi e le ortiche dell’orto detto dell’Abbondanza.
Le cornacchie si voltano allora contro i piccioni cittadini, disposte in due fila a diverse quote, ma entrambe ripiegate ad angolo nell’estremità di sinistra per intercettare anche la formazione di avversari in discesa dal monte. Ne segue lo scontro più vasto e più lungo: meno accanito del primo, ma più determinato e cruento. E mentre si sta annodando o lacerando vi piomba sopra la piccola tela dei piccioni del borgo che prima si erano impennati forse più per sfuggire l’impeto iniziale che per quella loro strategia. Così crollano anche alcune cornacchie; irate proprio come se fossero sorprese da uno stupido accidente. I piccioni cittadini appaiono tutti sconvolti e spiumacciati: si arruffano per difendersi e si spennano per ingannare il nemico. Si sottraggono brontolando e rotolando per raggiungere al più presto il tetto del teatro o le gronde delle stallacce. I piccioni del monte, ancora compatti e aguzzi malgrado le perdite, tentano un altro attacco, che mira a sorprendere le cornacchie dal ventre e dalla coda; ferire strisciando e scivolare via, sopra Risciolo tra le volte e le ripe degli scoli. Luoghi che le cornacchie aborriscono ed evitano con inderogabile cura. Non calano mai sotto il livello delle mura della città.
Adesso più nessuno combatte anche se nel cielo continua l’agitazione di molti contendenti. Si stanno riformando i branchi come per dare solennità e forza alle nuove formazioni e alle direzioni di ritirata. I piccioni di campagna si ritrovano tra gli alberi del Pincio e gli orti di Ca’ Fante. Da lì vedono i pagliai della strada rossa e di Ca’ Paciotto. I piccioni del monte volano basso intorno alle vigne per defilarsi lungo il Giro dei Debitori fino al monumento di Raffaello e alla chiesa degli Scalzi. I piccioni del Mercatale stanno tutti accalcati sul tetto rosso, come difeso da una cintura di fili di antenne, del commissariato di Polizia. Quelli cittadini si riassestano le penne risalendo in due colonne parallele il loggiato e Valbona per tornare in piazza, una a Palazzo Albani e l’altra, più numerosa, a San Francesco e sulla Piazza delle Erbe. Sanno già che a quell’ora gli studenti e i professori lasciano cadere infinite briciole di panini, brioches e pizzette.
La battaglia dura ogni volta non più di tre minuti, cinque se si conta dalla partenza dei piccioni dalla piazza fino al loro farvi ritorno. Sono pochi gli urbinati che assistono alle sue vicende con una certa frequenza e non tanti nemmeno quelli che la vedono per caso. Anzi i più la evitano deliberatamente perché la sentono come un evento estraneo e fastidioso; selvaggio, non civile. Non adatto a questi tempi, eppure brutto segno degli stessi.
Gli urbinati parteggiano per i piccioni che sono cittadini da secoli: notabili dotti e istruiti, con collari di congregazione, abitudini sociali, circoli, residenze. Li vedono da sempre guardare con serietà e giudizio dagli scalini delle logge del collegio e di San Francesco il selciato della piazza, tutta la piazza, la gente, il tempo e proprio con reazioni umorali da cittadini.
Le cornacchie sono forestiere: sono entrate in città qualche anno dopo la guerra. Dapprima isolate, successivamente in piccoli branchi; a mano a mano sempre più numerose e prepotenti. Chi le conosceva sapeva che erano uccelli tipici del Sud più povero e trascurato. Oppure di valli anche alpine, ma strette e rocciose, con qualche pascolo e mandria. Molti ritengono che abbiano seguito i sardi che sono venuti con i loro greggi di pecore nei campi dei nostri poderi abbandonati. Altri dicono che tutta l’Italia si sta meridionalizzando. Altri che quegli uccelli prediligono le grandi regioni spopolate e incolte come quelle nostre collinari oggi. Altri ancora che crescono insieme con i mucchi di immondizia e di rifiuti.
Qualcuno dice che sono una specie in espansione e che crescerà fino a dominare il mondo quale potrà restare in futuro.
Sono così intelligenti, organizzate ed efficienti che nessuno può batterle e contrastarle. Nessuno che con un fucile possa arrivare mai a tiro, sia in volo che a fermo, da poterle sparare con efficacia. Sembrano davvero di ferro e di meccanica: ali di latta, petto di ghisa, becchi e artigli di acciaio. Sembrano pezzi di vecchi o di nuovi motori combinati per una sorte animale. Ormai dominano Urbino, dove hanno scelto come residenza scrupolosamente il Palazzo ducale. Dominano il cielo e le correnti di tutto il territorio urbano ed agricolo; e li traversano con grandi voli alti e sicuri sempre secondo la stessa rotta.
La mattina vanno a occupare tutti i campi lungo il Metauro o gli altipiani del Petralata e la sera tornano nella loro residenza dominante. Non vogliono nessuno intorno: né piccioni, né altri uccelli, né topi, né uomini.
Non si capisce perché i piccioni vadano sostenere quella battaglia, intanto pensano gli urbinati. Esseri più intelligenti e progrediti avrebbero, secondo gli stessi cittadini, rinunciato da un pezzo.
Paolo Volponi
(da Cantonate di Urbino, 1985)
2 risposte
In questo pezzo Volponi descrive minuziosamente la guerra dei piccioni, stanziali e antichi abitatori e padroni della città e dintorni, con le piú agguerrite e diffidenti invasive cornacchie, imprendibili e micidiali. Il tutto inserito dall’autore in una particolareggiata rappresentazione della sua Urbino, quasi fosse un corrispondente di guerra, attento e minuzioso osservatore degli esiti e dei movimenti di una battaglia. A mio modesto parere ben scritto, ma fine a se stesso. Una troppo ripetuta, compiacente, evidente autonoma dimostrazione di capacità narrativa.
Non conosco questo autore; che scriva bene ( eccome! ) è indubbio…non fosse altro che perché rende piacevole la lettura di un brano che è tutto incentrato su queste battaglie fra piccioni e compagnia bella. Ci sta che voglia rappresentare quelle battaglie fra categorie che ci sono in ogni società, ( categorie fra alati, contrasti, guerra di potere, migrazioni ecc…) però non posso dire che il racconto in sé mi abbia detto molto. Mi viene in mente la descrizione di Parigi dall’alto in Notre Dame de Paris : cinquanta o sessanta pagine, salvo il vero, per descrivere tetti, palazzi e piazze viste dal cielo…è la cosa che di quel libro ricordo di più proprio perché…non finiva mai!!! Ma a quei tempi gli scrittori li pagavano a pagine e questi si arrangiavano come potevano per amor della pagnotta. Chiaro che qui è un’altra cosa…non si tratta di pagine e pagine, ma insomma c’è un dilungarsi che non mi conquista. Salva, naturalmente, l’ammirazione per questo stile sobrio e pulito.