Narratori, Giorgio Manganelli, Quarantanove (da Centuria)

 

GIORGIO MANGANELLI

(Milano 1922- Roma 1990)

 Scrittore critico letterario, traduttore e anche giornalista, fu esponente di spicco della Neoavanguardia.  Come narratore ha scrittura chiara sotto il profilo linguistico e comunicativo, ma il senso s’ammanta di mistero. Sfiora Kafka e Poe, deve qualcosa a Gadda e alle teorie psicanalitiche.
Il brano che segue è il 49° racconto di Centuria, silloge di cento brevi testi narrativi.

 

Quarantanove

Un signore amò follemente una giovane donna per tre giorni, riamato per un periodo di tempo all’incirca corrispondente. La incontrò per caso il quarto giorno, quando da due ore aveva cessato di amarla. Inizialmente, fu un incontro lievemente imbarazzante; tuttavia, il colloquio si movimentò, quando risultò che anche la donna aveva cessato di amare il signore, esattamente un’ora e quaranta minuti prima. All’inizio, questa scoperta, che il loro folle amore era comunque cosa del passato, e che presumibilmente avrebbero cessato di torturarsi con domande sciocche, penose e inevitabili, comunicò all’uomo ed alla donna una certa euforia; e parve loro di vedersi con occhi di amici. Ma l’euforia fu effimera. Infatti, la donna si rammentò di quei venti minuti di differenza; ella lo aveva amato per venti minuti ancora, quando il signore, lo aveva confessato, aveva già cessato di amarla. La donna ne trasse argomento di amarezza, di frustrazione, di rancore. Egli cercò di mostrarle come quei venti minuti rivelassero in lei una costanza affettiva che la qualificava moralmente superiore. Ella ribatté che la sua costanza era fuori questione, ma che in questo caso qualcuno ne aveva abusato, e l’aveva coperta di oltraggio, calcolato e freddo. Quei venti minuti durante i quali, amando, ella non era stata amata, scavavano fra di loro un abisso che nulla avrebbe più colmato. Ella aveva amato un frivolo e un sensuale, in questa vita e nell’altra egli ne avrebbe sofferto l’onta. Egli cercò di far notare che, giacché più non si amavano, il problema poteva considerarsi superato, e comunque non tale da indurli a troppo amare considerazioni: ma lo disse con una certa vivacità, che tradiva insieme la paura e il fastidio. La donna rispose che la fine del loro amore era non già un conforto, ma solo l’indizio che qualcosa di pravo era stato fatuamente consumato, e che ella ne portava le cicatrici. Egli ebbe una breve risata, non cordiale. In quell’istante, cominciò tra i due un grande odio, un odio meticoloso e travolgente; in qualche modo entrambi sentivano che quella differenza di venti minuti era veramente qualcosa di atroce, e che qualcosa era accaduto che aveva reso impossibile la vita ad almeno uno dei due. Ora cominciano a pensare di esser destinati ad una morte drammatica, insieme, come avevano fantasticato, febbrilmente, durante il loro folle amore.

Giorgio Manganelli

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2 risposte

  1. “Quei venti minuti durante i quali, amando, ella non era stata amata, scavavano fra di loro un abisso che nulla avrebbe più colmato. Ella aveva amato un frivolo e un sensuale …”.
    In questo frammento la chiave di volta di “Quarantanove “.
    Manganelli in questo geniale e godibilissimo raccontino, riduce lo sterminato bagaglio narrativo della dimensione amorosa a puro pretesto per decretarne la fine e innescare la tragedia: basta una sfasatura di venti minuti per vanificare un “folle amore” e per avvelenarne la memoria trasformandolo in odio “meticoloso e travolgente”.
    In questo breve apologo ci sono insieme cinismo e paradosso, comicità e monito. Il giudizio che ne scaturisce è comunque impietoso.
    Tutto sembra assurdo, senza senso. L’amore appare solo come premessa all’odio.
    L’umanità non ne esce bene, questo è certo.

  2. “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
    ingenerò la sorte.”
    Così canta il poeta.
    E Sigmund Freud, nel libro “Al di là del principio di piacere”, ne approfondisce ed analizza il rapporto, evidenziando come possa concludersi con il piacere ultimo: quello di estinguersi insieme.
    Eros e Thanatos sono stati sempre legati da tempo immemorabile.
    Dal primo nasce la vita, il secondo la conclude, sicché trova giustificazione l’antico topos del celebrato binomio. Il legame profondo tra due esseri che si uniscono con un atto d’amore che conduce alla vita si riflette, quasi inspiegabilmente, in una malinconica dolcezza di scomparire (per restare eternamente…) insieme, in quell’ultimo e definitivo atto di sublime piacere.
    Questo, in estrema sintesi, il concetto leopardiano espresso nell’ode “Amore e morte” che, tuttavia, trova il suo inverso significato nello scritto qui proposto, quando a Thanatos si voglia e si possa sostituire, più o meno lecitamente, “misos” – odio, avversione, antipatia, proprio a sottolineare, anche in questo scritto, come l’amore e l’odio stiano spesso vicini e camminino su contigui confini, incontrandosi e scontrandosi sovente.
    L’amore è un fragile sentimento, potente nella sua immediatezza, difficilmente conservabile nella sua forza originaria, volatile e volubile; va nutrito giorno per giorno, minuto per minuto, perché può far presto a mutar faccia e volgersi in insofferente disprezzo.
    Il tempo dell’amore, della consonanza amorosa, non è mai scandito con coerente certezza, ma affidato a variabili psicologiche e affettive che possono risentire di variazioni e turbamenti sotterranei, poco manifesti, ma che possono distruggerlo, come in questo racconto, dove la svolta avviene – come ha ben sottolineato Luciano – in quel breve tempo dove viene a mancare la corrispondenza reciproca.
    Ed in effetti – come ultima osservazione – l’odio è lo stravolgimento, la degenerazione e la morte del sentimento amoroso, in chi lo prova ed in chi lo subisce.
    Odiare, infatti, è un po’ morire in anticipo.
    Ecco perché bisogna che l’umanità impari a… disimparare ad odiare, in tutti i sensi.

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