ALBERTO MORAVIA
Romolo e Remo
L’urgenza della fame non si può paragonare a quella degli altri bisogni. Provatevi a dire ad alta voce: “Mi serve un paio di scarpe…mi serve un pettine…mi serve un fazzoletto”, tacete un momento per rifiatare, e poi dite: “Mi serve un pranzo”, e sentirete subito la differenza.
Per qualsiasi cosa potete pensarci su, cercare, scegliere, magari rinunciarci, ma il momento che confessate a voi stesso che vi serve un pranzo, non avete più tempo da perdere.
Dovete trovare il pranzo, se no morite di fame.
Il cinque ottobre di quest’anno, a mezzogiorno, a piazza Colonna, sedetti sulla ringhiera della fontana e dissi a me stesso: “Mi serve un pranzo”.
Da terra dove, durante questa riflessione, volgevo gli occhi, levai gli sguardi al traffico del Corso e lo vidi tutto annebbiato e tremolante: non mangiavo da più di un giorno e, si sa, la prima cosa che succede quando si ha fame è di vedere le cose affamate, cioè vacillanti e deboli come se fossero esse stesse, appunto, ad aver fame. Poi pensai che dovevo trovare questo pranzo, e pensai che se aspettavo ancora non avrei più avuto la forza neppure di pensarci, e cominciai a riflettere sulla maniera di trovarlo al più presto.
Purtroppo, quando si ha fretta non si pensa nulla di buono. Le idee che mi venivano in mente non erano idee ma sogni: “Salgo in un tram… borseggio un tale…scappo”; oppure: “Entro in un negozio, vado alla cassa, afferro il morto …scappo”. Mi venne quasi il panico e pensai: “Perduto per perduto, tanto vale che mi faccia arrestare per oltraggio alla forza pubblica…in questura una minestra me la danno sempre”. In quel momento un ragazzo, accanto a me, ne chiamò un altro: “Romolo”. Allora, a quel grido, mi ricordai di un altro Romolo che era stato con me sotto le armi.
Avevo avuto, allora, la debolezza di raccontargli qualche bugia: che al paese ero benestante mentre non sono nato in alcun paese bensì presso Roma, a Prima Porta. Ma, adesso, quella debolezza mi faceva comodo.
Romolo aveva aperto una trattoria dalle parti del Pantheon. Ci sarei andato e avrei mangiato il pranzo di cui avevo bisogno. Poi, al momento del conto, avrei tirato fuori l’amicizia, il servizio militare fatto insieme, i ricordi… Insomma, Romolo non mi avrebbe fatto arrestare.
Per prima cosa andai alla vetrina di un negozio e mi guardai in uno specchio. Per combinazione, mi ero fatto la barba quella mattina con il rasoio e il sapone del padrone di casa, un usciere di tribunale che mi affittava un sottoscala. La camicia, senza essere proprio pulita, non era indecente: soltanto quattro giorni che la portavo. Il vestito, poi, grigio spinato, era come nuovo: me l’aveva dato una buona signora il cui marito era stato mio capitano in guerra. La cravatta, invece, era sfilacciata, una cravatta rossa che avrà avuto dieci anni.
Rialzai il colletto e rifeci il nodo in modo che la cravatta, adesso, aveva una parte lunghissima e una parte corta. Nascosi la parte corta sotto quella lunga e abbottonai la giacca fino al petto. Come mi mossi dallo specchio, forse per lo sforzo di attenzione con cui mi ero guardato, la testa mi girò e andai a sbattere contro una guardia ferma sull’angolo del marciapiede. “Guarda dove vai”, disse, “che sei ubriaco?”. Avrei voluto rispondergli : “Sì, ubriaco di appetito”. Con passo vacillante mi diressi verso il Pantheon.
Sapevo l’indirizzo, ma quando lo trovai non ci credevo. Era una porticina in fondo a un vicolo cieco, a due passi da quattro o cinque pattumiere colme. L’insegna color sangue di bue portava scritto: “Trattoria, cucina casalinga”; la vetrina anch’essa dipinta di rosso conteneva in tutto e per tutto una mela. Dico una mela e non scherzo. Cominciai a capire, ma ormai ero lanciato ed entrai.
Una volta dentro, capii tutto e la fame per un momento mi si raddoppiò di smarrimento. Però mi feci coraggio e andai a sedermi a uno qualsiasi dei quattro o cinque tavoli, nella stanzuccia deserta e in penombra.
Una staffetta sporca, dietro il banco, nascondeva la porta che dava sulla cucina. Picchiai con il pugno sul tavolo: “Cameriere!”
Subito ci fu un movimento in cucina, la staffetta si alzò, apparve e scomparve una faccia in cui riconobbi l’amico Romolo. Aspettai un momento, picchiai di nuovo. Questa volta lui si precipitò di fuori abbottonandosi in fretta una giacca bianca tutta sfrittellata e sformata.
Mi venne incontro con un “comandi” premuroso, pieno di speranza, che mi strinse il cuore.
Ma ormai ero nel ballo e bisognava ballare.
Dissi: “Vorrei mangiare.” Lui incominciò a spolverare il tavolo con uno straccio, poi si fermò e disse guardandomi: “Ma tu sei Remo…”
“Ah, mi riconosci”, feci, con un sorriso.
“E come se ti riconosco… non eravamo insieme sotto le armi? Non ci chiamavano Romolo e Remo e la Lupa per via di quella ragazza che corteggiavamo insieme?”
Insomma: i ricordi. Si vedeva che lui tirava fuori i ricordi non perché mi fosse affezionato ma perché ero un cliente. Anzi, visto che nella trattoria non c’era nessuno, ero il cliente. Di clienti doveva averne pochi e anche I ricordi potevano servire a farmi buona accoglienza.
Mi diede alla fine una manata sulla spalla: “Vecchio Remo”, poi si voltò verso la cucina e chiamò: “Loreta.”
La stoffa si alzò e apparve una donnetta corpulenta, in grembiale, con la faccia scontenta e diffidente. Lui disse, indicandomi: “Questo è Remo di cui ti ho tanto parlato.”
Lei mi fece un mezzo sorriso e un gesto di saluto; dietro di lei si affacciavano i figli, un maschietto e una bambina. Romolo continuò: “Bravo, bravo… proprio bravo.”
Ripeteva: “Bravo” come un pappagallo: era chiaro che aspettava che ordinassi il pranzo.
Dissi: “Romolo, sono di passaggio a Roma…faccio il viaggiatore di commercio… siccome devo mangiare in qualche luogo, ho pensato: “Perché non andrei a mangiare dall’amico Romolo?” “
“Bravo” disse lui, “allora che facciamo di buono: spaghetti?”
‘Si capisce.”
“Spaghetti al burro e parmigiano…ci vuole meno a farli e sono più leggeri… e poi che facciamo? Una buona bistecca? Due fettine di vitella? Una bella lombatina? Una scaloppina al burro?”
Erano tutte cose semplici, avrei potuto cucinarle da me, su un fornello a spirito. Dissi, per crudeltà “Abbacchio…ne hai abbacchio?”
“Quanto mi rincresce… lo facciamo per la sera.”
“E va bene…allora un filetto con l’uovo sopra…alla Bismarck.”
“Alla Bismarck, sicuro…con patate?”
“Con insalata.”
“Sì, con insalata…e un litro, asciutto, no?”
“Asciutto.”
Ripetendo: “Asciutto”, se ne andò in cucina e mi lasciò solo al tavolino. La testa continuava a girarmi dalla debolezza, sentivo che facevo una gran cattiva azione; però, quasi quasi, mi faceva piacere di compierla.
La fame rende crudeli: Romolo era forse più affamato di me e io, in fondo, ci avevo gusto.
Intanto, in cucina, tutta la famiglia confabulava: udivo lui che parlava a bassa voce, pressante, ansioso; la moglie che rispondeva, malcontenta. Finalmente, la stoffa si rialzò e i due figli scapparono fuori, dirigendosi in fretta verso l’uscita. Capii che Romolo, forse, non aveva in trattoria neppure il pane. Nel momento che la stoffa si rialzò, intravidi la moglie che, ritta davanti il fornello, rianimava con la ventola il fuoco quasi spento. Lui, poi, uscì dalla cucina e venne a sedersi davanti a me, al tavolino.
Veniva a tenermi compagnia per guadagnar tempo e permettere ai figli di tornare con la spesa.
Sempre per crudeltà, domandai : “Ti sei fatto un localetto proprio carino…beh, come va?”
Lui rispose, abbassando il capo: “Bene, va bene…si capisce c’è la crisi…oggi, poi, è lunedì…ma di solito, qui non si circola.”
“Ti sei messo a posto, eh.”
Mi guardò prima di rispondere. Aveva la faccia grassa, tonda, proprio da oste, ma pallida, disperata e con la barba lunga.
Disse: “Anche tu ti sei messo a posto.”
Risposi, negligente: “Non posso lamentarmi…le mie cento, centocinquantamila lire al mese le faccio sempre… lavoro duro, però.”
“Mai come il nostro.”
“Eh, che sarà… voialtri osti state sul velluto: la gente può fare a meno di tutto ma mangiare deve… scommetto che ci hai anche i soldi da parte.”
Questa volta tacque, limitandosi a sorridere: un sorriso proprio straziante che mi fece pietà.
Disse finalmente, come rammentandosi: “Vecchio Remo…ti ricordi di quando eravamo insieme a Gaeta?” Insomma voleva i ricordi perché si vergognava di mentire e anche perché, forse, quello era stato il momento migliore della sua vita. Questa volta mi fece troppa compassione e lo accontentai dicendogli che ricordavo. Subito si rianimò e prese a
parlare, dandomi ogni tanto delle manate sulle spalle, perfino ridendo.
Rientrò il maschietto reggendo con le due mani, in punta di piedi, come se fosse stato il Santissimo, un litro colmo. Romolo mi verso da bere e versò anche a se stesso, appena l’ebbi invitato.
Col vino diventò ancor più loquace, si vede che anche lui era digiuno. Così chiacchierando e bevendo, passarono un venti minuti, e poi, come in sogno, vidi rientrare anche la bambina.
Poverina: reggeva con le braccine, contro il petto, un fagotto in cui c’era un po’ di tutto: il pacchetto giallo della bistecca, l’involtino di carta di giornale dell’uovo, lo sfilatino avvolto in velina marrone, il burro e il formaggio chiusi in carta oleata, il mazzo verde dell’insalata e, così mi parve, anche la bottiglietta dell’olio. Andò dritta alla cucina, seria, contenta; e Romolo, mentre passava, si spostò sulla seggiola in modo da nasconderla. Quindi si versò da bere e ricominciò coi ricordi. Intanto, in cucina, sentivo che la madre diceva non so che alla figlia, e la figlia si scusava, rispondendo piano:
“Non ha voluto darmene di meno.” Insomma: miseria, completa, assoluta, quasi quasi peggio della mia.
Ma avevo fame e, quando la bambina mi portò il piatto degli spaghetti, mi ci buttai sopra senza rimorso; anzi, la sensazione di sbafare alle spalle di gente povera quanto me, mi diede maggiore appetito. Romolo mi guardava mangiare quasi con invidia, e non potei fare a meno di pensare che anche lui, quegli spaghetti, doveva permetterseli di rado. “Vuoi provarli?” proposi.
Scosse la testa come per rifiutare, ma io ne presi una forchettata e gliela cacciai in bocca.
Disse: “Sono buoni, non c’è che dire,” come parlando a se stesso.
Dopo gli spaghetti, la bambina mi portò il filetto con l’uovo sopra e l’insalata, e Romolo, forse vergognandosi di stare a contarmi i bocconi, tornò in cucina. Mangiai solo, e, mangiando, mi accorsi che ero quasi ubriaco dal mangiare. Eh, quanto è bello mangiare quando si ha fame.
Mi cacciavo in bocca un pezzo di pane, ci versavo sopra un sorso di vino, masticavo, inghiottivo. Erano anni che non mangiavo tanto di gusto.
La bambina mi portò la frutta e io volli anche un pezzo di parmigiano da mangiare con la pera. Finito che ebbi di mangiare, mi sdraiai sulla seggiola, uno stecchino in bocca e tutta la famiglia uscì dalla cucina e venne a mettersi in piedi davanti a me, guardandomi come un oggetto prezioso.
Romolo, forse per via che aveva bevuto, adesso era allegro e raccontava non so che avventura di donne di quando eravamo sotto le armi. Invece la moglie, il viso unto e sporco di una ditata di polvere di carbone, era proprio triste. Guardai i bambini: erano pallidi, denutriti, gli occhi più grandi della testa. Mi venne ad un tratto compassione e insieme rimorso.
Tanto più che la moglie disse: “Eh, di clienti come lei, ce ne vorrebbero almeno quattro o cinque a pasto…allora sì che potremmo respirare.”
“Perché?” domandai facendo l’ingenuo “non viene gente?”
“Qualcuno viene,” disse lei, “soprattutto la sera…ma povera gente: portano il cartoccio, ordinano il vino, poca roba, un quarto, una foglietta… la mattina, poi, manco accendo il fuoco, tanto non viene nessuno.”
Non so perché queste parole diedero sui nervi a Romolo.
Disse: “Aho, piantala con questo piagnisteo…mi porti iettatura.”
La moglie rispose subito: “La iettatura la porti tu a noi…sei tu lo iettatore…tra me che sgobbo e mi affanno e tu che non fai niente e passi il tempo a ricordarti di quando eri soldato, lo iettatore chi è?”
Tutto questo se lo dicevano mentre io, mezzo intontito dal benessere, pensavo alla migliore maniera per cavarmela nella faccenda del conto. Poi, provvidenziale, ci fu uno scatto da parte di Romolo: alzò la mano e diede uno schiaffo alla moglie.
Lei non esitò: corse alla cucina, ne riuscì con un coltello lungo e affilato, di quelli che servono ad affettare il prosciutto.
Gridava: “Ti ammazzo,” e gli corse incontro, il coltello alzato. Lui, atterrito, scappò per la trattoria, rovesciando i tavoli e le seggiole. La bambina intanto era scoppiata in pianto; il maschietto era andato anche lui in cucina e adesso brandiva un mattarello, non so se per difendere la madre o il padre. Capii che il momento era questo o mai più.
Mi alzai, dicendo: “Calma, che diamine…calma, calma”; e ripetendo: “Calma, calma,” mi ritrovai fuori della trattoria, nel vicolo. Affrettai il passo, scantonai; a piazza del Pantheon ripresi il passo normale e mi avviai verso il Corso.
Alberto Moravia
(da Racconti romani, 1954)
2 risposte
Un bel racconto, nello stile asciutto, direi quasi sobrio, disincantato di Moravia: la descrizione di due vite, di due disgraziati che si riflettono l’uno nell’altro, celando le loro miserie sotto una coperta… di normalità. Romolo e Remo: i nomi scelti rimandano ai due celebri fratelli, ma qui Romolo, l’oste sgangherato e disgraziato ancor più dell’autore, è quello che subisce l’inganno. Un inganno guidato non dalla crudeltà, ma dalla miseria che perseguita e schiaccia i due amici, facendone quasi due caricature, due maschere tragiche della vita. Il racconto termina lasciandoci l’amaro in bocca: la fuga, per non pagare il conto, di Remo che assopite le punte della fame, esce ingloriosamente dalla scena, snza rimorso né scrupolo morale, poiché la fame, quella vera, non permette nessun pentimento. La descrizione, attraverso la tipizzazione dei due personaggi e della povera famiglia dell’oste, serve a Moravia per presentarci una Roma nascosta, ma amata (la Lupa…?), presente e attiva, con tutta la sua miseria e il suo dolore di vivere. Dove uno si sente povero, finché non incontra un povero più povero di lui…
Dovrei dire che sono due poveri diavoli, tutt’e due ugualmente disgraziati e magari giustificare Remo col discorso che la fame rende cattivi? Non ci penso nemmeno! Remo è cattivo e basta…e se uno è cattivo dentro lo è anche quando non si vede perché non se ne è presentata l’occasione. Se l’è detto anche da sé , ma che l’abbia riconosciuto non significa un bel niente…chiacchiere ! E le chiacchiere non fanno farina…tant’è che ha continuato a fare il comodo suo e a provarci anche piacere. E’ questo il punto. Quello che fa la differenza fra un disperato e una carogna. La fame è vero che rende egoisti, hai voglia te ! …se vedessi la mia figliola affamata ruberei senza rimorsi e potrei passare ogni limite, anche lavare il pane di bocca a un altro affamato, ma lo farei col cuore a pezzi , mentre lui, Remo, prova piacere a punzecchiare quello sventurato che si appresta a truffare . E’ questo che non è ammissibile, perché se la fame può spingere a rubare e se rubare in certe circostanze diventa non certo un comandamento divino, ma sicuramente un ” comandamento umano”, nel momento in cui infierisci e provi quasi piacere a mettere un altro in difficoltà, questo, bello mio, non è più colpa della fame…! è che viene a galla la cattiveria che hai dentro e che quando non avevi bisogno sonnecchiava…ma evidentemente…con un occhio solo ! La sostanza è che questa caricatura di esame di coscienza non impedisce a Remo di fare il comodo suo, di sfruttare la situazione più del necessario perché oltretutto chiede cose raffinate e anche qualche “ di più” , e tutta la pietà che vorrebbe darci ad intendere di provare ( a sprazzi) per il suo ex compagno, per la bambina smunta, per quella povera diavola di donna, per tutta questa famiglia sventurata, non ha radici. Moravia scrive straordinariamente bene, …due nomi che ci riportano ai fratelli alle origini di Roma e all’uccisione di un fratello da parte dell’altro-la solita storia dell’ammazzarci fra esseri umani insomma !…ha creato un quadro realistico e personaggi vivi, in uno stile scarno e scorrevole . Ma questo non mi interessa…non so scrivere di critica io! E poi chiunque legge lo vede da sé…a me interessa che a Remo quello che ha mangiato gli vada di traverso; anzi sarebbe bene che appena uscito lo mettesse sotto il tram perché è uno che non si merita nulla. Punto.