MARIA LUISA SPAZIANI
Nasce a Torino il 7 dicembre 1922. Docente, poetessa, narratrice, saggista e traduttrice entra in contatto con i più grandi scrittori del suo periodo, da Saba a Sinisgalli, da Penna a Montale, da Pound a Borges, per non dire d’altri. Muore a Roma, il 30 giugno 2014.
Tra i suoi scritti si ricordano: di poesia, Primavera a Parigi 1954; Le acque del sabato,1954; Utilità della memoria, 1966; Poesie, 1979; Geometria del disordine 1981; Giovanna D’Arco, 1990; I fasti dell’ortica, 1996; La luna è già alta, Milano, 2006; di narrativa: La freccia, (racconti), 2000; Montale e la Volpe, scritti autobiografici, 2011; di saggistica: Il teatro francese del Settecento, 1974; Il teatro francese dell’Ottocento, 1975; Il teatro francese del Novecento, 1976.
“Per Maria Luisa Spaziani ( … ) la natura è, come nella poesia di Montale, sempre tenuta come sfondo per “occasioni”, che si devono considerare nell’orbita del possibile, non solo dell’avvenuto. Su questo punto la Spaziani, fin dalle prime prove di derivazione montaliana alle altre in cui è riuscita ad affrancarsi da quest’influsso, ha un sicuro intuito delle virtualità nascoste nella poesia, che per lei non è soltanto lettura del mondo, ma anche canto, armonia del dicibile.” (G. Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, 1994, p.667)
*
A sipario abbassato
Quando ti amavo sognavo i tuoi sogni.
ti guardavo le palpebre dormire,
le ciglia in lieve tremito.Talvolta
è a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e luminarie
la meraviglia.
*
Luna d’inverno
Luna d’inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri lenta
sui miei sonni veloci di ladro
sempre inseguito e sempre per partire.
Come un velo di lacrime t’appanna
e presto l’ora suonerà…
Lontano
oltre le nostre sponde, oltre le magre
stagioni che con moto di marea
mortalmente stancandoci ci esaltano
e ci umiliano, poi splenderai lieta
tu, insegna d’oro all’ultima locanda
lampada sopra il desco incorruttibile
al cui chiarore ad uno ad uno
i visi in cerchio rivedrò che un turbine
vuoto e crudele mi cancella
*
Lettera 1951
Natale altro non è che quest’immenso
silenzio che dilaga per le strade,
dove platani ciechi
ridono con la neve,
altro non è che fondere a distanza
le nostre solitudini,
sopra i molli sargassi
stendere nella notte un ponte d’oro.
Sono qui, col tuo dono che m’illumina
di dieci stelle-lune,
trasognata guidandomi per mano
dove vibra un riverbero
di fuochi e di lanterne (verde e viola),
di girandole e insegne di caffè.
Van Gogh, Parigi azzurra…
Un pino a destra
per appendervi quattro nostalgie
e la mia fede in te, bianca cometa
in cima.
*
L’eloquenza
Con timoroso stupore accedo alla tua nudità
(guizza il pesce di marzo della luce),
inguini, anfratti, e già un corallo pallido
di vene traccia mappe d’eldorado,
Dormi, e il silenzio è cembalo stregato
che ci percorre il sangue ricongiunto.
Scivola sul pendio di neve azzurra
la mano-luna in brividi e tepori.
Amarti… Ma il linguaggio è una gabbietta
di cornacchie assai rauche. La più saggia
eloquenza sarà tacerti accanto,
mio germoglio che dormi nella neve.
*
Voce
Natale è un flauto d’alba, un fervore di radici
che in nome tuo sprigionano acuti ultrasuono.
Anche le stelle ascoltano, gli azzurrognoli soli
in eterno ubriachi di pura solitudine.
Perché questo Tu sei, piccolo Dio che nasci
e muori e poi rinasci sul cielo delle foglie:
una voce che smuove e turba anche il cristallo,
il mare, il sasso, il nulla inconsapevole.
*
La corolla del papavero
Mi culla la corolla del papavero,
il mio sonno è lunghissimo. La strada
si agita laggiù da quattro ore.
Solo un tuo squillo potrebbe svegliarmi.
Non mi somiglia quest’inerzia, sono
da quando amo, tutt’altra persona.
Mi culli a lungo, mi culli il papavero,
se sarà lungo il mio sogno di te.
Maria Luisa Spaziani
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3 risposte
Un poetare denso di metafore, sottintesi, allusioni. Vi ho sentito tanta solitudine, il bisogno di essere amata, la consapevolezza di una precarietà del vivere che la stessa poesia non riesce a mitigare. Il voler essere felici e non poterlo. Una confessione, costante, a se stessa e agli altri. Un ritrovarsi, forse e soltanto, nell’illusione dei sogni e del silenzio.
.Mi piace questo linguaggio per immagini così particolari; soprattutto mi piace ” L’eloquenza”…eloquenza del non dire…a volte le parole possono solo spezzare un incanto. Una scena d’amore dopo l’amore, la contemplazione del corpo dell’amato con ” timoroso stupore”…non so perché ” timoroso stupore”, forse il timore che questo dono possa non durare, forse perché a volte ci sembra impossibile che quella persona abbia scelto proprio noi, forse perché quando si ama ci sembra che il corpo dell’amato sia un miracolo di perfezione…non lo so..so solo che la trovo un’espressione suggestiva. Il pallido corallo di vene che traccia la via per l’Eldorato è un’immagine fantasiosa e delicata, così come la mano che scivola sul pendio e si fa luna. Dice, mostra, fa capire ma non scivola mai nel crudo, mai nel volgare. Tutto rimane sospeso nell’incanto dell’attimo amoroso, tutto è purificato dal sentimento. Splendido l’ultimo verso con quell’espressione ” mio germoglio”: rivendicazione di possesso, ma delicata in cui sento una tenerezza materna.
“……
Dormi, e il silenzio è cembalo stregato
che ci percorre il sangue ricongiunto.
…”
Io considero spesso magniloquente e sostanzialmente prolissa la poesia della Spaziani.
In questa rigogliosa ridondanza riconosco però qualche buon momento, come questi due endecasillabi, ossimorica ode al silenzio.
In realtà tutta la lirica
“L’eloquenza”, a partire dal titolo, è antifrastica.
Una “celebrazione del silenzio” senza
dubbio ragguardevole.