RIPRENDIAMO IL CAMMINO
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RENATO FUCINI
Monterotondo, Massa Marittima, 1843 – Empoli 1921. Poeta e narratore, fu formidabile bozzettista e novelliere. Occhio acuto e prensile, attento anche ai dettagli, e grande vivacità espressiva, anche per l’adozione della lingua parlata, immediata e quasi fotografica, per di più ravvivata da coloriti elementi dialettali. Fucini descrive soprattutto la Toscana familiare, amicale e campagnola. Tra le opere in prosa più note “Le veglie di Neri” (1884), “All’aria aperta” (1897); e per la poesia “Cento sonetti in vernacolo pisano di Neri Tanfucio”, pseudonimo di Fucini, (1872).
Vanno in Maremma
Questa me la raccontò nel canto del fòco l’amico Raffaello, quella sera che m’invitò a cena a mangiare le pappardelle sulla lepre.
Il sei di dicembre dell’anno passato, te ne ricorderai e se non te ne ricordi non importa, fece un tempo da diavoli. A guardare la montagna poi, era uno spavento; e anche di quaggiù si sentiva la romba della bufera che mugolava fra i castagni, mandando fino a noi qualche foglia secca insieme col sinibbio che strepitava sui vetri delle finestre come la grandine. Io son fatto peggio delle gru: più cattivo é il tempo, e più sento il bisogno d’essere in giro. E volli uscire con lo schioppo in cerca di qualche animale.
A un mezzo miglio da casa, sulla via maestra, incontrai Maso del Gallo tutto imbacuccato, e lo fermai per sentire se sapeva punti beccaccini.
«Dio signore! sor Raffaello», mi disse soffiandosi nelle mani, «non mi faccia fermare; mi par d’esser diventato un pezzo di marmo.»
«Insegnami un beccaccino.»
«Ce n’ho uno nella madia che l’ammazzai l’altra sera all’aspetto. Se vòl quello, lo vada a pigliare, ma altri non ne so davvero.»
«O come mai?»
«O dove li vòl trovare, benedetto lei, se é tutto una spera di ghiaccio? Torni, torni indietro, ché piglierà un malanno. Ma non lo sente che lavoro è questo?»
Infatti si durava fatica a star ritti, tanta era la forza del vento gelato che, avendogli voltato contro le spalle, ci tormentava sbacchiandoci nel collo un nevischio duro e tagliente come vetro.
Distratto da una truppa di cinque persone che ci passarono accanto, domandai a Maso: «O que’ disgraziati?».
«Son montanini; non li vede? Vanno in Maremma… Arrivederlo signoria, in bocca al lupo; ma torni indietro, dia retta a un ignorante… brééé!…»
E si allontanò lesto lesto, battendo forte i piedi per riscaldarsi.
Io rimasi un momento a guardare impensierito quei poveri diavoli. Quella era di certo una di quelle famiglie che nell’inverno emigrano dalla montagna, snidate dal rigore della stagione e dalla fame: il babbo, la mamma, due ragazzetti sotto i dodici anni e una bambina che, come seppi dopo, ne aveva otto appena compiti.
Il babbo, un ometto sulla cinquantina, basso, già curvo, con le gambe a roncolo, stava avanti alla piccola brigata, strascicandosi dietro faticosamente i suoi gravi zoccoli con le suola di legno alta tre dita; aveva in capo un berrettaccio intignato di pelle di volpe, calzoni formati di cento toppe di altrettanti colori sudici e sbiaditi, e giacchetta di mezza lana quasi nuova, di sotto alla quale scaturiva la lama d’una roncola e il manico d’una mannaretta raccomandate alla cintola, e teneva per il ferro una scure, servendosene come di mazza. Col bastone si teneva sulla spalla sinistra un sacchetto di castagne.
Dietro a lui subito venivano i due bambini vestiti press’a poco come il babbo; con più una straccio di pezzola passata sopra al berretto e legata sotto la gola per difendersi il collo dalla neve.
Il primo, con un ombrellone a tracolla tenuto da uno spago, se la rideva divertendosi a fare i passi lunghi dietro a quelli del babbo, mentre tirava a stratte misurate il fratello minore che gli andava dietro frignando e zoppicando, forse pei geloni ammaccati dentro un paio di scarponi da uomo sfondati e senza legàcciolo.
Questo piccolo disgraziato, a forza di rasciugarsi il moccio e le lacrime con la manica della giacchetta, se l’era ridotta, fino al gomito, un cartoccio di ghiaccio.
Dieci passi addietro veniva la mamma, pallida, smunta, impettita, con gli occhi a terra, camminando a ondate gravi come tutti gli abitanti delle montagne, la quale, avendo infilato il braccio sinistro nel manico d’un paniere, teneva la mano sotto al grembiule, e con l’altra quasi strascicava la bambina che, inciampando in tutti i sassi, le andava dietro come un orsacchiotto, rinfagottata in un lacero giacchettone da uomo che le toccava terra. Aveva i suoi duri zoccoletti di legno, e le mani rinvoltate dentro a degli stracci fermati al polso con fili di ginestra.
La strada doveva a loro sembrare in quel momento poco faticosa, perché il vento se li portava quasi in collo e li balestrava ora di qua, ora di là dalla via, facendo schioccare come fruste que’ po’ di cenci che avevano addosso.
«Vanno in Maremma!», aveva detto Maso. «Quando ci arriveranno? Come ci arriveranno?»: questo chiedevo a me stesso, e non sapevo levar gli occhi da dosso a quel compassionevole gruppo che fra pochi minuti non avrei più potuto scorgere attraverso alla nebbia del nevischio.
Volli andargli dietro, volli discorrere col vecchio capofila, e affrettando il passo, in pochi salti gli fui accanto.
«Stagionaccia, galantuomo», dissi per attaccar discorso.
«Bella non é davvero, signor mio.»
«Andate molto lontano?»
«Per le Maremme.»
«In che luogo?»
«Talamone.»
Egli, vedendomi fare un movimento che voleva dire un «perdio!» di quelli che chi li tiene in corpo é bravo, mi guardò, sorrise, e continuò:
«Non c’é mica poi tanto, sapete. Di qui passerà poco le cento miglia. Si va su su, adagio adagio, coll’aiuto di Dio, e quest’altra settimana, alla più lunga sabato, s’arriva. La strada, non dubitate, la conosco bene; sono trentacinque anni che la faccio; la sorte m’ha sempre assistito, e per grazia del cielo eccomi qui. L’anno passato ci menai questo solo», disse, accennandomi con una spallata il bambino che misurava il passo, il quale nel sentirsi rammentare perse il tempo per guardarmi, e dando un inciampicone negli zoccoli di suo padre, andò a battere il naso nel sacchetto delle castagne che il vecchio teneva a spalla.
«Ci menai questo solo l’altr’anno. Fino a Grosseto, come Dio volle, ce la fece; lì però gli si sbucciò un piede e mi toccò a portarmelo a cavalluccio… Son poche miglia di lì a Talamone. Ma quest’anno, caro signore, m’é toccato menarli tutti.»
«È la tua famiglia questa?»
«Questi due sono miei, sissignore; e quella bimbetta lì che, se la guardate, ha ott’anni finiti e non gli se ne darebbe sei da’ gran patimenti di su’ madre che non gli ha mai voluto bene, è d’un mi’ fratello che anno di là morì alla macchia d’una perniciosa. Mi si raccomandò tanto che ci pensassi io, che quando la su’ mamma quest’agosto riprese marito, non gliela volli lasciare; come che avendo anche l’approvazione del curato, non gliela rendo più. E quella é Zita, la mi’ moglie.»
«Buon giorno, sposa», risposi ad un saluto malinconico che mi fece con gli occhi, movendo appena la testa.
«E perché, dovendo condurre questi poveri piccini, non sei andato col vapore o almeno con un po’ di barroccio?»
«Ci sarei andato volentieri anch’io, caro signore, con un bel barroccio che ci si va anche con poco», disse guardandomi sgomento, «ma come si fa? Se le cose anderanno bene, state allegri ragazzi», disse volgendosi ai piccini, «si vedrà di farne un po’ in barroccio al ritorno.»
«Più volentieri», continuò volgendosi di nuovo a me, «più volentieri li avrei fatti restare tutti a casa; ma non avevo da lasciargli nulla, signore mio, nulla! nemmanco un po’ di farina per isvernare.»
«Sta bene; ma per la via come la rimedi?»
«Si fa alla meglio, a dirlo a voi; si va alla carità di questi contadini, e, per dirla giusta, pochi fin qui me l’hanno ricusata la capanna per dormire e un tozzarello di pane. Lì ci abbiamo de’ necci,» e mi accennò il paniere della moglie, «e qui dentro ci ho delle castagne, che se non ci segue disgrazie di doverci fermare, ci basta quasi per arrivare al posto.»
Detti un’occhiata al paniere, al sacchetto e a quelle cinque facce sofferenti, e mi sentii correre instintivamente la mano al portafogli. Presi quel poco che mi parve, perché, tu lo sai, disgraziatamente ho da pensare troppo a me, e accostatomi al bambino maggiore gli detti con cautela, perché non vedesse suo padre, un piccolo foglio. Mi guardò spaurito, guardò quel che aveva nella mano, e chiamando suo padre incominciò a gridare:
«O babbo! o babbo! guardate cosa m’ha dato questo signore! O cos’é? o cos’é».
«Digli “Dio vi rimeriti” a questo signore, Tonino; digli “Dio vi rimeriti”…»
«Non importa, non importa. Addio, monello; buon viaggio e buona fortuna, galantuomo.»
«Altrettanto a voi, signore, e state fiero.»
Quando la madre, che aveva mantenuto i suoi dieci passi di distanza, mi passò davanti «Dio vi benedica!» mi disse. E stetti qualche momento a vederli allontanare tra la bufera, che rammulinava la neve sempre più gelata e più folta, fischiando attraverso gli alberi brulli della via.
Qui Raffaello s’interruppe per dire a Gano che buttasse un altro ciocco sul fuoco; poi, dopo esser rimasto qualche momento col capo basso a pensare, lo rialzò per domandarmi: «Che ne sarà stato?».
Renato Fucini
da “Le veglie di Neri”
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3 risposte
Una storia semplice, colma, sincera, spontanea. La conosco… da sempre. Mio zio Anchise Picchi, pittore, scultore, incisore, me la lesse che avevo sì e no cinque anni. Era un appassionato ammiratore del Fucini. Su questo racconto ha realizzato il bel dipinto “Profughi – (Vanno in Maremma)”, olio su tela, ora proprietà del Comune di Collesalvetti. Mi rincresce di non poter qui mostrare come questo dipinto, con il gruppetto di disperati perso nelle nebulosità della tormenta, abbia colto l’essenza più vera e il doloroso sentimento di una condizione di miseria e di ingiustizia che ci colpisce e ci esorta a riflettere. E che la bella penna del Fucini ha sottolineato con un tocco da maestro, quando racconta che perfino gli stracci a protezione della mani del bimbo sono tenuti insieme da due fili di ginestra…
Più modestamente, ispirandomi al quadro e alla storia, ho scritto anch’io questi semplici versi:
Profughi
Vanno insieme… Ma dove?
Vanno a cercar fortuna,
a tentare vie nuove,
soli, sotto la luna.
Urlano l’ingiustizie
nel freddo del mattino:
c’è chi affoga in delizie
e chi muore bambino.
Non un raggio di sole…
Sono diseredati.
Muti, senza parole,
passan dimenticati.
Un applauso anche a Lido per la sua poesia che dimostra ancora una volta che brava persona, sensibile e di cuore sia. C’è più umanità in una poesia così che in cento di quelle poesie che …è meglio se sto zitta.
Ma che dici…leggo Fucini e dico che ‘un mi garba!? E come potrebbe ” ‘un garbammi” ( tradotto ” non piacermi” 🙂 ) uno che parla così, no a bocchina stretta come da altre parti , ma co’ quella boccaccia larga di noi Toscani da cui anche una bestemmia esce così spontanea da parer quasi la più genuina dichiarazione di fede considerando che non ci si arrabbia così’ con chi si pensa che non esista o con chi non si considera nulla!? Una cosa gli avrei però rimproverato, anzi glielo dico proprio, tante volte lassù leggessero il blog, ‘un si sa mai… . Premetto questo per istruire chi non lo sapesse: un maremmano è toscano, sì, ma non è un toscano qualunque …un Maremmano è il fior fiore della toscanità. E’ il figliolo degli Etruschi che qui ci stavano di casa e volentieri e dalle altre parti ci andavano a fare una giratina…anche a Firenze ci sono passati di striscio. Ora…un maremmano come Fucini, cresciuto a Campiglia Marittima e nato a Monterotondo, quindi “ venuto su” in quella fascia costiera che comprende i litorali livornese e grossetano dove stanno i Toscani senza peli sulla lingua , dove il vattelappiglià fiorisce spontaneo sulla bocca, fresco e innocuo come un fiore di campo…mi viene a parlare di ” bambini e bambine”!? Ma quello è Italiano… che ci appiccica con noi!? Il fatto è che fra gli studi a Empoli dove poi è morto, e gli anni trascorsi a Firenze…gli s’è attaccato addosso un po’ di fiorentino, pover’omo e ‘un c’è nulla da fare!!!!…in Maremma non ci sono bambini e bambine…quelli stanno a Firenze… a Siena ci stanno cittini e cittine e qui da noi bimbi, bimbe, bimbini e bimbine. Ma voglio dirgli che questo non scalfisce la nostra stima e il nostro affetto che hanno superato anche l’” affronto” di aver scritto sonetti in vernacolo pisano, e che stia tranquillo ché in questo racconto il resto va tutto bene ” il mi’ fratello, la mi’ moglie”…tutto bene, e che è fenomenale: mi ha anche insegnato una parola nuova!!..il nibibbio..mai sentito , forse è parola dei nostri vecchi, di quando dicevano ” unguanno passo”..! e insomma dato che poggi e buche fanno pari, ( forse da tutte le parti, ma comunque da noi di sicuro) si fa pari con lo sbaglio delle “ bambine” e siamo a posto. Grazie a Fucini e grazie a Pasquale ce l’ha fatto rileggere 🙂