P. Balestriere su “La filosofia oraziana, la religione e il motivo simposiaco-conviviale”

 

QUINTO ORAZIO FLACCO

La “filosofia” oraziana, la religione
e il motivo simposiaco-conviviale

Parte terza e ultima

di Pasquale Balestriere 

La poesia oraziana è densa di elementi satirici, parenetici, mitici, “erotici” (nell’accezione ampiamente descritta in  precedenza), lirici, gnomici. Nella gnome e nella parènesi è individuabile, più che altrove, la peculiarità del pensiero del Venosino: in esso affiorano, facilmente riconoscibili, tracce di filosofia stoica ed epicurea.
Eppure il poeta sembra ridersi[1]  della dottrina stoica; non così in una satira divertente ma amara[2]  nella quale il servo Davo, uomo non incolto relativamente alla sua condizione, furbescamente usando della libertà concessagli dai Saturnali, impartisce ad Orazio un’arguta ma puntuale lezione di filosofia stoica, facendolo montare su tutte le furie. È opportuno però precisare che il poeta non si ride dello stoicismo ma piuttosto delle conclusioni paradossali o aberrazioni a cui giungono i seguaci di questa scuola di pensiero.
Che tuttavia Orazio, almeno da giovane,  al dettato della filosofia stoica -con la sua etica ferma, severa, ultimativa, anche se libertaria e volta ad affermare la necessità della virtù e a privilegiare la dignità dell’uomo-  preferisca quello epicureo è fuor di dubbio; ma neppure l’epicureismo egli assume integralmente a norma di vita, se manifesta profonda paura della pallida mors[3]. Né vale a fargli considerare   la morte come liberatrice dai mali che ci tormentano  la rasserenante puntualizzazione di Epicuro sulla vanità di temerla, contenuta nella lettera a Menecèo (Συνέθιζε δὲ ἐν τῷ νομίζειν μηδὲν πρὸς ἡμᾶς εἶναι τὸν θάνατον;  e poi:  Ὅταν μὲν ἡμεῖς ὦμεν ὁ θάνατος οὐ πάρεστιν, ὅταν δὲ ὁ θάνατος παρῇ, τοθ’ἡμεῖς οὐκ ἐσμέν. οὔτε οὖν πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς τετελευτηκότας.[4])  e riportata da Lucrezio (nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum[5]). Anzi l’idea della morte è per lui angosciante, sicché per liberare l’animo dalla paura  chiama in soccorso filosofia e religione, buonsenso e cultura, poesia e natura. Con qualche vantaggio, ossia guadagnando momenti di serenità.
Nel pensiero oraziano, dunque, confluiscono elementi della filosofia stoica, che si manifestano poeticamente soprattutto nelle odi civili, e norme della dottrina epicurea, riscontrabili nei componimenti che interessano la sfera privata dell’individuo; il tutto è armonizzato e contenuto da un bonario e sorridente scetticismo, derivante, forse, dal contrasto che le due tesi filosofiche generano in lui; ed è condito con  una buona dose di senso pratico.

È un tipo di filosofia, quello di Orazio, tutto particolare; e del resto nella prima epistola del primo libro egli confessa che a nessuna scuola intende legarsi; e più precisamente che non è disposto a giurare sulle teorie di alcun maestro (nullius addictus iurare in verba magistri[6]); si può anzi affermare che le dottrine filosofiche, opportunamente ritoccate e fuse in un sincretismo pratico tutto romano, sembrano divenire, tra le mani del Venosino, strumento e premessa per una condizione ideale di vita, sgombra da ansie, paure e dolori; e tale modus vivendi , tale armonia interiore il poeta non possiede, quasi per una sorta di dono divino, ma si sforza di attingere giorno per giorno e conservare il più a lungo possibile; per questo sentenzia Sperne voluptates: nocet empta dolore voluptas[7] «Fuggi i piaceri: fa male una soddisfazione procurata a prezzo di dolore» che, se vogliamo, è un altro caposaldo della dottrina stoica.
Orazio, dunque, educato alla dura ma concreta scuola della vita, realisticamente coglie dalle varie teorie filosofiche gli elementi che a lui interessano e che gli sono congeniali, mantenendosi lontano da ogni paradosso e astrazione; esiti, questi, a cui invece giungevano i vari sistemi filosofici attraverso processi speculativi rigidamente logici o troppo intellettualizzati.
Questa digressione concernente la “filosofia” oraziana ha valore di premessa necessaria alla retta interpretazione del motivo simposiaco-conviviale, caro al poeta almeno quanto quello erotico; si è già detto prima come questi due temi ( e momenti) siano intimamente collegati e quasi fusi a fare argine ai momenti di tristezza, quando non d’angoscia, da cui Orazio era spesso afflitto. Se il lettore provveduto allerta, sia pure di poco, il suo senso esegetico, non tarda a scoprire, appena sotto la corteccia di tale tipo di componimenti,  i sentimenti che agitano dolorosamente l’animo del poeta: quello della fuga del tempo, e quindi della brevità della vita, ma anche quello  dell’ indomita mors. Il pensiero ritorna alla già citata ode 2,14, bella e giustamente famosa, che scandisce una composta disperazione: Eheu fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni, nec pietas moram / rugis et instanti senectae / adferet indomitaeque morti /…,dove  quel triste labuntur  (v. 2) vuole indicare lo scivolar via, quasi di soppiatto e come in fuga (fugaces, v. 1), della vita.
A siffatta situazione negativa il poeta reagisce con il carpe diem[8], il vina liques[9], il nunc est bibendum[10]. E così il simposio-convito, che deve garantirgli momenti di obliosa serenità, si trasforma in rito: in un’atmosfera raccolta -Orazio non ama la confusione né la calca- si liberà agli dèi, dopo essersi coronati di mirto e di edera; compagna del poeta sarà Lidia, o forse Leuconoe, o magari Glìcera; non mancherà la citarista, meglio se Tindaride; e neppure, a completare l’atmosfera quasi sacrificale, il rituale incenso e le medicali, sacre verbene (tura  e verbenae[11]).
Il simposio che si fa rito, assumendo aspetti sacrificali ed una precisa liturgia, indurrebbe a pensare ad un Orazio legato fermamente alle divinità tradizionali. Non è proprio così, nonostante sembri sostenere il contrario l’ode 1, 34, in cui  il poeta, spaventato da un fulmine a ciel sereno, professa di voler ritornare alle antiche credenze, cioè alla religione tradizionale, abbandonata per la dottrina epicurea  (che qui, al v. 2, definisce ossimoricamente  insaniens sapientia, cioè «folle sapienza» ), la quale, vale la pena di ricordarlo, sosteneva che gli dèi vivessero sereni negli intermundia (spazi infiniti interposti tra gli innumerevoli mondi reali), per nulla curandosi  degli uomini e delle loro vicende.
Pare invece più probabile che la sua fosse piuttosto una sorta di religione naturale: namque deos didici securum agere aevom / nec, siquid miri faciat natura, deos id / tristis ex alto caeli demittere tecto[12] «e infatti so bene che gli dèi vivono una loro vita tranquilla; e che, se la natura produce qualcosa di meraviglioso, non sono certamente gli dèi adirati a mandarcelo dall’eccelsa volta del cielo».  Di conseguenza Giove, Mercurio, Venere, Apollo ecc. sono invocati dal poeta per quello che rappresentano: Giove vuol significare l’ordine dell’universo, la potenza, la regalità; Mercurio la facondia, l’astuzia e l’inventiva; Venere  la bellezza, l’amore, la fertilità; Apollo  il sole vivificatore, la musica e la poesia. L’invocazione di queste divinità, inoltre, risponde a un’esigenza conformistico-tradizionale del poeta, in quanto in esse hanno creduto suo padre  e i maiores che hanno dato a Roma grandezza e potenza. E poi lo stesso Augusto, nel suo programma di restaurazione dell’impero, aveva previsto anche il ritorno alla religione tradizionale, nella speranza che rivivessero i costumi di un tempo e Roma potesse godere della tranquillità necessaria dopo tante vicende belliche spesso amare e luttuose.
Ecco, Orazio crede nella potenza e nell’immortalità di Roma, oltre che nel fascino e nell’immortalità della poesia[13]: è questa la sua vera religione ed egli si sente Musarum sacerdos[14], sacerdote della poesia e del convito-rito sacrificale; sacerdotessa, preferibilmente di Venere, sarà la sua compagna e “strumenti” del sacrificio un agnello o un verro oppure un capretto o magari un vitello; mai, comunque, mancherà il vino. Cecubo, Massico, Caleno, gelosamente conservati e debitamente invecchiati, saranno tratti fuori «dalle cantine avite» (cellis avitis[15]) e religiosamente centellinati. Così il vino, elemento principe del convito, potrà dare l’ebrietas, che, se da un lato rompe gli argini del modus, dall’altro, come s’è già scritto, spes iubet esse ratas … / sollicitis animis onus eximit[16] «l’ebbrezza … permette che si realizzino le speranze … sgrava l’animo dalle preoccupazioni».
Comunque i momenti di ebbrezza in Orazio sono assai rari; e in ogni modo egli consiglia moderazione: Ac ne quis modici transiliat munera Liberi[17]  «che nessuno superi la giusta misura dei doni di Libero», cioè di Bacco. Insomma si deve bere quel tanto necessario per addolcire gli affanni della vita. Pure, nei banchetti che festeggiano il ritorno di qualche amico[18],  il poeta abbandona il suo abituale senso della misura per darsi al vino e alle danze, invitando gli altri a fare altrettanto.
Orazio, come s’è già detto,  non ama la calca; e pertanto ai simposi troppo affollati preferisce conviti più intimi, magari lui e Fillide, da soli[19]: lui e il suo ultimo amore. E neppure lo attirano eccessivamente i pranzi raffinati: a lui bastano vivande semplici, possibilmente prodotte dal suo orto, e del  vile Sabinum[20] ( anche quello della sua villa sabina?).
Il convito e l’amore, quindi, si collocano nell’esperienza lirica oraziana come momenti capaci di proiettare l’uomo in una dimensione semidivina, consentendogli di dimenticare, sia pure per breve tempo, la sua pesante e dolorosa umanità.

 

Conclusione

Di Quinto Orazio Flacco ho detto tutto ciò che mi pareva giusto,  adeguato e necessario a tratteggiarne un profilo quanto più possibile onesto e reale. Non voglio né mi interessa scrivere altro. La sua humanitas, davvero molto speciale,  lo ha consegnato  alla memoria dei posteri intatto e vivo nei suoi sentimenti, immortale, anche  per la sua fede nella poesia eternatrice:

Vixere fortes ante Agamemnona
multi; sed omnes inlacrimabiles
urgentur ignotique longa
nocte, carent quia vate sacro[21].

Furono in vita prima di Agamennone
già tanti eroi;  ma, tutti illacrimati
e ignoti, eterna li opprime la notte
privi del sacro canto del poeta[22].

 

Pasquale Balestriere                          

 

Note                                                                                 

[1] Hor., Sat.1, 3;  2, 3

[2] ibid.,  2, 7

[3] id., Carm. 1, 4, 16 sqq.

[4] Epic., epl. ad Menoeceum, 124, 125:”Abìtuati dunque a pensare che la morte per noi è niente”, nel senso che non ha importanza, perché “ quando noi siamo – cioè viviamo-  la morte non c’è, quando c’è la morte, allora noi non siamo più. Dunque essa  non rappresenta proprio nulla né per i vivi né per i morti.”

[5] Lucr., De rerum natura, 3, 830: “Nulla è dunque per noi la morte e non ci riguarda affatto”. Questo concetto è ripreso e ribadito frequentemente da Lucrezio, sempre nel terzo libro (845, 850, 852, 926, 972).

[6]  Hor., Epl. 1, 1, 14

[7]  ibid.,  1, 2, 55

[8]  id., Carm. 1, 11, 8

[9]  ibid., v. 6

[10]  ibid.,  1, 37 ,1

[11] ibid.,  1, 19, 14

[12] id., Sat. 1, 5, 101-103

[13] id., Carm. 3, 30

[14] ibid.,  3, 1,  3

[15] ibid., 1, 37, 6

[16] id., Epl. 1, 5, 16-18

[17] id., Carm. 1, 18, 7

[18] ibid.,  1, 36; 2, 7

[19] ibid.,  4, 11

[20] ibid.,  1, 20, 1

[21] ibid.,  4, 9, 25-28

[22] Traduzione  dell’autore, come tutte le altre contenute in questo lavoro.

*****

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8 risposte

  1. Questo pregevole scritto completa l’analisi della produzione oraziana e tratteggia con esauriente ampiezza il suo pensiero, la sua devozione alle Muse, la sua filosofia di vita, i suoi timori per la brevità della stessa ed il dolore, i rimedi che possono, e devono, essere adottati per allontanare, quanto più possibile, l’angoscia di una condizione umana che il tempo inevitabilmente consuma.
    Orazio ci insegna che non ci si deve vergognare di temere la morte, nonostante Epicuro nella “Lettera sulla feilicità” a Meneceo sostenga il contrario. Ognuno di noi avverte concretamente il trascorrere del tempo (anche se un altro grande del Novecento, Einstein, nella sua lettera alla sorella di Michele Besso, dopo la morte dell’amico, sosteneva che il tempo, in realtà, non esiste: “[…] Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distanza fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente, cocciuta illusione.”).
    Tuttavia il pensiero della nostra prossima scomparsa, di quella delle persone care, ce lo portiamo dentro: ci punge e ci reca fastidio. Così Orazio. ma lui si rifugia, con buon profitto, nella poesia, nelle ore liete e spensierate e calme del simposio, nella ricerca della compagnia e dell’amore. Carpe diem! Cogli il giorno, ruba ogni attimo, se puoi. Tu sei nel tuo presente, qui ed ora. Godi il momento e non pensare al domani!
    La vita è una successione di istanti, un susseguirsi di vicende, sensazioni, speranze, sogni, desideri. E se pure si svolgerà su un breve cammino, percorriamolo, come ci esorta Orazio, con gioia, con leggera e pratica e lucida consapevolezza, non esagerando in nulla, nulla di appagante lasciando in disparte, certi che il “sorriso” e l'”ironia” sono i soli e più efficaci rimedi contro la fragilità della vita.
    Grazie ancora, Pasquale, per questi tuoi limpidi scritti.

    Riporto qui una gioiosa trasposizione da Orazio, con qualche libertà… di troppo. Vorrà scusarmi Pasquale.

    Alla fonte Bandusia (Orazio, odi 3,13)

    Bella, chiara sorgente luminosa,
    Bandusia mia, più pura del cristallo,
    per te rubo corone ad ogni rosa,
    verso a te vino rosso, di corallo.

    Un cornuto capretto offrirò in dono
    della cui fronte gli appuntiti onori
    già son presaghi certi del frastuono
    d’un doman di battaglie per gli amori

    che invano mai verranno, se il germoglio
    del mio bel gregge tingerà col sangue
    la tua corrente gelida, ed al soglio
    della breve sua vita cadrà esangue.

    Tu non paventi dell’estate il fuoco
    né la peggior canicola spaura,
    ché segui intatta il tuo scorrente gioco
    e doni a tutti amabile frescura:

    ai grandi buoi sudati e faticanti
    che al cigolio del giogo sottostanno,
    alle greggi sui pascoli vaganti
    che alle stagioni vanno anno per anno.

    Or qui ti eternan questi versi miei
    testimoni sinceri alla tua gloria,
    tra lecci e rocce, amata dagli dei,
    murmure eterno e intatto della storia.

      1. Grazie a te, Pasquale che ci illumini con questi bellissimi scritti e ci fai amare e conoscere ancor più profondamente la grande Poesia.

  2. .Io dico che Orazio ha la testa sulle spalle. Epicuro con quel discorso che la morte non va temuta perchè se c’è lei tu non ci sei e se ci sei tu lei non c’è…e che discorso è!? Me lo diceva anche il mio babbo, si vede che aveva capito di che pasta sono fatta e voleva consolarmi, fortificarmi, pover’uomo! Ma io l’ho visto morire e ho visto morire tanta gente, anche uno che vomitava sangue con un getto che andava a mezzo metro di distanza e scappai e non me lo scordo…e non ho mai visto nessuno contento o indifferente . Quindi Epicuro ha detto una frase a effetto di quelle che piacciono tanto ai sapienti perché suonano bene, fanno tanto “ saggio”, ma stai sicuro che quando è arrivato il suo momento ha cambiato idea e aveva paura come un qualsiasi analfabeta. Orazio ha ragione a temere la morte, e fa bene a godere quello che può: se qualche bicchierotto, sempre cum grano salis, ti fa vedere tutto più rosa che male c’è…ma divertirsi non sradica dall’anima quel pensiero angoscioso….sonnecchia in certi momenti, e menomale sennò andremmo fuori di testa…ma sta lì, come un topolino che se non è ora, di sicuro fra poco si desta e rosicchia. Certo…a vent’anni rosicchia meno che a ottanta.. e c’è poco da fare. Ognuno si protegge come può, ma ha voglia Epicuro a consigliare…la trappola per scacciarlo non ce l’aveva nemmeno lui. Il topino, ingrassa con la nostra paura e non lo manda via nemmeno la fede perché il credente, anche se sa di essere stato buono e di avere delle probabilità di andare in Paradiso, scommetto che se lo metti a scelta fra salire a suonare l’arpetta o il campare in salute a zappare la terra, quello sceglie l’aria, il sole, la vita. E non c’è Cristo che tenga. Poi è chiaro che ci sono le eccezioni: c’è gente malata davvero, poverina, condannata a un’esistenza di dolore fisico o spirituale , a volte a una vita non vita…e in quei casi sì, si può desiderare la morte , si può desiderare pur avendone paura, e allora la paura la si soffoca per disperazione e per inevitabile necessità , ma quello è un altro discorso, è un discorso concreto e disperato di fronte al quale taccio e chino il capo con tutta la comprensione, la pietà e il rispetto possibili, non è la chiacchiera di un filosofo. La poesia tradotta da Lido è stupenda come tutto quello che lui fa. Poeta, esperto nella metrica, capitano di lungo corso o simile, non me lo ricordo di preciso, fisico nucleare, cacciatore, pescatore, acchiappa-rane, fungaiolo, prosatore, ora s’è fatto anche studioso del greco…e cos’è che non sa fare? Forse la pasta per la pizza, ma capace fa anche quella… 🙂

  3. Veramente istruttive le “lezioni oraziane” di Pasquale.

    Orazio è immenso, ma la sua semplicità tragica lascia senza fiato. Pasquale ne rileva la polivalenza ma per me è prima d’altro un lirico puro, senza ornamenti vani, un tragico-intimista, dalla forma rigorosa e scolpita, che non ammette repliche. Al di là dei pregi formali, pur ragguardevolissimi, è forse il poeta più onesto di ogni tempo.
    Io credo che il modo migliore per conoscere un autore che scrive in un’altra lingua, sia quello, se possibile, di leggerlo nel testo originale e di tradurlo.

    “Diffugere nives, redeunt iam gramina campis
    arboribusque comae;
    mutat terra vices et decrescentia ripas
    flumina praetereunt;

    Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet
    ducere nuda choros:
    inmortalia ne speres, monet annus et almum
    quae rapit hora diem.

    frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas
    interitura, simul
    pomifer autumnus fruges effuderit, et mox
    bruma recurrit iners.

    damna tamen celeres reparant caelestia lunae:
    nos ubi decidimus
    quo pius Aeneas, quo dives Tullus et Ancus,
    pulvis et umbra sumus.

    quis scit an adiciant hodiernae crastina summae
    tempora di superi?
    cuncta manus avidas fugient heredis amico
    quae dederis animo.

    cum semel occideris et de te, splendida, Minos
    fecerit arbitria,
    non, Torquate, genus, non te facundia, non te
    restituet pietas;

    infernis neque enim tenebris Diana pudicum
    liberat Hippolytum
    nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro
    vincula Pirithoo.”

    ( Hor., Carmina, Liber quartus, VII

    Dileguano le nevi, già ritornano le erbe nei campi,

    sugli alberi le fronde;

    muta il suo volto la terra,

    esondano i fiumi dalle rive.

    La Grazia con le Ninfe e le sorelle

    ora nuda conduce le danze.

    Tu però non confidare d’essere immortale, di ciò ti ammonisce il tempo degli anni

    che si porta via la benigna luce dei giorni.

    I geli dell’inverno si temperano agli Zefiri, fiorisce la primavera, l’estate

    si consuma, indi l’autunno fruttifero dispensa i suoi raccolti

    e infine scialbe ritornano le nebbie.

    Puntuali le lune governano gli impeti celesti

    e noi, quando moriamo,

    come il padre Enea, come il ricco Tello, come Anco,

    polvere e ombra siamo.

    Chi può sapere se gli dei possenti

    vogliono aggiungere altro tempo futuro

    a quello che fino ad oggi abbiamo assommato?

    E allora è meglio che ogni tuo bene, che pure avresti voluto concedere con cuore generoso,

    sia sottratto alle avide mani degli eredi.

    Quel giorno che trapasserai e su di te Minosse avrà stabilito l’ultimo giudizio,

    non parenti, non facondia, né pietà, o Torquato,

    ti riporteranno in vita:

    né infatti, neppure Diana liberò Ippolito virtuoso

    dalle tenebre infernali,

    nè Teseo fu capace di sciogliere il caro Pirìtoo

    dalle catene eterne.

    (Trad. L.D.)

  4. Grazie Pasquale.
    Parlando del grande poeta non può mancare quella che certo è la più celebre poesia di Orazio:

    ‘Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
    finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
    temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati,
    seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
    quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
    Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi
    spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
    aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.”

    (Hor. Carmina, I, XI)

    Non domandarti, Leuconoe cara,

    (tanto non ci è dato saperlo)

    in quale giorno e in quale modo,

    a me, a te,

    gli dei daranno la morte.

    Inutile consultare le cabale di Babilonia.

    La cosa migliore è accettare quello che verrà,

    sia che Giove ci conceda altri inverni,

    sia che questo, che oggi affatica il mar Tirreno contro gli scogli,

    sia il nostro ultimo.

    Sii saggia, filtra il tuo vino

    e in questa vita troppo breve recidi troppo lunghe speranze.

    Mentre parliamo, già ci sfugge il tempo a noi nemico.

    Di ogni giorno cogli il fiore,

    meno che puoi illusa del domani.

    (Trad. L.D.)

    I Romani avevano chiaro il senso del tempo della vita. Era qualcosa che aveva la sua radice nel pensiero stoico. Non solo Orazio ma anche il giovane Persio, nella Quinta Satira, ribadisce il concetto della caducità della vita umana. E, a dire il vero, lo fa in un modo molto coinvolgente.

    “indulge genio, carpamus dulcia, nostrum est
    quod uiuis, cinis et manes et fabula fies,
    uiue memor leti, fugit hora, hoc quod loquor inde est.’ ”

    (Persio, Satire, V, 151-153)

    Asseconda il tuo genio, prendiamo il bello della vita!

    Solo ciò che si sta vivendo è veramente nostro,

    poi alla fine si diventerà cenere, ombra, parola;

    vivi considerando che un giorno tutto finirà;

    fugge l’istante e anche ciò che ho appena detto già non è più”.

    (Trad. L.D.)

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