P. Balestriere su “Il tema della femminilità” in Orazio

 

QUINTO ORAZIO FLACCO

     Il tema della femminilità

                  di Pasquale Balestriere

 

 

Nos convivia, nos proelia virginum / sectis in iuvenes unguibus acrium / cantamus ...[1]  Orazio dice di voler cantare i conviti e le battaglie delle fanciulle minacciose, anche con le unghie tagliate, contro i giovani.
È, questa dichiarazione, un manifesto poetico e un programma di vita: e, in effetti, il motivo del convito e la figura della donna assumono grande rilievo nella complessa  tematica della poesia oraziana; in essa, del resto, sono ben vivi altri elementi, tutti perfettamente armonizzati all’interno della visione della vita che lo scrittore mostra di avere.
Il convito e la donna costituiscono per Orazio due momenti di vita fondamentali, perché spesso risolutori, sia pure temporaneamente, di stati d’animo angosciosi (infatti l’atra cura, “l’angoscia” appunto,  afflisse il poeta per tutta la vita); e procedono di pari passo: voglio dire che, per il Venosino, salvo rarissime eccezioni, non esiste banchetto senza donne e viceversa; essi, insomma, rappresentano due elementi inscindibili di un’unica realtà e, se si vuole, di un’esigenza rasserenatrice.
Orazio, secondo il dettato epicureo, ritiene l’amore – quello vero, profondo, passionale – un sentimento che genera dolore. Dunque è da evitare,  in quanto sconvolgerebbe un equilibrio interiore faticosamente realizzato.
Pure viene spontanea la domanda: non è stata forse la morte prematura della “buona Cìnara” (bonae…Cinarae),[2] forse primo, ma certamente unico, vero amore di Orazio, a determinare in qualche modo la situazione interiore del poeta? Quella Cìnara, alla quale breves / annos fata dederunt[3] “il fato assegnò breve vita” e che era rapax[4], “avida” con gli altri, ma generosa e disinteressata con lui? Quella Cìnara che lo amò quando, giovane, egli aveva forte latus, nigros angusta fronte capillos[5] “un fisico robusto e neri capelli che gli ombreggiavano la fronte” e che, come si è visto,  ripetutamente ricorda nei suoi scritti?  Non bisogna, credo, sottovalutare esperienze giovanili che nei processi educativi e, in genere formativi, hanno non secondaria importanza, perché anch’esse  contribuiscono a determinare il carattere dell’uomo maturo.
Come che sia, dopo quell’esperienza giovanile, Orazio, certo per aver appreso la filosofia di Epicuro, comincia a vedere l’amore e la donna in modo diverso.
Ma chi sono le compagne del poeta o almeno i personaggi femminili della sua poesia?
C’è Frine: me libertina nec uno / contenta Phryne macerat[6] “mi consuma la libertina Frine, non contenta di uno solo” (a tal proposito si ricordi Catullo: quae tamen etsi uno non est contenta Catullo / rara verecundae furta feremus erae[7]e tuttavia, anche se non fosse paga del solo Catullo, sopporterò i rari furti della vereconda signora”); una passione, quella per Frine, che divora Orazio al punto di non permettergli di scrivere versi[8]. La libertina Mìrtale, invece,  è fretis acrior Hadriae[9]  “più minacciosa dei flutti dell’Adriatico”; qualcuno traduce acrior con “più volubile”, ma la mia interpretazione è però giustificata da Carm.1, 6, 17-18 (virginum … acrium). Lidia[10] poi, che non è libertina o meretrice come le precedenti (e, quindi, forse di più elevata condizione sociale), è descritta come amante insaziabile: difatti ha ridotto ad una larva d’uomo il giovane Sibari. Ciò nonostante, Orazio si mostra sdegnato (e geloso) quando scopre il bel corpo della donna straziato, in schermaglie amorose, dal giovane Telefo, boriosamente irruente; ma Lidia comincia a dar segni di senescenza, non è più cercata dai giovani: rimarrà presto sola con la sua libidine insoddisfatta; del che il poeta si mostra contento, giacché certamente l’infedeltà della donna non lo ha reso felice; eppure egli è pronto a rinunciare, per lei, alla flava Chloe[11]”bionda Cloe”. Cloe, appunto, inuleo … similis … quaerenti pavidam … matrem[12] “simile ad un cerbiatto che va alla ricerca della timida madre”,  è certamente un’acerba giovinetta adrogans[13] “ritrosa”, anche se dulcis docta modos et citharae sciens[14] “esperta in dolci melodie e capace di suonare la cetra”.

Orazio non ne fu eccessivamente innamorato, nonostante il pro qua non metuam mori dell’ode 3,9; è avvinto, invece, dalla statuaria bellezza di Glìcera (Carm.1,19,5), più luminosa di un marmo pario (Urit me Glycerae nitor / splendentis Pario marmore purius[15]”mi brucia la splendida bellezza di Glicera, che rifulge più luminosa del marmo di Paro”); e dichiara me lentus Glycerae torret amor meae[16] “mi consuma, lento, l’amore per la mia Glìcera”; più che di amore, mi pare si tratti di ammirazione estetica – o forse estatica – nei confronti di un tal esemplare di bellezza muliebre. Alla bellissima Glìcera fa da contrappunto la vecchia e dissoluta Clori[17], moglie del pauper Ibico, la quale partecipa ai giochi delle virgines e tenta di confondersi con esse, nella speranza di accalappiare magari qualche sprovveduto amante.
L’elenco, e quindi la descrizione dei tipi di donna che compaiono nella poesia oraziana, sarebbe lungo. Ritengo, comunque, di aver presentato figure sufficientemente significative; pertanto citerò solo “en passant” altri nomi: la spergiura Barine[18]; l’infedele Pirra[19];  Tindaride “dalla dolce zampogna” (dulci … fistula[20]); la scortum[21] (“ cortigiana”) Lide, che non vuole ascoltare i versi del poeta[22]  o che non si decide a tirar fuori dalla dispensa l’anfora con il vino[23]; la bionda Fillide, ultimo amore oraziano (Meorum / finis amorum /non enim posthac alia calebo / femina[24] “ Ultimo dei miei amori- e infatti per l’avvenire non m’infiammerò per un’altra donna-”) ; la crudele Lice, capricciosa con gli amanti, che il poeta deride, perché, ormai vecchia, vuol sembrar bella[25]; Foloe, aspera[26] e fugax[27], cioè  “ ritrosa”; Leuconoe[28], innamorata del poeta e timorosa del futuro; Asterie[29], moglie di Gige, fedele al marito ma forse attratta dal vicino Enipeo; Lalage[30], che parla e sorride dolcemente; la repellente strega Canidia[31]; Inachia[32], un  violento amore giovanile, che  colse il poeta quando ancora ignorava le dottrine epicuree e del quale si pente: Heu me, per urbem -nam pudet tanti mali- / fabula quanta fui…[33] Ahimè, quanto feci sparlare di me la città -e come mi vergogno di un così grave errore-!” (dall’emistichio oraziano fabula quanta fui deriva forse  il petrarchesco “favola fui gran tempo”); e, infine, ricorderò Neera[34], dalla bella voce, che il Venosino vuole presente ad un banchetto.
Altre figure femminili vivono nell’opera oraziana; non le citerò, e non credo che questa sarà una grave omissione.
Da quanto esposto, emerge un quadro notevolmente variegato di caratteri femminili: libertine, donne infedeli e crudeli, fanciulle acerbe e scontrose, giovani innamorate e superstiziose, cantanti e citariste; da alcune di esse Orazio è attratto fisicamente, a volte in modo anche intenso; altre risvegliano in lui il gusto dell’esteta; per altre nutre sentimenti di tenerezza, magari un po’ lasciva, rimpiangendo i suoi giovani anni; altre, ormai vecchie, per una sorta di ripicca, sono derise da lui, nel ricordo di passate gelosie.
La donna, per Orazio, deve essere anzitutto buona amica, poi ottima conversatrice, dolce, disponibile alla buona tavola e magari all’amplesso amoroso, graziosa quanto basta, giovane (ma neppure tanto); deve inoltre saper suonare e cantare ed essere libera da preoccupazioni che intristirebbero il poeta; il quale, a sua volta, odia o, forse meglio, teme quei legami che, apparentemente duraturi, si rivelano poi precari e dolorosi.  Parabilem amo venerem facilemque[35]Mi piacciono gli amori accessibili e facili” dichiara Orazio: la  donna  -ancella, liberta, etera, mai matrona, proprio per questa sua condizione di donna sposata –  gli sarà compagna per un’ora, per un giorno, per un periodo breve, ma non necessariamente o precisamente determinato; è perciò chiaro che non l’amore egli cerca, ma piuttosto la femminilità, intendendo con tale termine quell’insieme di qualità e di caratteristiche che rendono la figura della donna desiderabile,  affascinante, quasi irresistibile.

Dice bene il filologo Alfonso Traina quando afferma che “Orazio volle essere, ma non fu,  poeta d’amore; d’amori, piuttosto.”[36] Però, come ben intuisce il filologo e traduttore Enzo Mandruzzato, “circondò sempre di bellezza le sue donne fugaci”[37]. E ciò perché, per il Venosino, la bellezza, prima e più che una categoria dello spirito, era un fattore necessario alla vita, un elemento che ne determinava l’armonia e la ricchezza.

Qualcuno potrebbe essere indotto a pensare a Orazio come a un libertino. Niente di più falso. Anzi, se si gratta via la patina dell’esteriorità, non si tarda a scoprire nell’uomo dell’est modus in rebus[38], cioè del senso della misura,  una risentita moralità (non moralismo) che è insieme causa ed effetto della perseguita (e, almeno parzialmente, conseguita) mediĕtas. Lo dico chiaro, una volta per tutte: Orazio è scrittore di grande serietà. Tracciato per la sua vita un percorso, sostanzialmente retto e virtuoso, si sforza di seguirlo, addolcendolo con una punta di bonomia e con qualche lepidezza. Si pensi alle cosiddette “odi romane”, cioè alle prime sei odi del terzo libro, in cui il poeta, ponendosi quasi come istitutore della gioventù romana – in quel clima di riorganizzazione dello Stato romano su basi (apparentemente) repubblicane e di  moralizzazione dei costumi così cara ad Augusto-, dispensa consigli e precetti relativi all’educazione civile e militare e ad un’etica più risentita. Ecco l’incipit della prima di quelle odi, famosissimo: Odi profanum vulgus et arceo: / favete linguis;carmina non prius / audita Musarum sacerdos / virginibus puerisque canto.[39] “Detesto il volgo profano e me ne  tengo lontano: mantenete il silenzio; io, sacerdote delle Muse, comincio a cantare  per le vergini e per i fanciulli un canto mai udito prima”.  La traduzione, tuttavia, non rende che pallidamente una sostanza concettuale complessa e polisemica. Si noti innanzitutto quel profanum (da pro-  “davanti “ e perciò “fuori da” e fanum “tempio”, ad indicare chi è fuori dal tempio in quanto non iniziato) riferito a vulgus, sostantivo già di per sé connotato negativamente. Il favete linguis  e i carmina  non prius / audita intonati da un Musarum sacerdos, ci depongono nel bel mezzo di una celebrazione religiosa dalle sfumature misteriche ed esoteriche, perché i carmina sono (anche o soprattutto?) formule sacre cantate dal sacerdote delle Muse a vantaggio degli iniziati, della generazione nuova (virginibus puerisque -dativo di vantaggio o ablativo d’agente?-). È evidente che qui Orazio, convinto com’è della necessità di un improcrastinabile recupero dei valori della Roma repubblicana, addensa, e forse carica, di significati religiosi quello che certamente è, visti i tempi corrotti, un arduo percorso di formazione. E cosa insegna il sacerdote delle Muse, cioè il poeta, ai giovani romani? Questo: vivere in modo onesto e tranquillo, sobrio e vero, con coraggio e parsimonia, con civiltà e lealtà, difendendo la giustizia, la religione e la patria, confidando nella missione imperiale di Roma nel mondo. E consiglia morigeratezza alle matrone e grande serietà, anzi severità, nel processo educativo dei futuri cittadini e soldati.

E se è vero che queste prime sei odi del terzo libro sono il frutto di una richiesta neppure tanto velata di Augusto ai “suoi “ poeti (Orazio e Virgilio in primis), è altrettanto vero che la decadenza dei costumi romani dispiace ad Orazio, il quale in essa vede, e non a torto, i segni premonitori del tramonto di Roma: purtroppo gli eserciti dell’Urbe cominciano a cedere, perché i romani hanno dimenticato l’austerità dei padri;  la lussuria impera, si dà l’assalto alla virtù delle matrone; trionfa il libertinaggio postribolare; le donne apprendono le danze ioniche, ricche di movenze lascive ed allettatrici, e commettono adulteri in presenza di mariti condiscendenti: sed iussa coram non sine conscio / surgit marito, seu vocat institor / seu navis Hispanae magister, / dedecorum pretiosus emptor. [40] Ma quando  (la donna) è invitata , consapevole il marito, si leva dalla mensa davanti a tutti, sia che la chiami il bottegaio o il comandante di una nave ispanica che paga bene le vergogne”. Il poeta, nauseato, disprezza Clori (non la fanciulla “dalle bianche spalle” di Carm. II, 5, 18, ma la già citata uxor pauperis Ibyci  “la moglie del povero Ibico” di Carm. 3, 15) , moglie disonesta;  rispetta ed apprezza invece  la fedeltà coniugale di Licinnia (pseudonimo per Terenzia, moglie di Mecenate)[41]; anche in Carm. 3, 24, 21 sqq. e in Ep. 2, 39 sqq., ma pure altrove, loda l’onestà della donna; esorta Asterie a serbarsi fedele al marito Gige e a chiudersi in casa quando viene la notte.[42]
All’appressarsi dei cinquant’anni Orazio non si sente più così propenso ad avventure galanti ed assume un’aria di uomo vissuto, ormai placato negli stimoli amorosi: è un atteggiamento paternalistico che non manca di far sorridere il lettore. Ma ascoltiamo Orazio. È l’incipit, anche un po’ comico, del quarto libro dei Carmina: Intermissa, Venus, diu / rursus bella moves? Parce, precor, precor. / Non sum qualis eram bonae / sub regno Cinarae. Desine, dulcium / mater saeva Cupidinum, / circa lustra decem flectere mollibus / iam durum imperiis; abi, / quo blandae iuvenum te revocant preces.[43] “Di nuovo, o Venere, mi muovi guerre abbandonate da lungo tempo? Risparmiami, ti imploro, te ne supplico. Non sono più com’ero sotto il governo della buona Cinara. E smetti, o fiera madre dei dolci amori, di tentare di piegare con molli comandi me ormai restio e per di più vicino ai dieci lustri. Vattene dove  ti chiamano le dolci preghiere dei giovani.”
Notevole è l’impegno del poeta nel cercare di eliminare alla radice stessa del sentimento, per così dire, amoroso (e non solo di quello) ogni traccia di asperità, di clamore e di isterismo; lo scrittore, in tal modo, conferisce al sentimento stesso la levigatezza necessaria perché  esso risulti armonizzato e perfettamente integrato in quella temperie spirituale da cui poi deriva la personalissima “Weltanschauung” del Venosino. In lui, che, epicureamente, si sforza di dominare la potenza del sentimento (e spesso vi riesce), è sempre presente e viva la ricerca dell’armonia interiore che è il segno vero della classicità.

Per completare lo sviluppo del tema della femminilità nell’opera oraziana, mi piace riportare quello che,  per mia conoscenza,  è il primo componimento amoroso a contrasto del mondo classico. Mi riferisco all’ode  3, 9, una deliziosa  schermaglia in punta di fioretto tra  il nostro poeta e  Lidia, figura femminile già citata e che ricorre più volte nei Carmina[44] per essere stata una donna da lui molto amata (sempre nel senso oraziano del termine). Si sa che nella letteratura antica greca e latina i canti amebei erano piuttosto diffusi: nella lirica monodica e corale greca,  nella commedia di Aristofane (Ecclesiazuse,  952 sqq.), in Teocrito, in Virgilio, ecc.  Ma in 3, 9 il carme amebeo assume la connotazione di contrasto amoroso.

La parola al poeta: “Donec gratus eram tibi / nec quisquam potior bracchia candidae / cervici iuvenis dabat, / Persarum vigui rege beatior.”  “Fino a quando ti piacevo né alcun giovane preferito a me  ti cingeva con le braccia il candido collo, mi sentii più potente e felice del re dei Persiani.” Orazio rievoca con nostalgia.

Lidia risponde: “Donec non alia magis  / arsisti neque erat Lydia post Chloen, / multi Lydia nominis / Romana vigui clarior Ilia.”  “ Fino a quando non ti infiammasti di più per un’altra e Lidia non veniva dopo Cloe, io, Lidia gloriosa, fui più famosa della romana Ilia.” Fin qui Lidia sembra un alter ego di Orazio, in quanto ne ricalca le espressioni, addirittura intensificandole e specularmente collocandosi sul piano della memoria e del sottile rimpianto. E poi il contrasto vero e proprio, il breve duello verbale,  che si risolve in due stoccate.

Quella di Orazio: “Me nunc Thressa Chloe regit, / dulcis docta modos  et citharae sciens / pro qua non metuam mori, / si parcent animae fata superstiti.” “È ora signora del mio cuore la tracia Cloe, che sa dolci canzoni e suona bene la cetra, per la quale non esiterei a dare la vita se i fati risparmiassero lei, l’anima mia.”

La risposta, a tono, ma più piccata, di Lidia, che raddoppia: “ Me torret face mutua / Thurini Calais filius Ornyti, / pro quo bis patiar mori, / si parcent puero fata superstiti.” “M’infiamma d’amore corrisposto Calai, figlio di Ornito di Turii, per il quale sarei disposta a sopportare la morte due volte, se i fati risparmiassero la vita al mio ragazzo.”

Dopo la risposta di Lidia, il contrasto vero e proprio è bell’e concluso. I due, in fondo, si amano ancora, anche se hanno enfatizzato fuor di misura sentimenti e amanti. Sicché le ultime due strofe volgono alla riappacificazione.

Orazio, ammiccante: “ Quid si prisca redit Venus / diductosque  iugo cogit aeneo, / si flava excutitur Chloe / reiectaeque patet ianua Lydiae?”  “ E che farai se ritorna l’antico amore e riunisce sotto il giogo di bronzo quelli che separò, se viene allontanata la bionda Cloe e s’apre la porta a Lidia un giorno respinta?”

Condiscendente, Lidia, ma con un iniziale distinguo, che si annulla nel verso finale: “Quamquam sidere pulchrior / ille est, tu levior cortice et improbo / iracundior Hadria,/ tecum vivere amem, tecum obeam libens.” “Benché egli sia più bello d’una stella, tu più leggero di un sughero e più collerico del tempestoso Adriatico, con te amerei vivere, con te morirei volentieri.”

Quando penso a certi “contrasti” della prima letteratura in volgare (Rosa fresca, aulentissima di Cielo D’Alcamo, Becchin’amor di Cecco Angiolieri, per citare i più conosciuti) non posso non notare la distanza siderale tra questi ultimi, che pure hanno una loro freschezza, originalità, piacevolezza,  e il capolavoro oraziano, spontaneo, sì, ma leggiadro, venusto, fine, percorso da armonie e corrispondenze interne. Armonioso. Come del resto tutto il mondo in versi del poeta augusteo.  

 Pasquale Balestriere

 NOTE

[1] Hor., Carm.1, 6, 17-19

[2]  id., Carm. IV, 1, 4

[3]  id., Carm., IV, 13, 22-23

[4]  id,  Epl.., I, 14, 33

[5]  id., Epl.,  I, 7, 26

[6]  id., Ep., 14, 15-16

[7] Cat., 68, 134-35

[8] Hor., Ep., 14, 6 sqq.

[9] Hor., Carm., 1, 33, 14

[10] id., Carm., 1, 8, 1: 1, 13, 1; 1, 25, 8; 3, 9, 6; 3, 7, 20

[11]  id., Carm., 3, 9, 19

[12]  id., Carm., 1, 23, 1-3

[13]  id., Carm., 3, 26, 12

[14]  id., Carm., 3, 9, 10

[15]  id., Carm.,1, 19, 5-6

[16]  id., Carm., 3, 19, 28

[17]  id., Carm., 3, 15

[18]  id., Carm., 2, 8, 2

[19]  id., Carm., 1, 5, 3

[20]  id., Carm., 1, 17, 10

[21]  id., Carm.,  2,11,22;

[22]  id., Carm., 3, 11, 7-8

[23]  id., Carm. 3,28, 7-8

[24]  id., Carm. 4, 11, 31-34

[25]  id., Carm., 3,10; 4, 13

[26]  id., Carm.,  1, 33, 6

[27]  id., Carm., 2, 5, 17

[28]  id., Carm., 1, 11

[29]  id., Carm., 3, 7

[30]  id., Carm., 1, 22, 10 e 23

[31]  id., Ep., 3, 8; 5, 15e 48; 17,6; Sat., 1, 8, 24 e 28;  2,1,48;  2, 8, 95

[32]  id., Ep., 11, 6; 12,14 e 15

[33] id., Ep., 11, 7-8

[34] id., Carm., 3, 14, 21; Ep., 15, 11

[35] id., Sat., 1, 2, 119

[36] Introduzione al volume Quinto Orazio Flacco, Odi ed Epodi, tradotto e annotato da Enzo Mandruzzato,  BUR  Pantheon,  Milano, 2002,  p. 46

[37] E. Mandruzzato, Orazio Lirico, Liviana, Padova, 1958, p. 197

[38] Hor., Sat., 1, 1, 106

[39] id., Carm., 3, 1, 1-4

[40] id., Carm. 3, 6, 29 sqq.

[41] id., Carm. 2, 12, 13 e 23

[42] id., Carm. 3, 7

[43] id., Carm. 4, 1, 1-8

[44] id., Carm.1, 8, 1; 1, 13, 1; 1, 25, 8; 3, 9, 6; 7; 20.

***

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3 risposte

  1. Che dire?
    Uno scritto molto bello che ci fa conoscere Orazio e il suo tempo sempre più profondamente. Una analisi circostanziata e puntuale, dove emerge il grande interesse (e… ammirazione) che Pasquale sente verso questo grande poeta. Il tema dell’amore che per Orazio non fu solo umana necessità, sfogo dei sensi, scrigno dei sentimenti, ma fu soprattutto equilibrio interiore (salvo i casi dove, ovviamente la gelosia ne offuscò alquanto la limpida natura), norma sociale e, perché no, rispetto dell’altra metà del mondo, quella femminile, in cui la donna, l’amata, assume un ruolo fondamentale di completamento e di vita. Anche nei momenti che il poeta vive come i più aspri – o perché rifutato o per palese infedeltà – egli non scende mai in considerazioni e offese triviali, trattenendosi sempre e al più su un livello di graffiante ironia.
    In questi nostri tempi, dove quasi ogni giorno donne e madri vengono violentate e uccise da uomini che asseriscono di amarle, dovremmo imparare di più e meglio proprio da Orazio, dalla sua misura: in definitiva dal suo attegiamento verso le compagne – amanti devote o cortigiane – su un piano di parità, di reciproco scambio e di rispetto.

  2. Est modus in rebus… questo è il principio primo, quello che più apprezzo in Orazio. E’ un po’ il discorso che si ritrova nell’immagine della nave che è bene non navighi troppo al largo ma nemmeno troppo vicina agli cogli. Evitare gli eccessi e camminare sul filo dell’ equilibrio è sempre la via migliore, ma anche la più difficile …non è semplice mantenersi in equilibrio, e a lungo, su un filo… la distanza fra il dire e il fare è oscillante , può essere un nulla ma anche un abisso. In definitiva è passato da un letto all’altro senza porsi troppi problemi. Quanto all’amore credo che non abbia amato nessuna fra le donne che hanno ” attraversato” la sua vita. Passioni, poco di meno, poco di più. E la “buona Cinara”? Diciamo che ha avuto la “fortuna” di vivere poco…cosa che l’ha circondata dell’aura preziosa e non scalfibile dei ricordi della giovinezza e l’ha posta sotto lo scudo inattaccabile della pietà la sua sorte sventurata facendone un simbolo della fragilità dell’uomo e dell’ingiustizia della vita.. E’ difficile che nel ricordo una persona sveli un po’ alla volta difetti e lati che non immaginavamo e che ci piacciono poco…il ricordo resta intatto e col tempo è la sola cosa che ,pur allontanandosi, acquista luce. Orazio soffriva di blefarite, come me, a volte la vista oscilla, ma certe luci si vedono bene lo stesso. Se le cose fossero andate diversamente sarebbe rimasta così ai suoi occhi? Mah…A parte queste considerazioni che lasciano il tempo che trovano, la mia ammirazione al Professor Balestriere per questo saggio profondo, accurato, di infinita bellezza.

  3. Un omaggio ad Orazio.

    Omaggio ad Orazio

    Vieni con me sull’argine, al ruscello,
    distenditi con me sopra l’erbetta,
    vedi d’intorno come tutto è bello,
    senti la cincia come già cinguetta.

    Non attardarti in dubbi ed in timori,
    ti chiamano i profumi più leggeri,
    t’invocano i color di tutti i fiori,
    ti spingono amorosi desideri.

    Eppure, ahimè, la fresca Primavera
    tra poco se ne andrà con le sue rose,
    e resterà nell’ora della sera
    un’appassita pioggia di mimose.

    Vieni, la luna coprirà il tuo viso
    e lo rivestirà della sua luce,
    argento darà ancora al tuo sorriso
    che al paradiso invita e riconduce.

    Presto, dunque, amor mio. Già l’usignolo
    canta tra i rami e piange: chissà dove…
    Chissà dove… ripete il cuore solo
    ed a cercare il tuo, più ardente, move.

    Vuotiam lo stesso calice dorato,
    poiché la notte già spinge e rinserra
    ciò che ha già scritto l’immutabil fato:
    la vuota coppa, poi, volgiamo a terra…

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