Pasquale Balestriere
su
QUINTO ORAZIO FLACCO
L’uomo e lo scrittore
Esistono scrittori nella storia della letteratura di tutti i tempi del cui riconosciuto magistero l’umanità mai potrà privarsi senza pericolose involuzioni. Essi hanno da insegnare qualcosa all’uomo di qualsiasi epoca storica.
Per dirla con S. Battaglia ,«il concetto di scrittore classico risale alla stessa antichità, in quanto designava l’autore che si leggeva nella scuola, nella classe corrispondente. E pertanto acquistava valore distintivo ed esemplare».[1]
Uno di questi scrittori, e certamente non il minore, è Quinto Orazio Flacco.
Venosa ( 65 a. C.) lo vide nascere, Roma (8 a. C.) morire. Il padre era un liberto (libertino patre natum, dichiara più volte il poeta nei suoi scritti) e amò il figlio fino al punto da farlo studiare addirittura a Roma, a prezzo di gravi sacrifici. D’altro canto Orazio ricambiò profondamente l’affetto paterno e non rinnegò mai la sua umile origine. Studiò Andronico e i lirici greci, che si sforzò di superare; e forse, a suo parere, attinse lo scopo, fatta eccezione per Pindaro, al quale si dichiara manifestamente inferiore[2].
Il suo ritratto: corporis exigui, praecanum, solibus aptum, / irasci celerem, tamen ut placabilis essem[3]. Dunque era «piccolo di statura, canuto prima del tempo, abbronzato, pronto all’ira ma egualmente pronto a placarsi»; altrove si definisce levior cortice et improbo / iracundior Hadria[4], «più instabile del sughero e più irascibile dello sfrenato Adriatico»; ancora, scherzosamente, pinguem et nitidum bene curata cute… / … Epicuri de grege porcum[5], «grasso e lustro per la pelle ben curata… porco del gregge di Epicuro».
Basso, bruno, tendente alla pinguedine, instabile, iracondo: uno studioso di antropologia vedrebbe in lui il classico tipo mediterraneo; e dell’uomo del sud Orazio ebbe la fantasia, la potenza evocativa, la volontà di affermarsi a dispetto della sua umile origine; sicché, quando la fama gli arrise, spesso nei suoi componimenti affermò che, pur essendo nato ed allevato «non certamente nell’abbondanza» (in tenui re[6]), era riuscito a raggiungere la posizione di cui godeva esclusivamente per le sue qualità, per il suo valore: cosa non facile nella Roma di allora. È il 38 a. C. l’anno del discrimine, del cambio di condizione: lo scriba quaestorius Quinto Orazio Flacco abbandona la sua grama vita di piccolo impiegato e viene accolto nel circolo e tra gli amici di Mecenate. Ora che si è liberato dal peso e dall’umiliazione di un lavoro mediocre e mal pagato, ora sì che potrà alimentare il sogno di spiegare le ali dell’arte, di diventare poeta lirico: Quodsi me lyricis vatibus inseres / sublimi feriam sidera vertice[7], dice a Mecenate, sollecitandogli quasi il riconoscimento di tale status. Davvero un bel passo avanti -un successo!- per il giovane Orazio che, dopo aver combattuto a Filippi (42 a. C.) dalla parte di Bruto e Cassio, si era visto sequestrare i beni di famiglia a Venosa. E gli era andata proprio bene, al figlio del liberto, se in solo quattro anni era riuscito, per i meriti che gli venivano dai suoi scritti, a conquistare l’amicizia di Mecenate (che gli donerà una villa in Sabina) e poi la benevolenza dello stesso Ottaviano Augusto.
La produzione poetica del Venosino si esprime attraverso quattro momenti che danno la misura del suo modo di vedere la realtà, della grandiosa e geniale sintesi poetica, delle sue notevolissime capacità espressive: le Satire e gli Epodi (opere quasi coeve), le Odi e le Epistole.
Non intendo, in questa sede, esaminare analiticamente la produzione oraziana, ma solo enuclearne elementi altamente significativi, attuali e universali. Ciò che veramente mi interessa è delineare una figura di Orazio non dico realistica, ma almeno probabile.
Dei Sermones (o Satire) – in tutto 18, in due libri, scritti dal poeta tra i 30 e i 35 anni e pubblicati tra il 35 e il 30 a. C. – colpisce, a una prima lettura, il tono familiare, discorsivo, ricco di bonomia ma anche urbanamente ironico, leggermente graffiante. Altri, prima di lui, si erano serviti della satira come di un corpo contundente e i loro j’accuse si erano abbattuti sui malcapitati destinatari di tanta attenzione con la violenza di un colpo di maglio. Invece Orazio castigat ridendo mores, non muove attacchi ad personam; nessuno camminerà per le strade di Roma demissis auriculis[8] «con le orecchie abbassate», perché la satira di Orazio non provoca traumi esteriori, ma solo dramma intimo e, per di più, esclusivamente in uomini tesi ad un arricchimento morale e spirituale. Satira di costume, arguta, essenziale, nel contenuto e nell’espressione: già si intravede in essa quel culto tutto oraziano della parola, intesa come verbum o lògos, strumento divino, atto a significare tutto ciò che mente umana possa immaginare.
I temi trattati nelle Satire sono attinti dalla vita d’ogni giorno: riguardano il disprezzo delle ricchezze (ad Orazio basta una casetta, un piccolo pezzo di terra in cui scorra una fonte d’acqua perenne, un po’ d’alberi; e, quando Mecenate gli dona una villa in Sabina, con commossa sincerità, ringrazia: hoc erat in votis: modus agri non ita magnus, / hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons / et paullum silvae super his foret[9]), l’incontentabilità degli uomini (tema che ricorre anche in altri componimenti oraziani), il dovere dell’indulgenza reciproca, ecc. L’autore, da amico discreto, avverte: est modus in rebus, sunt certi denique fines / quos ultra citraque nequit consistere rectum[10]: «un giusto mezzo esiste, dunque, in ogni cosa; vi sono insomma limiti ben determinati, oltrepassando o non raggiungendo i quali non può trovarsi il giusto». È qui, a mio parere, che Orazio si dimostra poeta spiccatamente classico: nel senso della misura e, conseguentemente, nell’armonia tra materia e spirito è da ravvisare il segno di una vera humanitas aliena da estremismi clamorosi ma irrazionali.
L’irruenza giovanile del poeta, l’inquietudine e, a volte, la sua ira trovano testimonianza negli Epodi o Iambi, scritti probabilmente dal 41-40 al 31-30: sono 17 componimenti, alcuni a sfondo politico, altri dedicati a Mecenate, altri ancora contraddistinti da attacchi personali. Questo tipo di poesia affonda le sue radici nella situazione di malessere, di delusione, di angoscia e di ribellione successiva alla battaglia di Filippi, quando svolgeva il modesto incarico di scriba quaestorius. Ce ne dà testimonianza il poeta stesso: Unde simul primum me dimisere Philippi, / decisis humilem pinnis inopemque paterni / et laris et fundi paupertas impulit audax / ut versus facerem[11]. Dunque fu la povertà che lo spinse a scrivere versi. Lo fece con linguaggio vivido, immediato, spesso crudo e realistico, talvolta con accenni triviali[12], con qualche ridondanza, torbidezza o eccesso di troppo. Sembra quasi impossibile, per l’accentuata differenza di tono, che Satire ed Epodi siano stati composti quasi contemporaneamente: insomma, il poeta dei Giambi non sembra davvero essere anche l’autore delle Satire. E tuttavia il tono più acceso spesso si acquieta in sapidi commenti. Fortuna non mutat genus[13] chiosa bonariamente Orazio, riferendosi a un ex schiavo che ora incede per la Via Sacra, gonfio di insolenza e di boria: « I beni di fortuna non mutano l’origine dell’uomo». E qui ritroviamo l’Orazio saggio e arguto dei Sermones.
La sua lirica raggiunge livelli insuperabili nelle Odi o Carmina (103 componimenti suddivisi in quattro libri, i primi tre pubblicati nel 23, il quarto nel 15). Eppure, da tanta perfezione, certamente non solo formale, alcuni critici sono stati capaci unicamente di trarre l’immagine di un Orazio elegantissimo ma superficiale, freddo, lucido, quasi senz’anima. A mio parere, mai errore fu più clamoroso. È ben vero che il Venosino, nel suo verso, crea il vuoto attorno alla parola, offrendo ad essa terso nitore e possibilità di ampie e molteplici risonanze, ridonando al verbum tutto il suo vigore e valore espressivo, oltre al fascino evocativo; sicché la sua sobrietà stilistica, la preminenza nei suoi versi di sostantivi e verbi, l’essenzialità dell’aggettivazione, il parco uso di congiunzioni creano un’armonia inimitabile. La quale poi, a ben guardare, costituisce il segno della vera arte, a patto che non sia disgiunta dalla sincerità dell’ispirazione poetica, dal sentimento profondo della vita e della morte. E allora? Orazio superficiale e freddo? Andiamo a vedere: Eheu fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni nec pietas moram / rugis et instanti senectae / adferet indomitaeque morti / … / visendus ater flumine languido / Cocytos errans et Danai genus / infame damnatusque longi / Sisyphos Aeolides laboris. / Linquenda tellus et domus et placens / uxor, neque harum quas colis arborum / te praeter invisas cupressos / ulla brevem dominum sequetur.[14] «Ahimè, Postumo, Postumo, rapidi scorrono gli anni, né la devozione apporterà indugio alle rughe della vecchiaia incalzante e neppure alla morte indomabile … Bisognerà visitare l’oscuro Cocito, che scorre tortuoso con pigra corrente, e la stirpe infame di Danao, e Sisifo, figlio di Eolo, condannato all’eterna fatica. Dovremo lasciare la terra, la casa e la bella moglie, e di questi alberi che tu coltivi non uno seguirà te, signore per breve tempo, tranne l’odioso cipresso». Per non dire poi del lapidario pulvis et umbra sumus e della dolente consapevolezza della precarietà della vita umana dichiarata dall’interrogativa Quis scit, an adiciant hodiernae crastina summae / tempora di superi?[15] «Siamo polvere ed ombra. Chi può sapere se gli dei superni aggiungeranno ore future alla somma degli anni da noi vissuti fino ad oggi?»
La verità è che il pensiero della morte è dominante nella mente del poeta, anche se egli si sforza di relegarlo al livello inconscio della sua psiche. Orazio sa che, a ben esaminare la vita, esistono motivi per lasciarsi andare a un cupo pessimismo; ma, intriso com’è di sani precetti epicurei, che indicano come bene supremo una condizione di aponìa e atarassìa, si crea e delimita un mondo magari ideale e rarefatto, ma senza dubbio rispondente alle sue aspirazioni di equilibrio e di armonia; pertanto rifugge dal dolore in tutte le sue manifestazioni. In questa chiave, mi pare, sono da interpretare la poesia e la personalità oraziane. Intenderemo, così, rettamente anche i motivi poetici delle Odi, attribuendo ad essi il giusto valore.
L’amore è uno dei temi ricorrenti dei Carmina. Un amore pacato, sereno, trattato in superficie: si direbbe che Orazio non abbia mai amato veramente, intensamente. Anche qui scopriamo, perspicua, una traccia del suo equilibrio, giacché egli sa bene che la passione profonda genera anche dolore; e, dunque, più che amare una donna, ne apprezza la femminilità, la bellezza estetica, la discrezione, magari la sensualità e, infine, la previdenza, se gli fa trovare una tavola imbandita e dell’ottimo vino. Le donne? Lidia, Cinara, Fillide, Cloe, Lice, Leuconoe … A quest’ultima dedica un carme bellissimo: Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi / finem di dederunt, Leuconoe, nec Babylonios / temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati! / Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, / quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare / Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi / spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida / aetas: carpe diem quam minimum credula postero.[16] «Non indagare – è vietato saperlo!- quale termine di vita gli dèi abbiano assegnato a me, quale a te, o Leuconoe, e non mettere alla prova i calcoli babilonesi. Quanto è meglio adattarsi a qualunque cosa accadrà! Sia che Giove ci abbia assegnato più inverni sia che ci abbia concesso come ultimo questo che ora sfianca il mare Tirreno contro gli opposti scogli, sii saggia, mesci il vino e, poiché breve è lo spazio della vita, taglia via una lunga speranza. Mentre stiamo parlando è già fuggito il tempo invidioso: godi l’oggi, confidando il meno possibile nel futuro.»
In quest’ode, piccolo capolavoro di umana saggezza, sono individuabili vari elementi della poesia oraziana (sapias; carpe diem, ecc.). A me particolarmente interessa il vina liques, perché quello del vino è un altro motivo che ricorre costantemente non solo nei Carmina: il vino, racchiuso magari in una Graeca testa [17] («anfora greca») che è pia[18], cioè benefica, assume per il nostro autore notevole importanza in quanto apportatore di ebrietas, ebbrezza che presumibilmente è l’unica forma di salvezza dalle cupe meditazioni e dall’amarezza della vita: quid non ebrietas dissignat? Operta recludit, / spes iubet esse ratas, ad proelia trudit inertem, / sollicitis animis onus eximit, addŏcet artis.[19] «Che cosa non dissuggella l’ebbrezza? Rivela ciò che è nascosto, realizza le speranze, spinge il poltrone alla battaglia, sgrava gli animi dalle preoccupazioni, perfeziona nelle arti.»
Orazio dovette avere buona conoscenza di vini oltre al vile Sabinum, sono degni di essere ricordati i vini pregiati o “nobili”: il Cecubo, il Caleno, il Massico, il Lesbio, l’egiziano Mareotico, il Formiano, il Falerno ( un vino -quest’ultimo- che si produce anche oggi, ma ne ignoro il grado di parentela con l’antico, se non per il territorio in cui si produce ch’è lo stesso).
Merita almeno una breve riflessione il tema del carpe diem, oggetto di interpretazioni troppo spesso corrive e banali, se non addirittura fuorvianti. Ma se si riporta l’invito al contesto della visione oraziana della vita, non si farà fatica a capire che il carpe diem non è esortazione smodata e sguaiata a godere platealmente l’attimo, ma sussurrato consiglio a vivere piacevolmente e saggiamente la vita, attimo per attimo. Dell’ ἡδονή (piacere, felicità) epicurea egli preferisce -e cerca di conseguire o realizzare, addolcendolo e sfumandolo secondo il suo costume- l’aspetto catastematico, ossia un tipo di piacere stabile, duraturo che ha come elementi costitutivi serenità d’animo (atarassìa, aponìa) ed equilibrata adesione alla vita, della quale bisogna sapersi accontentare senza brame eccessive e senza preoccupazioni per il futuro, coltivando il senso della misura e insieme cogliendone gioie e dolcezze.
Il poeta, parco nella scelta degli amici, nutrì particolare affetto per Mecenate, Virgilio, Vario, Tibullo. Pertanto importanza notevole ha nei suoi carmi il tema dell’amicizia che è sostanziata di sincerità, di serenità e umanità. Appunto ad un amico, Pompeo Varo, è dedicata un’ode molto nota in cui Orazio rievoca la battaglia di Filippi, la fuga e il poco dignitoso abbandono dello scudo: per quest’ultimo particolare, autentico tòpos poetico, si ricordi Archiloco: ᾿Ασπίδι μὲν Σαίων τις ἀγάλλεται ἣν παρὰ θάμνῳ | ἔντος ἀμώμητον κάλλιπον οὐκ ἐθέλων.| … ἀσπὶς ἐκείνη | ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω [20] «Qualcuno dei Sai va orgoglioso del mio scudo, arma irreprensibile che io abbandonai, contro la mia volontà, presso un cespuglio… Ma quello scudo vada alla malora! Me ne procurerò, in seguito, uno non peggiore»; e Alceo: Ἀλκαῖος σόος … | ἐς Γλαυκώπιον ἱερὸν ὀνεκρέμασσαν Ἄττικοι [21] «Salvo è Alceo…/ ma gli Ateniesi hanno appeso le sue armi nel tempio della Glaucopide»; e, ancora, Anacreonte: ἀσπίδα ῥιψας ποταμοῦ καλλιρόου παρ’ὄχθας [22] «avendo gettato lo scudo nell’onde d’un fiume dalla bella corrente». Anche il figlio del liberto, meditabondo, dichiara: Tecum Philippos et celerem fugam / sensi relicta non bene parmula[23] «Con te io provai Filippi e la rapida fuga, abbandonato non dignitosamente lo scudo»; nella litote non bene si può ravvisare un pizzico (non di più!) di ironia e di amarezza.
Dalla consapevolezza di aver lasciato ai posteri una grande opera di poesia erompe il carme 3, 30: Exegi monumentum aere perennius; e poi: Non omnis moriar multaque pars mei / vitabit Libitinam. «Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo… Non morrò interamente ma gran parte di me eviterà Libitina», ossia la morte. È tempo, in questo quadro complessivo, di passare alle epistole, anche se la penna vorrebbe ancora indugiare sugli infiniti spunti di poesia e argomenti di riflessione offertici dalle Odi.
Le Epistole rappresentano la fase più matura della’arte oraziana: 23 componimenti pensosi e profondi, non privi di un sottile umorismo, composti tra il 23 e il 13 a. C. e raccolti in due libri, si riallacciano alle Satire per il tono garbato e discorsivo, per il linguaggio familiare e per la consueta pacatezza; inoltre un lirismo diffuso, una perfezione formale evidente e la saggezza di sempre indicano le Epistole come indiscutibile capolavoro. Da esse trarrò un solo insegnamento o, se si vuole, suggerimento: Inter spem curamque, timores inter et iras / omnem crede diem tibi diluxisse supremum: / grata superveniet, quae non sperabitur hora.[24] «Tra speranza ed affanno, fra timori ed ire, fa conto che ogni giorno sia spuntato per te come ultimo: gradita ti giungerà l’ora che tu non avrai sperato.»
Se, a questo punto, qualcuno chiedesse che cosa questo scrittore, vissuto oltre duemila anni fa, può “dire” all’uomo del ventunesimo secolo, si potrebbe rispondere che l’insegnamento oraziano ci inonda di quella che il Flora definisce “classicità morale e verbale”: alla nostra epoca, paurosamente ricca di vacua verbosità e di scarsissime realizzazioni, Orazio dà una lezione di stile con il suo dettato linguistico essenziale, scarsamente aggettivato, proprio, sicuro; a noi che, nevrotici ed incerti, ci affanniamo per conseguire misere conquiste personali e benessere materiale, a noi schiavi di un tenore di vita standardizzato e banale, suggerisce di costruirci una dimensione più vera, più ricca, più armonica, più umana. E questa nostra realtà così frenetica egli ci esorta a guardare con tolleranza, arguzia e, magari, con ironia; e se una tavola imbandita e un buon bicchiere di vino possono servire a sgravarci dalle pene quotidiane, siano i benvenuti.
Per concludere, alcuni versi di Voltaire (Épître à Horace), che ben rivelano la fervida ammirazione dell’illuminista francese per la grandezza del poeta latino:
J’ai vécu plus que toi, mes vers dureront moins,
Mais au bord du tombeau je mettrai tous mes soins
A suivre les leçons de ta philosophie,
A mépriser la mort en savourant la vie / … /
Avec toi l’on apprend à souffrir l’indigence,
A jouir sagement d’une honnête opulence,
A vivre avec soi même , à servir ses amis,
A se moquer un peu de ses sorts ennemis
A sortir d’une vie ou triste ou fortunée,
En rendant grâce aux dieux de nous l’avoir donnée[25].
Pasquale Balestriere
Note
[1] Salvatore Battaglia, Le epoche storiche della letteratura italiana, Napoli, 1965, p.23
[7] id., Carm, 1, 1, 35-36 ( «Che se tu mi porrai tra i poeti lirici, solleverò il capo fino a toccare le stelle»).
[9] ibid., 2, 6, 1-3 («Era questo il mio desiderio:un pezzo di terreno non troppo grande, dove ci fosse l’orto e, vicino alla casa, una fonte d’acqua perenne e, oltre a questo, un po’ di selva»).
[11] id., Epl. 2, 2, 49-52 («Appena mi congedò Filippi, con le ali tarpate, fu la povertà che rende audaci a spingere me ormai ridotto in miseria e privato del podere e della casa paterna a scrivere versi.»)
[14] id., Carm., 2,14, 1-4 e 17-24
[16] ibid., 1, 11
[17] ibid., 1, 20, 2
[18] ibid., 3, 21, 4
[19] id., Epl., 1, 5, 16-18
[20] Archil., fr. 6 Diehl
[21] Strab., XIII, 1, 38
[22] Anac., fr. 381b PMG
[23] Hor., Carm., 2, 7, 9-10
[24] id., Epl., 1, 4, 12-14
[25] Epistola a Orazio: «Io ho vissuto più di te, i miei versi dureranno meno / ma ai bordi della tomba io metterò tutta la mia cura / nel seguire le lezioni della tua filosofia / nel disprezzare la morte assaporando la vita /… / Con te si apprende a sopportare l’indigenza, / a gioire saggiamente di un’onesta ricchezza, / a vivere con se stessi, a servire i propri amici / a ridersi un po’ dei propri casi avversi / a uscire da una vita o triste, o fortunata / rendendo grazie agli dèi di avercela data. »
Una risposta
Caro Pasquale, sinceramente grazie per questo tuo magnifico scritto su Orazio: chiaro, esauriente, sentito. Non provengo da studi classici. Mi sono laureato in Fisica e ho sempre almanaccato con equazioni e numeri. Apparentemente una materia arida, delimitata, che non permette – come in genere si crede – voli della fantasia. Nulla di più inesatto, poiché la bellezza e l’eleganza di certe equazioni matematiche che tentano di andare alla radice della natura delle cose e riassumerne il significato, ci suggerisce, come diceva Srinivasa Aiyangar Ramanujan, che esse rappresentano “il pensiero di Dio”. Ma Orazio ho cercato di leggerlo, per quel suo equilibrato (raramente abbandonato…) senso della vita e delle passioni, per l’accettazione delle leggi della natura e del tempo, a cui nessuno sfugge. Senza drammi, senza disperazione, ma con consapevole e profonda dignità, che è tutto fuorché rinuncia e rassegnazione. La tua bella analisi lo conferma.
Mi permetto di riportare qui l’ode alla donna amata, Leuconoe, dalla candida mente, che ho cercato di mettere in rima, probabilmente senza trasfondervi una sola scintilla dell’originale.
A Leucònoe
(Libera trasposizione in versi)
Non vale domandar qual fin riserva
a te, a me, all’uman seme il fato,
o bella Leuconoe. Non creder serva
legger degli astri di Caldea lo stato.
E prendi ciò che passa il sommo Giove,
sia ch’altri inverni a noi mandi il destino
o che questo sia l’ultimo, che move
l’acque al Tirreno mar, nel repentino
schiumar dell’onde alla rocciosa costa.
Tu resta saggia, e mentre versi il vino
ogni speranza dal futuro scosta,
che sol nell’immediato è il tuo destino.
Parliamo, e il tempo invido ci divora;
fuggito è già da te, da me, lontano.
Cogli l’attimo, goditi ogni ora:
confidar nel domani è stolto e vano.