PASQUALE BALESTRIERE
UNO STRANO AMORE
(A proposito del romanzo Per amore, solo per amore di P. Festa Campanile)
Premio Campiello 1984, il romanzo di Pasquale Festa Campanile Per amore, solo per amore, edito da Bompiani nel settembre 1983, si propone, come annota il prefatore Carlo Bo, di “svelarci un Giuseppe probabile, fuori dalle poche luci che la storia sacra ci consente e immerso nel quotidiano” (la narrazione, come si può intuire, riguarda S. Giuseppe, padre putativo di Gesù, e la sua “sacra famiglia”); e l’autore poteva solo raccontare – sono ancora parole di Bo – “la storia di Giuseppe come una storia comune e riempire i vuoti del mosaico, le tessere mancanti con il soccorso delle sue doti psicologiche, immaginando quali siano state le reazioni naturali di un uomo, anche se chiamato a soddisfare una parte umanamente difficile da sostenere”; infine: “Festa Campanile non interpreta, racconta un amore, un matrimonio e alla fine introduce lo stesso Gesù in questa che a bon diritto deve essere chiamata una storia familiare”; e l’autore, per far questo, si è servito delle sue doti psicologiche “con discrezione, senza mai sfiorare le sabbie mobili della dissacrazione e dell’empietà”.
Vediamo ora se è tutto vero ciò che afferma l’illustre critico.
Ma prima ancora, o nel contempo, cerchiamo di spiegarci il senso dell’umanizzazione (perché di questo si tratta) di personaggi agiografici – Gesù, Giuseppe, Maria – e della loro vicenda.
Generalmente un’opera letteraria risponde a un orizzonte d’attesa; e chi scrive sceglie, più o meno consapevolmente, il pubblico a cui rivolgersi.
Ora, quando i valori spirituali e religiosi sono in declino o addirittura estranei, come in questa nostra epoca; quando la società è volta, in modo quasi esclusivo e nevrotico all’acquisto, al possesso e al consumo di beni materiali, al soddisfacimento bieco e brutale di ogni sorta di bisogno fisico, non può certamente ipotizzarsi un ampio orizzonte d’attesa per argomenti e contenuti che attengano alla sfera dello spirito. In questo contesto, se uno scrittore -nella fattispecie Festa Campanile- vuol cimentarsi nella rappresentazione di una vicenda come quella della “sacra famiglia”, è indotto ad allestire un processo di umanizzazione (eccola, la parola!) di fatti e personaggi: è lo scotto da pagare per raggiungere certi risultati o, comunque, una fetta più ampia di pubblico. Umanizzazione come possibilità di avvicinarsi al lettore e, però, anche materializzazione e mercificazione.
Posto che questa sia l’unica strada per rendere credibile (e sensibile) ciò che è agiografico o spirituale o addirittura divino, occorre dosare criteri e limiti di questo processo di umanizzazione: operazione molto rischiosa, dai precari equilibri e dagli incerti confini, che genera sospetti e diffidenze; ma essa è richiesta, quasi pretesa, e perciò determinata, dall’odierna società in cui ogni cosa deve essere dimensionata al suo corto vedere.
Il romanzo di Pasquale Festa Campanile corre tutto intero questo rischio, nel senso che, se si va a indagare in che cosa consista la suddetta umanizzazione, si scoprirà che essa è realizzata trasponendo nel quotidiano, spesso con discutibile gratuità, figure le quali, proprio per questo, risultano stravolte nell’immagine che, su rotte agiografiche o storiche, è giunta fino a noi. Il pericolo (non troppo) latente di tali operazioni è tutto qui: nel creare cioè, con fastidiosa contaminatio, personaggi del tutto nuovi e ibridi che non solo non rispettano tradizione e storia, ma neppure ne sono veramente fuori; sicché nel corso della lettura di questo romanzo si rinnova continuamente la sgradita sorpresa di scoprire un’immagine inedita e non necessaria dei personaggi che mal s’accorda con quanto noi sapevamo di loro. E il lettore, perplesso, continua a chiedersi se valesse la pena che l’autore operasse tale scelta discutibile.
Se passiamo a riassumere la trama del romanzo e ad analizzare contestualmente le caratteristiche dei personaggi, scopriremo che Giuseppe è un bel giovane, amato dalle donne, e che la sua principale occupazione consiste nel correre dietro alle sottane, anche se ama il suo lavoro di falegname: Rut, Ester, Giuditta, Rebecca, Marta e Anna sono i suoi amori, abbastanza casti per la verità. Tuttavia Anna confida alle amiche che, carino e tenero com’è, se lo mangerebbe spalmato sul pane; di qui l’appellativo “Buono sul pane”(p. 14 e passim) che lo accompagnerà per tutto il romanzo.
Non è da credere, però, che Giuseppe viva in assoluta astinenza sessuale: a Tamar, vedova piacente, dedica buona parte della notte; a causa di lei viene picchiato duramente dai propri fratelli, Zebulon e Manasse, al quale ultimo l’allegra vedovella ha inconsapevolmente ispirato pensieri nuziali. In conseguenza di tale litigio e dell’odio che i fratelli nutrono verso Giuseppe, questi, ricevuta la sua parte di eredità, è costretto a emigrare: se ne va a Nazareth, dove ritrova Maria, ancora bambina, che egli ha già conosciuta a Betlemme e che diviene assidua frequentatrice della sua bottega. Si sviluppa tra l’uomo e la bambina una naturale, affettuosa amicizia, che con il passare degli anni diventerà amore. Non si commetta però l’errore di credere che nel frattempo Giuseppe trascuri altre amicizie muliebri; ma a Nazareth i costumi sono più severi che a Betlemme e, pur se desiderato dalle ragazze, il giovane non ha occasione di avvicinarle. Così compra un cavallo (il segno del successo, paragonabile a una moto potente di oggi o a un’auto di grossa cilindrata) e di tanto in tanto fugge per un giorno a Tolemaide, città prodiga di piaceri; ma poi riesce a stabilire nella stessa Nazareth un intenso rapporto con la vedova Dorotea.
Il tempo passa: Maria è ormai divenuta una bellissima adolescente e non frequenta più la bottega di Giuseppe. Quando egli la rivede, scopre di non nutrire più affetto paterno per lei, ma amore: per lei si azzuffa col gigantesco Gioele, da lei viene sonoramente schiaffeggiato per aver pubblicamente dichiarato di non volerla sposare. Eppure Giuseppe e Maria si amano. Così cominciano a incontrarsi di nascosto nell’orto di Cleofa, zio di lei, al quale il giovane rivolge ben presto richiesta ufficiale di sposare Maria.
Un fatto nuovo e improvviso viene a turbare la felicità del falegname: Maria vuole andare a Gerusalemme per assistere una parente, Elisabetta, che, già avanti negli anni, sta per partorire; e ci va in compagnia dello zio e contro la volontà del fidanzato. Ritorna dopo diversi mesi e si rifiuta di vedere Giuseppe. Intanto trapela la notizia: Maria è incinta!
Giuseppe è annichilito: poi esplodono in lui furia e gelosia. Rompe una mascella a Hur, galletto vanesio, tenta disperatamente (e comicamente) di scoprire il colpevole della gravidanza di Maria, immagina di essere apostrofato con l’epiteto di “cornuto” (p. 120), impreca contro la stessa fidanzata definendola – in absentia, però – “figlia di un cane” (p.116), si getta di nuovo, per una notte, tra le braccia di Dorotea. Infine riesce a parlare con Maria, la quale gli dichiara immutato amore ma insieme lo prega di non domandarle null’altro. I due finiscono per sposarsi e trascorrono felici i primi tempi del matrimonio, con Maria che gioca scherzi innocenti a destra e a manca, dimostrandosi moglie in ogni modo perfetta. Di tanto in tanto in Giuseppe riaffiora la gelosia e dubita di Maria. Talvolta, benevolmente, preferisce ritenere che ella sia stata oggetto di violenza carnale: sicché comincia a frequentare l’osteria, ubriacandosi per sfuggire ai dubbi; e in un’occasione torna a casa inaspettato, allo scopo di sorprendere la moglie (cioè, non dimentichiamolo, la Madonna) tra le braccia dell’amante. Anche Maria conosce le fitte della gelosia quando Maria di Daniele, “donna leggera e generosa del suo corpo” (p. 143), si offre, neppure velatamente, a Giuseppe che sembra quasi voglia cedere al fascino di lei.
Il matrimonio di questa strana coppia – occorre chiarire – non è stato consumato: l’uomo, insomma, non è stato mai accolto nel letto della moglie, la quale, mossa a pietà dall’astinenza forzata dell’ex donnaiolo, gli propone di andare “con un’altra donna, magari a Tolemaide” (p. 146). Giuseppe rifiuta. La narrazione prosegue con il viaggio della famiglia a Betlemme per il censimento ordinato da Erode: lì nasce Gesù “maschio, rosso e arrabbiato” ( p. 155), dopo un parto breve ma dolorosissimo, durante il quale “Maria… gridava come un animale, senza potersi trattenere” (p.156).
Poi la fuga in Egitto, l’infanzia e la fanciullezza di Gesù; per Giuseppe un tranquillo (ma casto!) ménage, interrotto da accessi di desiderio sessuale e da qualche incomprensione con Maria a proposito dei rapporti con Gesù; il quale, peraltro, assume talvolta atteggiamenti singolari, originali e quasi provocatori, incomprensibili al padre.
La storia si chiude con la morte di Giuseppe, il quale, poche ore prima di esalare l’ultimo respiro, ammiccando, suggerisce al figlio: ”Non ti sposare” (p. 207). Sono le sue ultime parole.
Questa trama, pur nei limiti della sinossi, mostra con chiarezza i difetti del romanzo.
In primo luogo, il processo di umanizzazione: esso è condotto con mano incerta, con eccessive concessioni a tinte forti e plebee, con evidenti cadute di stile. A tal proposito si pensi anche alle svariate volte in cui nel corso del romanzo una manesca Maria schiaffeggia uno stupito Giuseppe; il quale non esita a fare lo stesso gesto nei confronti di un Gesù presuntuoso fin quasi all’arroganza. Ma poi si resta interdetti a chiedersi quale sia il senso di tale umanizzazione. Se, com’è detto nella bandella d’apertura, l’autore voleva descrivere “una comune storia di famiglia … un rapporto di coppia calato nella sua contemporaneità, al di fuori del mito, delle suggestioni spirituali e della sua stessa eccezionalità” , altre e ben più stimolanti potevano essere le scelte e le occasioni. Invece di duettare ambiguamente, attraverso suggestioni, allusioni e ammiccamenti, con personaggi, situazioni e ambienti sia pure mitizzati dalla vulgata o dalla stessa storia sacra, lo scrittore avrebbe potuto scegliere di scrivere una storia ex novo, in modo non equivoco e senza grucce bibliche ora da usare ora da mettere da parte a seconda delle circostanze o della convenienza. Stando così le cose, è lecito chiedersi addirittura perché i protagonisti si chiamino Giuseppe, Maria e Gesù se la loro storia (quella descritta da P. Festa Campanile) non ha niente a che vedere con la vicenda che noi conosciamo o se essi sono altro rispetto alle aspettative del lettore.
Perché dunque attingere alla Bibbia personaggi di tal portata e perché tacere aspetti salienti? Perché non fare cenno all’annunciazione, ai magi, agli angeli, alla stella, ecc.? Qui non c’entra la necessità di umanizzare; altrimenti riesce difficile “leggere” poi certe allusioni, ricorrenti nel romanzo, ai miracoli, alla croce e alla stessa divinità di Gesù.
Se si prova a ripercorrere il romanzo dopo aver deposto le chiavi di ogni interpretazione agiografica, ci si rende conto che è l’autore stesso a ricondurre il lettore nell’ambito di tale interpretazione e contesto con vari riferimenti ai Vangeli; se invece ci si pone nella condizione opposta, si ha un’inedita e sgradevole percezione di fatti e figure. La verità è che i nomi dei personaggi e altre scelte affabulatorie (luoghi, avvenimenti, intreccio) instaurano una situazione di riferimenti e analogie, collocano la trama in una sfera di fatti biblici e neotestamentari dai quali non si può prescindere nella lettura dell’opera in questione e con i quali invece bisogna necessariamente confrontarsi per comprenderne il significato. E non si può certamente dire che, in quest’ottica, l’autore abbia fatto un buon lavoro.
Davvero sconcertati lascia poi l’affermazione di Carlo Bo, per la quale l’autore si propone di “svelarci un Giuseppe probabile” (p. 8). Questo è invece un Giuseppe singolarissimo, frutto di una visione tutta personale di Campanile. Personalmente faccio gran fatica ad accostare a quello delle Scritture questo Giuseppe fin troppo umanizzato, che è attratto con forza dalle donne anche dopo il matrimonio (“subisce il fascino delle giovinette …, apprezza … l’aprirsi dei fianchi sotto la cintura” p. 163), che ritiene sortilegio, magia o scherzo i miracoli di Gesù, che lo schiaffeggia quando è disobbediente o maleducato, che è roso dal tarlo del sospetto e della gelosia quasi fino ai suoi ultimi giorni, che è scosso profondamente da intenso desiderio sessuale, che frequenta i postriboli, che impreca pesantemente contro Maria, che è invidioso di Gesù per le attenzioni che la madre gli rivolge.
E Maria è in questo romanzo una madre dolcissima, che coccola il figlio e si mostra sempre troppo pietosa, accondiscendente e permissiva nei suoi confronti. Ma, più dura di un macigno, conserva il mai svelato segreto che il geloso Giuseppe bramerebbe conoscere con tutte le sue forze: purtroppo il poverino è condannato a morire senza neppure il conforto di un’annunciazione.
Lo stesso Gesù è spesso irriverente o insofferente nei confronti di Giuseppe, quasi ne volesse sottolineare il ruolo di padre putativo. E, per di più, spesso assume un atteggiamento da saccentello che infastidisce: addirittura, nella sua smania di far bene, diventa così insistente nei confronti di sei derelitti, feccia della società di Nazareth, per costringerli a lavarsi, da rasentare la violenza morale.
E Bo, nella prefazione, afferma che Festa Campanile non ha mai sfiorato “le sabbie mobili della dissacrazione e dell’empietà”!
Se all’autore si può risparmiare l’accusa di empietà, altrettanto non si può fare per quella di dissacrazione. Se dissacrare significa svuotare di ogni sacertà o eccezionalità vicende, istituzioni e personaggi, riducendoli ad assoluta e quotidiana normalità, ebbene questa operazione è fin troppo praticata in tutto il romanzo, con l’aggravante di un eccessivo svilimento di fatti e personaggi, conseguito con l’adozione di scene e toni forti e crudi, in cui è facile cogliere un narcisistico compiacimento.
È il registro dissacratorio l’altro grande limite del romanzo: perché la dissacrazione è anche sregolata e approssimativa. Peccato, perché, al di là di questi difetti, l’autore rivela apprezzabili doti di scrittura. In particolare il linguaggio è piano e disteso, spesso modellato su quello dei testi sacri dei quali conserva semplicità, essenzialità e forza. Nella rappresentazione dei personaggi, poi, Festa Campanile offre spunti di grande originalità e rivela capacità e perizia: essi sono perspicui, quasi solari, forse troppo schiacciati sotto il profilo psicologico, ma ben contesti con l’ambiente umano e naturale che li circonda; e tuttavia improbabili, perché non vivono di vita propria, ma ammiccano e rimandano ad altri personaggi storico-biblici (e cioè ai veri Giuseppe, Maria e Gesù); e dunque essi sono, proprio per questo, inopportuni e velleitari.
L’ultima nota è per Socrates, voce narrante umile e dimessa, che a volte non si avverte perché si confonde con quella dello scrittore, più forte e accesa; ma poi risorge e, senza sgomitare, rioccupa il suo spazio.
Pasquale Balestriere
4 risposte
Caro Pasquale, complimenti per questo tuo chiarissimo scritto.
Se ho ben capito, nel cercare di riscrivere un mito, appunto “demitizzandolo”, con la pretesa o la sola intenzione di umanizzarlo, si rischia grosso. Si rischia, cioè, di ucciderlo, svuotarlo dei suoi contenuti più vitali – che sono quelli fantastici o favolistici – abbassandolo alla stregua di una buffa e ordinaria “piece” teatrale, togliendogli quasi completamente ogni attributo poetico ed emozionale. Specie poi se l’argomento e i personaggi appartengono alla storia della religione, che pur non riguardando molti di noi, è tuttavia nostro patrimonio comune.
La realtà, il banale del quotidiano, non si addice agli Dei.
Un caro saluto.
Mah…io non sono una ” baciapile”, ma codesto romanzo non mi ” sconfinfera”. Dove vuole andare a parare ? Lo scopo quale sarebbe? Incuriosire e vendere? E sulla base di cosa? Dell’ “insolito-inaspettato” e basta perché mi pare che per il resto sia un’accozzaglia di puttanate fra il banale, il violento e il quasi-pruriginoso. Da quel che leggo in questa analisi, particolareggiata e decisamente interessante, mi pare che il lavoro sia un ibrido : vorrebbe essere comico, ma , a parer mio, non ci riesce anche perché calca troppo la mano , forse vorrebbe scandalizzare, ma è talmente strambo che , io almeno, non mi scandalizzo per niente e credo che nemmeno voglia essere blasfemo- convinto perché è talmente marcato da essere “non credibile”. E’ una storia bastarda … e credo che mi annoierebbe mortalmente. Sarà che sto leggendo “Ipotesi su Gesù” di Vittorio Messori che è di tutt’altro taglio e impegno, ma per me se Festa Campanile faceva festa per davvero e guardava la televisione era meglio.
Se il mito è l’iperbole della realtà ( non di rado fino a snaturarla), il “sacro” è la forma più estrema di mitizzazione.
Le ragioni del mito e quindi anche del sacro, sono di ordine etico e, in definitiva, estetico.
Di fronte a tali ragioni di aprono di buon grado molte porte dell’inverosimile. Ma qui il discorso si amplierebbe a dismisura.
Restando all’argomento in questione, il romanzo di P. Festa Campanile, di cui Pasquale ha fatto un commento acuto e stimolante, appare come un’operazione artistica di umanizzazione di personaggi sacri, un ridimensionamento per molti versi plausibile e anche accettabile.
Accettabile, beninteso, per un laico.
Per una persona che fa della religione un cardine della propria vita, no.
È proprio una questione di principio, tant’è che risulta quasi ozioso porre una distinzione fra empietà e dissacrazione.
Ringrazio gli amici per essere intervenuti con osservazioni e commenti mai banali. Quello che contesto all’autore (e a Carlo Bo, per non averlo sottolineato) è la gratuità di certe scelte. Intendiamoci: l’atto narrativo non deve avere nulla di casuale o di sconsiderato ma deve essere un insieme di sequenze plausibili, di soluzioni verosimili o probabili, senza corsettine in avanti in cerca di facili (ma superficiali e velleitarie) approvazioni dovute a una “contaminatio” ingiustificata sotto tutti i punti di vista.