Pasquale Balestriere, Una questione linguistica

PASQUALE BALESTRIERE

 

 

 

UNA QUESTIONE LINGUISTICA

COME INDICARE UNA DONNA CHE SCRIVE POESIE?  IL POETA, LA POETA OPPURE  LA POETESSA?

 

Premessa

Vorrei ricordare a me stesso, prima ancora che agli altri, che ogni tipo di comunicazione, anche non scritta, richiede – per assolvere il suo compito- l’esistenza di un canone, di un complesso di norme e regole da rispettare, identiche per il mittente e per il destinatario; e, in particolare, il codice-lingua, tra le doti di quella che una volta si chiamava elocuzione (elŏquor, parlo bene), annovera (e pretende) chiarezza e proprietà. Questo perché il linguaggio è stato creato per capirsi. Senza equivoci, possibilmente. Altrimenti è Babele, in barba a tutti coloro -scrittori, glottologi, grammatici- che  si sforzano di perseguire e stabilire un percorso linguistico chiaro, comune, con le necessarie linee di demarcazione.  E invece, nonostante l’esistenza di un codice-lingua, ci sono sempre state persone che, per i motivi più diversi, hanno cercato la trasgressione (e meno male -per loro- che i delitti linguistici passano quasi sempre impuniti) .  Oggi a tale spesso spocchiosa pratica si giunge con maggiore facilità in nome di una (pseudo)libertà di scrittura frequentemente millantata da chi a una seria riflessione sulla lingua probabilmente non ha dedicato nemmeno gli spiccioli del proprio tempo; sicché, nell’uso -scritto o anche orale-  di tale strumento comunicativo capitano fin troppo spesso incomprensioni, fraintendimenti e travisamenti vari, benché comunemente si usi un linguaggio semplificato e standardizzato su un registro medio-basso, con corrispondenti scelte lessico-sintattiche. Perciò – è chiaro- nell’uso del codice-lingua  ognuno, realmente, prima ancora che come vuole, si comporta come può e sa.

La questione                              

La premessa è parte integrante della questione linguistica che sto per esporre.

Tempo fa mi sono imbattuto in un ben fatto articolo, pubblicato su un blog,  che buttava il sasso nello stagno a proposito del termine da usare per indicare una donna che scrive poesie: il poeta, la poeta, la poetessa? L’autrice, Giuliana Lucchini, difendeva, con opportune motivazioni, l’uso corretto della forma  “poetessa”,  parola che risale ad epoca anteriore al 1333 e che da allora ha avuto vita lunga e serena nell’orticello delle patrie lettere e della lingua che le regge e le connota. Fino a quando, alla fine degli anni Ottanta, “la poetessa” viene messa in discussione nell’opera  “Il sessismo nella lingua italiana”, curata da Alma Sabatini (che si avvalse dell’opera di tre collaboratrici ) e promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Commissione per le Pari Opportunità. In questo volume si cerca di ristabilire -giustamente- una parità anche linguistica tra il genere maschile e quello femminile, supplendo alla mancanza di vari termini femminili nella lingua italiana e modificandone altri.  Premetto di essere d’accordo su molte proposte della Sabatini, e quindi per me è giusto scrivere, per esempio, “la deputata, l’avvocata, la preside, l’ingegnera, la giudice, la notaia, la presidente,  la ministra, la pretora,” ecc., adeguando la lingua, laddove deficitaria, alle esigenze odierne; su altre ho qualche dubbio o senso di ripulsa, come si vedrà in seguito.

Dissento però,  in modo profondo e radicale,  su “la poeta” e difendo a spada tratta “poetessa”,  e non solo per la sua bella e lunga storia, ma anche perché non c’è davvero alcun motivo per sostituirla.
Dico innanzitutto, per sgomberare il campo da possibili equivoci, che il termine “poeta” è maschile e registrato come tale da dizionari e vocabolari  e che espressioni come “il poeta Vittoria Colonna”, “il poeta Grazia Deledda”, “il poeta Amelia Rosselli”, “il poeta Alda Merini”, che pure in qualche modo sono in circolazione, risultano del tutto ridicole, grammaticalmente sbagliate, linguisticamente e semanticamente equivoche e non meritano un briciolo di attenzione. Vanno semplicemente evitate.

E passiamo oltre, affrontando in modo preciso e corretto il problema. Sostiene dunque la Sabatini,  che il “latino ‘poeta, -ae’ è di genere maschile, ma della prima declinazione, cui appartengono i nomi femminili”. Rispondo: e che vuol dire? Maschile è, e maschile rimane; anche perché in latino, per il femminile, c’è “poetria, -ae” che i latini derivarono dal greco ποιήτρια,-ας . Ma la studiosa prosegue: “Anche il plurale maschile “poetae” è foneticamente legato al genere femminile. Obietto ancora: e che vuol dire? In latino anche “cerasus”( il ciliegio) o “populus” (il pioppo), giusto per buttar là un paio di esempi, sono foneticamente legati al genere maschile, ma sono nomi femminili a tutti gli effetti. E dunque? Dopo queste  premesse di natura fonetica malamente argomentate e facilmente confutabili, si passa tout court ai suggerimenti: “Si suggerisce quindi di usare ‘poeta’ anche per la donna , che non la diminuisce come il suffisso ‘-essa’ e (…) che, inoltre, ricalca foneticamente la maggioranza dei nomi femminili”. Eliminata automaticamente, per quanto già da me detto, la ‘motivazione fonetica’, resta il vero motivo per il quale si vuole cancellare il termine ‘poetessa’ per sostituirlo con l’insulso, ingiustificato e inutile ‘la poeta’. Eccolo: una sospettata ‘deminutio’, un senso ironico o sarcastico, una connotazione negativa di cui la parola ‘poetessa’ sarebbe portatrice. Ma -ci si chiede increduli- chi ha stabilito ciò e in base a quale riscontro oggettivo? Con quale misuratore (che non sia il gusto o la percezione personale)? E poi di tale negatività ci si accorge solo oggi, dopo settecento anni? Ci voleva la Sabatini con le sue tre collaboratrici per scoprire ‘deminutio’, ironie o negatività che per tanti secoli nessuno, nemmeno i grammatici e i linguisti, avevano mai notate nella parola “poetessa”?

La verità è che nella lingua italiana il sostantivo ‘poetessa’- oggi soprattutto, e proprio come ‘professoressa’, ‘dottoressa’, “studentessa” di più recente conio- non ha alcuna connotazione spregiativa, ma esclusivamente il significato suo proprio. Naturale, reale, positivo. E come mai poi la Sabatini  non vede ironia o “carica negativa” nei tre ultimi appellativi citati? Per i quali, a onor del vero, pure propone soluzioni: al posto di “ studentessa” consiglia  “la studente”, trovandomi sostanzialmente d’accordo; invece di “professoressa” suggerisce una spagnoleggiante “professora” ( qui comincio a sorridere), in luogo di “dottoressa” raccomanda “dottrice” ( e qui mi viene da ridere, anche se “doctrix” fu termine usato da Sant’Agostino nel significato di “maestra”). In ogni caso la gratuità,  e forse addirittura la  pretestuosità,  di certe soluzioni proposte dal gruppo di lavoro della Sabatini (che -sia detto per inciso- non è affatto il Vangelo)  appare lampante ed è ben percepita dal sentire comune dei parlanti che  rifiuta tali soluzioni.  Per cui fortunatamente oggi nessuno si sogna di dire “la professora” o “la dottrice”. Anche “la poeta” non ha sfondato, trovandosi il suo impiego limitato a una minoranza di persone che lo prediligono per i motivi più disparati (gusto personale, ribellismo,  femminismo, ignoranza delle norme elementari della grammatica, ecc.) e talvolta ridicoli (nuovismo, presunzione, protagonismo, esibito libertarismo verbale, vezzo,  saccenteria, ecc.)  mai però suffragato da sostanziali (e sostanziose) motivazioni linguistico-glottologiche. Perché l’Italia, come si sa,   è da qualche tempo il paese delle mode. E qualche volta agli italiani piace gigioneggiare; meno, studiare.

Resta che in questa vicenda, quelle che potrebbero sembrare posizioni d’avanguardia  sono in realtà semplici battaglie di retroguardia. Perciò “POETESSA” -sempre e senza alcun dubbio- per indicare la donna che scriva poesia.

E ora un dato di effettiva “parità” linguistica: “poeta”, al maschile, e “poetessa”, al femminile,  possono essere (e sono) entrambi usati  talvolta con una carica ironica, che però non risiede in un aspetto lessicale o morfologico  ma nell’intonazione che si dà alla parola;  e che si riferisce -almeno nelle intenzioni dell’ironizzante –  non allo status di poeta o di poetessa in generale, ma alle scadenti qualità creative di poetini e poetucoli (con i loro rispettivi femminili).

Conclusione

Ho cercato di dimostrare che una parola con settecento anni di storia non merita di essere giubilata così superficialmente e velleitariamente, senza una vera necessità,  a causa di  percezioni soggettive e tutte da dimostrare o, magari, per semplice gusto personale. E che, per capirsi,  la lingua e le sue regole vanno rispettate. Fino in fondo. Fino a prova contraria. Fermo restando che poi alla fine è sempre l’uso ad avere l’ultima parola.

Tanto,  per dovere di testimonianza.

 

Pasquale Balestriere

 

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3 risposte

  1. Caro Pasquale,
    grazie della tua dotta e circostanziata trattazione delle inclinazioni linguistiche, abbastanza astruse per la verità, di certi glottologi moderni.
    Qui hai trattato, con argomentazione chiara e convincente, dei termini “poeta” e “poetessa” (il poeta, la poetessa), senza trovarci nulla di strano, ma anzi rilevandovi coerenza fonetica e di significato. Ho sempre udito, letto, scritto “il poeta”, “la poetessa”, senza che in me sorgesse mai il dubbio di un qualche errore, imperfezione, abuso di lingua.
    Per me poeta e poetessa sono il maschile e il femminile – come ben dici – di chi scrive, per naturale inclinazione o per mestiere, in poesia. E il femminile di poeta esisteva già qualche secolo prima di Cristo, avendo nella grande Saffo – poetessa appunto – la più alta rappresentante.
    Non si comprende – così è almeno per me – perché si debba tornare su parole accreditate dalla corretta fruizione della lingua e autenticate dall’uso, per tentare, oggi, di sminuirne o mutarne la fonetica e la scrittura; in nome di cosa, poi? Di una supposta modernità che appare solo un ghiribizzo della moda o una cervellotica astrusità di chi la propone, magari forzandone il genere e costringendolo, con un articolo e una desinenza, alla nobiltà del femminile, al ridicolo?
    ”La poeta”: bella roba! Meglio “la becchina”, allora, ché “becchinessa”, ora all’inverso, farebbe anch’essa sorridere, e data la funzione non mi pare proprio il caso.
    In un mondo dove le lingue si incrociano, si contaminano con inglesismi, invenzioni di termini tecnici, parole create ad hoc per i nuovi mezzi di socializzazione, spesso di una sconcertante bruttezza – come il “petaloso” accettato non troppo tempo fa perfino dalla Crusca, teniamoci almeno il da sempre usato “poetessa” che, con poeta, si sposa a meraviglia. Il suo femminile naturale. E la Sabatini se ne faccia una ragione. La poeta sarebbe una ridicola sconciatura linguistica. Così anch’io, con il mio modesto bagaglio di parole, la penso. E ti ringrazio per aver sollevato il caso.

  2. Io, Pasquale, sono d’accordo con te nel difendere l’accezione al femminile: se chi scrive delle poesie è di sesso femminile è più giusto chiamarla “poetessa”.
    Il termine “poetessa” è più giusto e appropriato, ma è anche più rispettoso delle donne. Perché mai infatti una donna dovrebbe chiamarsi
    con un sostantivo al maschile? Forse perché un sostantivo al femminile è disonorevole e vergognoso? Avanti di questo passo arriveremo al momento in cui una che si chiama Carla o Maria vorrà essere chiamata Carlo o Mario.
    Insomma in questa ansia di parità fra i sessi si rischia di arenarsi su dettagli del tutto formali e di cadere nel ridicolo.
    Detto ciò ( ma questo è un mio gusto personale) , molti sostantivi al femminile sono più eleganti che al maschile.
    “Poetessa” compreso.

  3. Non mi intendo di queste raffinatezza linguistiche e neanche ho intenzione di farlo. Ma già che questo articolo mi è capitato sotto gli occhi, l’ho letto.
    Che devo dire!? Ammiro la cultura del Professor Balestriere e il suo impegno in questo genere di studi, ma personalmente metto insieme tutte queste parole, senza distinzione…e la sensazione che mi viene da termini quali la deputata, l’avvocata, la preside, l’ingegnera, la giudice, la notaia, la presidente,  la ministra, la pretora, la studente, la professora , la dottrice..ecc…è quella di trovarmi davanti a un copione pronto per Stanlio e Ollio. Non ne salverei neanche uno … ma neanche mezzo! Se questa studiosa della lingua significasse per me qualcosa, mi sentirei umiliata, in quanto donna, a vedere come lei e altre si affannano a cercare ogni espediente per distinguersi dall’uomo. Devono avere ben poca stima di sé se pensano che termini come poetessa o altri possano svilire la donna in quanto “ legati” al termine maschile! Menomale che quel che dicono mi passa sopra come acqua fresca sennò capace ci resterei male a non potermi fregiare del titolo di professora. Oddio…ad esser sinceri invece mi definisco proprio così “ se non fossi dottora-professora direi che…” quando sto per sparare quella che noi Toscanacci chiamiamo “ una bischerata”.
    Non vedo alcun motivo per cambiare parole che si usano da sempre e che si capiscono benissimo. Le donne, quelle del nostro mondo, hanno già vinto la battaglia della parità…chi pensa che ci sia bisogno di attaccarsi a certe minuzie o si sente ancora “ da meno” o ha saltato la barricata e più che la parità cerca una specie di vendetta sull’uomo per i secoli di sottomissione. Sono altre le donne che devono conquistare i loro diritti , quelli veri , quelli essenziali, e queste non si metteranno certo a discutere su queste parole. Forse un dottoressa che non ne imbiffa una azzeccherà ogni diagnosi diventando dottrice? ( questo termine vincerebbe dalle nostre parti il Premio “ Boia De” con cui onoriamo il sommo dei “ troiai” ) ,un’avvocata vincerà più cause di un’avvocatessa? Io non vado a cercare etimologie o storie di parole…dico solo due cose, così, alla buona :prima cosa : i termini proposti a sostituire quelli sempre usati, sono brutti, suonano forzati, e il cambiamento è inutile e…seconda cosa : con i problemi veri che ci sono: guerre, cambiamento climatico, emigrazione, epidemie e così via…è il caso di perder tempo a discutere su queste cose? Non mi permetterei mai di dire che mi sembra una mentalità da “ donnette”…ma c’è chi potrebbe pensarlo.

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