Il tema del viaggio come metafora della vita.
GIORGIO CAPRONI
Congedo del viaggiatore cerimonioso.
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.
3 risposte
Un monologo che riassume una vita. Più che una poesia, una… confessione a se stesso. Ogni vita ha un termine, ogni cosa sprofonda nella voragine silenziosa del tempo e della storia. Cosa resta, cosa resterà di ognuno di noi? Neppure l’ombra di un carattere, neppure un bagliore di tramonto. Il tempo “ha tutto il tempo” di cibarsi perfino di se stesso. Portiamo appresso la valigia della vita, con i nostri desideri, con le nostre gioie e i nostri dispiaceri, che nel viaggio si fa sempre più gonfia e pesante per alcuni; per altri rimane un povero contenitore mezzo vuoto dove sarebbe perfino inutile cercare lo scopo del vivere. E forse lo scopo è proprio e soltanto quello del viaggio…. Ma questo, a differenza di quello di Kavafis nella bella poesia “Itaca”, non ha la nostalgia del “nòstos”, ma una certa calma e disperata amarezza del commiato. Scritto con arieggiamenti leopardiani, che possiamo rintracciare lontanamente nel “Dialogo della natura e di un islandese”, è un addio leggero e apparentemente sereno, per scendere, con la valigia ormai logora della vita, all’ultima stazione…
La poesia forse più celebre di Caproni che declina con “souplesse” un paradigma laico della vita.
Al termine della quale non ci sono pentimenti, né consolazioni, né remissioni, ma neppure soverchie tristezze.
Solo, velata di stanchezza, una sottile nostalgia di momenti conviviali.
È il destino assegnato a ogni uomo, accettato con lucidità, senza enfasi, ormai fuori luogo, senza gli orpelli di trascendenze, a questo punto verosimilmente strumentali.
Per esprimere tutto ciò Caproni sceglie il registro della cerimoniosita’, ossia del rituale, sebbene cortese, privato e sommesso.
Scelta stilisticamente quanto mai opportuna e in perfetta sintonia col clima sobrio e ridimensionante della lirica.
Molto bella. Caproni ha saputo creare un personaggio in linea con quel che si era proposto: un viaggiatore cerimonioso. E’ un uomo qualunque quello che sta per partire, semplice e modesto, e il poeta l’ha disegnato come meglio non si potrebbe. Niente paroloni altisonanti, niente esclamazioni tragiche…un discorso pulito, educato, quasi timido: un ringraziamento al dottore, un saluto alla ragazzina, un addio quieto a tutti. E’ l’accettazione della fine come cosa naturale e perciò da affrontare senza troppe storie e men che mai come una tragedia. Il distacco dalle cose terrene, al momento non è ancora assoluto perché il viaggiatore, che non conosce il luogo di destinazione pur sapendo che è definitivo, non va a mani nude: si porta dietro la valigia. Non sa bene perché, forse solo perché si usa così…questione di abitudine. E’ una valigia pesante e sa che non gli servirà…a mio avviso è il bagaglio dell’esser stato uomo, e contiene i ricordi degli accadimenti e delle esperienze che hanno lasciato traccia nella vita. Credo che Caproni voglia dire che il distacco dell’anima dal corpo è graduale…che c’è una specie di passaggio, che una parte della nostra corporeità rimane per un breve tempo, per abitudine all’essere sempre stato umano. E’ toccante questa figura così gentile e rassegnata…non c’è paura, non c’è disperazione, ma nemmeno serenità perché manca la luce della fede, perlomeno di una fede sicura. C’è solo stanchezza. Ma quanti hanno una fede così salda e profonda da affrontare con gioia un viaggio del genere? Probabilmente qualche santo, ma la gente comune? E il viaggiatore non è un santo, è solo un uomo. Uno di noi.