LIDO PACCIARDI
La Vittoria
Vittoria è ancora viva e presente nella mia mente e nel mio cuore. La vedo ancora mentre esce dal piccolo orticello, con la rete fasciata di convolvoli e la capanna di canne e di tavole, entrare nella cucina, con l’acquaio di marmo sulla destra, prima del grande camino annerito nell’angolo di fondo. Sento ancora il suo odore. Un odore antico, di pulito, di bucato alla conca: con il ranno e la cenere… L’uscio della Vittoria era a pochi passi da casa mia.
La Franca e l’Emilia, due delle sue tre figliole – ché la Beppina era già sposata – m’han praticamente allevato.
Nei primi sei o sette anni di vita ho passato più tempo con loro che con mia madre.
M’hanno voluto bene. Un bene dell’anima.
– Oggi resto a mangiare da te. Vero Vittoria…?
– Certo, il mi’ bimbo! Ti preparo lo schiacciatino, e poi si tira giù il presciutto buono che ti piace tanto. Quello incignato da poco, lassù…
Appeso ad una delle travi del soffitto penzolava, fasciato da uno strato di carta gialla, unta, sul taglio avviato, un profumatissimo prosciutto casalingo, con una bella muffa verdastra all’esterno, d’un sapore annoso e irripetibile. Di maiali allevati a ghianda e pastone di semola, oltre ai pochi avanzi della cucina e alle rimanenze dell’orto, e di appetiti non viziati da troppe possibilità di scelta. Era la cosa più preziosa della famiglia, da usarsi con parsimonia e oculatezza, ché i tempi non eran quelli d’adesso e la carne si mangiava una volta ogni tanto, magari quando s’era stati ammalati…
I dolci, invece, per Pasqua e per Natale, o alle ricorrenze importanti.
Mia madre protestava perché troppo spesso si ripeteva quella storia, anche se cercava di contraccambiare in vari modi. Ma la Vittoria, la Franca e l’Emilia non avevano occhi che per me. M’avevan quasi adottato.
Franca era occupata alla segheria Del Punta: un’operaia industriosa e intelligente, attaccata al suo lavoro. D’Emilia non ricordo bene. Forse stava in casa ad aiutare e a prepararsi il corredo, dopo che Beppe, un norcino di Vicarello, l’aveva chiesta in moglie. Buon uomo, Beppe: faccione rubicondo, baffetti ben curati, sempre allegro. Persona semplice e schietta… affezionato anche lui.
Il marito della Vittoria, Pilade, bracciante, arrivava alla sera. Si metteva nel canto del fuoco e raccontava la giornata, distrutto dalla fatica. Gli salivo sulle ginocchia e lui, stanco e dolorante, mi carezzava la testa con la mano potente e ossuta, callosa e dura come un legno stagionato, con l’unghie spesse e schiantate. Aveva una pazienza infinita e si prestava volentieri alle solite mille domande che gli rivolgevo.
Se la famiglia è il luogo dove ti senti protetto e amato, allora ho avuto la fortuna d’averne due.
La Franca mi faceva spesso il bagno, mi metteva in ghingheri e mi portava fuori, orgogliosa di mostrare quel bimbo ricciuto e moro moro, quasi fosse suo figlio, ben attenta che non andassi alla strada, vista allora come un luogo di pericolo costante, per le rarissime auto e moto e le numerose biciclette e i barrocci che vi passavano: – Guai a te se attraversi! – mi diceva, facendo gli occhi cattivi e ammonitori – Non provarci mai! Se no… E allungava la manona distesa per farmi intendere meglio.
Ma paura me ne faceva poca. E lei lo sapeva. Sicché il rimprovero finiva in una sorta di smorfia, tra un’ammiccante minaccia e un mal dissimulato sorriso che le faceva volger la testa per non esser scoperta…
D’inverno – ché allora esisteva il freddo – la piccola piazzetta con il vecchio gelso, il pozzo e gli orti, si ricopriva spesso di neve e le gronde dei tetti sembravano voler mordere con denti di ghiaccio gli stormi dei passeri che vi si rifugiavano sotto, a litigarsi qualche grano, lungo i muri, nelle strisce scoperte.
La neve smorzava i rumori, già pochi, e la sera portava improvviso il silenzio che precede la quiete solenne della notte. Era una sensazione bellissima, dove negli echi lontani, che percepivi come provenire da un altro luogo, ti riappropriavi degli spazi e delle distanze, valutavi direzioni e vi riconoscevi persone, posti e confini e dove l’abbaiare remoto di un cane pareva misurare d’un tratto la solitudine della pianura.
Anche il cielo sembrava diverso e, forse, lo era… Si guardavano ancora le stelle, che brillavan di più. E si fantasticava, tracciando percorsi nel buio infinito e profondo che ci sovrastava. La notte esprimeva il suo arcano respiro, come fosse un’altra faccia della vita: quella della quiete, del riposo, dell’ignoto, del mistero, dei progetti e dei sogni. E dove cessavan le ferite del giorno e trovavano requie.
Spesso, al pozzo, nel tirar la catena per attingere l’acqua, il secchio si staccava e precipitava, sbatacchiando, nel fondo. La Vittoria, paziente, prendeva allora i ganci e tentava il recupero. Piano, con sensibile tocco, valutava cosa avessero afferrato. Se magari si fossero fermamente infilati nel manico – cosa rara e fortunata – oppure avessero solo agganciato un orlo. Lentamente, col fiato sospeso, senza la benché minima scossa, recuperava finché il secchio finalmente affiorava, sovente a rovescio, cercando di trarlo, gocciolante, alla bocca. Più volte il tentativo si ripeteva prima d’aver ottenuto successo. Se sopravveniva la sera, continuava il giorno dopo, magari con un altro paio di ganci. Ma non si poteva abbandonare quel secchio, stagnato, comprato da Ernesto, alla Lega…
Assistevo attento a queste operazioni; un po’ in disparte, ché la Vittoria e gli altri m’avevan da tempo proibito d’accostarmi, dopo avermi mostrato, tenendomi ben saldo, il liquido e oscuro specchio del fondo. – Guai a te! C’è la Vecchia laggiù! La Vecchia, che tira giù i secchi e i bambini!
E poiché i secchi effettivamente precipitavano, anche se non proprio convinto, dubitavo tuttavia che potesse esser vero. E me ne tenevo lontano.
All’inizio dell’estate il grande gelso bianco si copriva di foglie e di more dorate. Era proprio di fianco al pozzo, porgendogli ombra. Salivo sulla parte più lontana per non stuzzicare la Vecchia in agguato e mi rimpinzavo dei frutti dolciastri e succosi, tra vespe e mosche, mentre le cicale che vi dimoravano smettevano d’improvviso il loro estenuante frinire e di scatto fuggivano con uno sfrigolio nervoso, stridulo e strascicato, che pareva indugiare nell’aria.
Vittoria era un’abilissima capponatrice. Aveva imparato la tecnica da sua nonna, quand’era ancora bambina, e l’aveva sempre praticata.
Le massaie della campagna vicina si rivolgevano a lei, quando i loro galletti avevano quattro o cinque mesi. La tecnica che praticava aveva origini antichissime ed era, in verità, alquanto truce.
Si sedeva su uno sgabello e tenendo i giovani polli stretti tra le ginocchia – dopo averli un poco storditi afferrandoli per le zampe e facendoli mulinellare – toglieva dei ciuffi di penne dall’addome e vi praticava un taglio netto, asportando i testicoli. L’apertura veniva ricucita con ago e fil di refe e disinfettata con aceto. Poi passava alla cresta e ai bargigli, recisi con una lametta. Le ferite venivano, infine, cosparse di cenere per arrestare l’emorragia.
Non di rado i galletti, così conciati, morivano.
Quelli che sopravvivevano – ed erano stranamente i più, dopo esser rimasti ingrulliti e digiuni per alcuni giorni, perduti gli… impulsi erotici, non si occupavan più delle femmine e crescevano al di là del normale, fornendo una dose di proteine molto maggiore. La loro sorte si compiva a Natale, dove i capponi arrivavano a pesare anche cinque o sei chili.
Oltre all’onorario in moneta o in natura – farina, un po’ d’olio, latte e zucchero – la Vittoria si teneva per sé le creste, i bargigli e i fagioli, come lei li chiamava…
– Son per il mi’ bimbo, diceva. Ne va matto… Li mangerebbe anche crudi!
Durante il periodo della capponatura ero ospite fisso e la Vittoria mi cucinava in un tegamino, con un po’ d’olio d’oliva e sale, gli attributi sessuali dei pennuti evirati, facendoli rosolare a puntino, insieme a piccoli pezzetti di patate.
Squisiti e saporitissimi.
Credo d’aver divorato, in quel periodo, gli organi riproduttivi e le creste di diversi pollai, portando sulla coscienza le voglie insoddisfatte di centinaia di galline.
Un giorno Pilade tornò dal lavoro più stanco del solito. Era inverno e faceva freddo. Mi trovavo a letto ammalato, con la febbre. Mia madre aveva cercato di farmi, senza riuscirci, un’iniezione di non so cosa. M’ero ribellato e le avevo strappato di mano la siringa schizzandola in terra… Son sempre stato insofferente alle punture.
Mio padre s’era allora arrabbiato e, nonostante il mio stato, me l’aveva, a ragione, suonate.
Le botte avevan sortito l’effetto del farmaco e il mattino dopo ero sfebbrato.
Volevo uscir subito, con quella vitalità che i ragazzi immediatamente ritrovano dopo una malattia, ma non ci fu niente da fare. Dovetti restare, su ordine del medico, due o tre giorni in casa.
Quando finalmente fui libero corsi dalla Vittoria e dalla Franca.
Mi venne incontro l’Emilia, mesta e scura in volto. M’abbracciò e mi disse del suo babbo, che anche lui era ammalato…
La Vittoria era al piano di sopra, nell’unica camera dove tutti dormivano e dove Pilade giaceva immoto e silenzioso. Non mi permisero di andare. Per diversi giorni sembrò che quella casa e quella cucina avessero cambiato aspetto: la Vittoria era diventata muta; Franca usciva al lavoro non più con giovanile entusiasmo ma a testa bassa, quasi fosse vergogna; la Beppina, ora, era sempre presente e parlava piano.
Perfino il fuoco nel grande camino pareva non aver più voce, non dar più calore.
Io volevo vedere Pilade. Chiedevo alla Vittoria, alla Franca, a mia madre…
Poi, un pomeriggio, mi fecero salire la scala di legno, di fianco alla parete della cucina che portava alla camera da letto. Era disteso, quasi immobile, con gli occhi rivolti al soffitto, come a contare le mezzane del tetto: smagrito, distrutto, irriconoscibile. Respirava a fatica, con affanno, come se le coltri gli schiacciassero il petto.
S’accorse di me e, volse lentamente la testa.
Fui tentato di ritrarmi. Ebbi paura… Sentii, pur bambino, la morte.
– Ti ha visto… Pilade ti ha visto… Prendigli la mano, disse sottovoce mia madre.
M’accostai al letto ma non riuscii a toccarlo.
Fece scivolare con grande sforzo una carezza sulla mia testa e, con lieve sorriso e in un soffio:
– Bellino ‘l mi’ bimbo… È venuto ‘l mi’ bimbo…
Lasciò penzolare la mano inerte e tornò a fissare il soffitto.
Vittoria mi baciò, bagnandomi il viso. Poi mi portò da basso, seguita in silenzio da mia madre.
Non lo vidi più.
Tornai ancora, parecchie volte, in quella cucina e in quella casa. Ma non restai più la sera. Il camino, deserto, con la sedia vuota di fianco, mi faceva paura.
Un periodo era trascorso e s’era chiuso. Qualcosa era, anche in me, cambiato.
Avvertivo, ora, insieme all’affetto profondo delle tre donne, anche il loro dolore e la loro insicurezza.
La Vittoria, fasciata di nero, continuò ad attingere al pozzo, a curare il suo orto, a volermi bene, ma a sorrider di meno.
L’Emilia si sposò col suo Beppe.
Franca trovò il suo Torello, e restò con sua madre.
Presto, troppo presto, mutarono i luoghi, gli orti, la piazzetta, le case. Tutto si chiuse, infine, dietro la porta del tempo. Da cui ancora s’affacciano, vivi, i ricordi.
5 risposte
Che dire…l’ho letto tutto il libro di Pacciardi, ho la fortuna di avercelo. E’ uno di quei libri che ti restano dentro. Lido , per dirla alla maniera nostra. ” ci ha una bella testa” ! che scriva poesie o prose , si distingue, e quel che dice non è che ti passa sopra come acqua fresca…proprio no…quello che scrive ti lascia il segno. Questi personaggi te li fa vedere, li dipinge, li scolpisce, li cesella, te li presenta e io li vedo, li capisco, ci discuto …perché loro “chiacchierano” come me…come noi toscani, che abbiamo un sacco di difetti ma non certo l’ipocrisia perché se c’è da mandare a quel paese qualcuno ce lo mandiamo senza tante storie, fosse pure il Papa in persona, ma se diciamo “ ti voglio bene” stai sicuro che è vero. Conosco Lido da sempre…non l’ho mai incontrato di persona, e l’ho incrociato su fb da qualche anno, ma lo conosco da sempre perché l’ho “ incontrato” nel suo libro mentre ne combinava di tutti i colori per gli stagni, sugli alberi, vai a sapere dove si andava a cacciare quel grillo che se c’era un buco stai sicuro che ci s’infilava dentro per vedere che c’era! Quanti cerotti deve avergli appiccicato addosso la sua mamma, povera donna! Quanto dev’essersi sgolata a chiamarlo mentre lui era chissà dove, dietro a qualche rospo o a qualche pesce o a qualche troiaio che gli frullava in testa di acchiappare! Dev’essere stato un amore di bimbo, però !…uno di quei bimbini, come diciamo noi, che ti fanno ammattire ma che gli daresti l’anima. Lido rende chi lo legge partecipe delle sue vicende, lo guida per mano a conoscere i luoghi, la gente…non solo queste persone qui, ma tanta gente..cacciatori, il prete, tanti insomma ! e, con la gente, i luoghi, certe usanze…ricostruisce un mondo ora scomparso di abitudini e di rapporti semplici e veri, un mondo nel quale la natura era ancora pulita e dove un bimbetto poteva scorrazzare senza certi pericoli che ci sono oggi perché , anche se il male c’è sempre stato, non era come in questi nostri tempi disgraziati…un mondo che non conosceva parole come inquinamento, cambiamento climatico, disastro nucleare. I suoi personaggi Lido ce li presenta in maniera istintiva, non si affanna a lisciare troppo la parola…il suo è un parlare su carta, curato, ma naturale. Queste donne che gli hanno voluto bene sono vive , le hai davanti ..” il mi’ bimbo…il mi’ bimbino!” C’è tutto il cuore delle nostre mamme e delle nostre nonne ….risento al mia :” Bella la mi’ bimba…’un ce n’è belle come la mi’ bimba!…l’ho fatta ‘or pennello de’ pittori di Firenze”. La nostra parlata così ” alla bona” squilla nelle pagine di Lido mentre ripercorre con tenerezza i giorni felici e lontani del tempo più bello. Il suo primo incontro con la morte…mi ricorda il mio…quando morì la mamma di nonno, nonna Ida e mi presero in braccio perché le baciassi la fronte…lo stupore spaventato del piccolo Lido, l’istinto a ritrarsi, è quello della piccola Lidia che ancora ricorda il freddo umidiccio di quella pelle gialla e cerea. Una carrellata di personaggi delineati in maniera memorabile quelli che ci appaiono in queste pagine…e io ne conosco tanti altri…va letto quel libro, e va letto tutto.
I passati remoti della chiusa sono tutti nel futuro del racconto, disseminato di “imperfetti di narrazione”.
L’ultimo verbo (“s’affacciano”) è un “presente di nostalgia”.
Detto ciò, aggiungo che io conoscevo Lido come rimatore valente, devoto al modello pascoliano.
Riscoprirlo come eccellente prosatore è stata una piacevole sorpresa.
Questo suo racconto è magnifico, dove la commozione scaturisce non da artifici d’enfasi ma dalla sobria purezza del dettato.
Ringrazio Lidia e Luciano per i loro benevoli commenti a questo racconto, tratto dal mio libro “Ieri… a Collesalvetti”.
Un libro che descrive luoghi, vicende, personaggi che si possono ritrovare in uno qualsiasi dei tanti paesi toscani. Grazie ancora.
È un bel raccontare quello di Lido: vivo, puntuale, accattivante. Il suo mondo ci viene incontro denso di affetti e sostanziato di genuinità. Lo stile è netto e terso.
Caro Pasquale, ti ringrazio dell’ospitalità e del tuo benevolo commento.
Grazie ancora.