GIUSEPPE UNGARETTI
Ricordo di un déraciné.
IN MEMORIA
Locvizza il 30 settembre 1916
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse
(da L’Allegria, 1931)
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È la cronaca del funerale di un magrebino suicida nella Parigi cosmopolita d’inizio secolo, amico del poeta,questa moderna, struggente elegia del dolore dell’esilio.
…….”E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono….”
In questa strofa il senso recondito della lirica: se Mohamed avesse saputo cantare il suo dolore, se fosse stato poeta, forse…
” E forse io solo so ancora che visse ”
Epigrammatica chiusa di un inno in cui vibra , l’inconscio ma inderogabile bisogno , per ogni essere umano, di riconoscersi nell’appartenenza ad un insieme di altri esseri umani, con cui condividere le radici. Solo così i germogli sui rami trovano la forza di librarsi sempre più in alto nel cielo, per respirare e spiccare il volo, nel tempo del viaggio su questa terra .
Ha cambiato anche il suo nome nell’estremo tentativo di riconoscersi nella nuova patria , e fu ” Marcel ma non era francese ” e aveva perso ormai anche il legame con la tenda dei suoi avi .
Al suo funerale solo Ungaretti e la padrona dell’albergo della pensione , due vite anch’esse , per un verso o per l’altro, vaganti , le sole capaci di comprendere il dramma interiore di Moammed Saeb
E’ il dramma di molti…non è detto che tutti vadano a finire così, questo è un caso limite, ma perdere le radici è tragico . Dover lasciare la nostra terra, ritrovarci soli e persi per il mondo non è cosa da poco. Ungaretti ha scelto una maniera stringata di esporre un fatto intorno al quale c’era ben poco da ricamare. La forma essenziale dà l’idea della ” cronaca”, un fatto che in sé ne rispecchia mille altri, che domani sarà dimenticato…una maniera di dire più o meno impersonale…A livello razionale mi rendo conto che la scelta di questa forma è quella giusta, però mi chiedo se questo scritto sarebbe stato onestamente lodato come poesia e non considerato ” un discorso con tanti ” a capo” se invece che di Ungaretti fosse opera di un qualunque poetino di FB. Diciamo sempre che non si può definire la poesia…ma io credo che invece ognuno abbia un suo personalissimo metro. E comunque se non si può definire cosa sia Poesia, allora non vedo come possano regolarsi quelli che assegnano il Nobel o che premiano nei concorsi. La verità è che non c’è un metro universale e assoluto, ma ce ne sono tanti per quanti siamo al mondo .
Ungaretti innova le forme poetiche e segnatamente abbandona l’endecasillabo tradizionale e fin troppo abusato per versi molto brevi, a volte costituiti da una sola parola, che in tal modo assume risonanze particolari e si carica di ulteriori significati; sicché diventano particolarmente importanti la lettura degli spazi bianchi e la capacità di saper cogliere allusioni, suggestioni, riferimenti, analogie. Poi, piano piano, Ungaretti ritornerà all’endecasillabo che risulterà più nuovo e personale.
Penso che ” definizione” di poesia sia per se stessa antitetica all’idea che, da sempre,si ha della poesia , come di un afflato che avvolge le parole , quando si cerca di esprimere l’ ineffabile sentire, che scaturisce dal profondo dell’anima, per un’emozione, un sentimento, un pensiero. Emozioni , sentimenti e pensieri nascono dall’incontro dell’io col mondo che lo circonda, calato in un determinato tempo : questo fa sì che la varietà sia la cifra costitutiva dell’espressione poetica, nonostante l’apparente analogia e somiglianza ritmica e metrica , e pur essendo i temi sempre simili , dal momento che hanno uno sfondo universale, fin dall’origine dei tempi , rappresentato dalle inquiete domande davanti alle incognite abissali della vita, che non hanno mai trovato una risposta univoca definitiva . E accade che tale afflato, a volte, riesca a fondere armonicamente senso , parole,suono, ritmo, al punto da veicolare nel tempo ” il sentire ” di chi ha trovato, in un momento particolare, il modo di esprimerlo tale sentire e di farlo sentire a chi legge o ascolta . In Ungaretti la parola si fa fulcro , essenza del suo sentire che affiora dai meandri della sua anima , come da un ” porto sepolto”. Penso a ” brandello” che riferito a ” muro ” ( in San Martino del Carso) da solo trasforma in carne viva le case distrutte dalla guerra ; o “fratello” tremante parola che esprime la compassione , nel senso etimologico del soffrire con l’altro nello scoprirlo un altro ” noi” che soffre.
Sì, Rosa, la rivoluzione ungarettiana sta innanzitutto proprio nella scoperta della parola, quella parola/fulcro, come dici tu, che assume in sé e poi sprigiona una pluralità semantica e una somma di valori e potenzialità per cui può, da sola, costituire un verso, sostenerne responsabilità e peso. La parola si fa logos e informa di sé sia “Il porto sepolto” sia “Allegria di naufragi”; con effetti importanti anche sull’opera successiva di Ungaretti.
Come osserva Rosa, “in Ungaretti la parola si fa fulcro” e forse è questo l’aspetto che fa la differenza fra i suoi “a capo” e gli “a capo” dei poeti dilettanti suoi imitatori.
Il versicolo ungarettiano non è mai tentato,casuale, sprecato. Ha una sua autonomia formale.
Al contrario, è un’evidenziazione della parola o del sintagma, un’estensione enfatizzante del declamato poetico.
Certo, i dubbi che avanza Lidia sulla validità artistica di questo modulo compositivo sono più che plausibili;
nondimeno certe cose di Ungaretti hanno un fascino, una riconoscibilità, e anche, nel loro genere, una compiutezza formale indiscutibili.
SERENO
Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle
Respiro
il fresco
che mi lascia
il colore del cielo
Mi riconosco
immagine
passeggera
Presa in un giro
immortale
NATALE
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.