Pino Macrì, Le “fòllache” di Re Ferdinando

   

    Pino Macrì

    Le fòllache
di Re Ferdinando
    di Borbone
                     

 

Notte fredda, buia di stelle, nuvole stracciate dal vento.

Nel Palazzo Reale, il gelo, fantasma dispettoso, svolazzava lungo le fughe dei corridoi e tentava di intrufolarsi nelle camere facendo stridere cardini e denti. Indesiderato e indiscreto.

Metà marzo, il grecale sferzava l’isola da giorni, crudo, senza tregua, a tremende folate. Dal ponte del Castello all’istmo della Villa de’ Bagni, le onde bianche e ravvicinate, si rincorrevano e si consumavano sulle rocce scure dove esalavano l’ultimo respiro. Giusto l’idea della spuma raggiungeva gli intonaci pallidi delle prime case carezzandoli appena.

Sei del mattino: Ferdinando IV Re di Napoli, dopo essersi girato e rigirato nelle lenzuola tutta la notte, dopo il trucco e il parrucco, entrò nella stanza personale dell’amata consorte -la Regina Maria Carolina- per darle il buongiorno, ma ahimè, la trovò di pessimo umore.

Non potendo ricevere le infinite finezze puntualmente annotate nei suoi diari, incassò la “tiritera di discorsi inconvenienti e di parole improprie”(1), le baciò la fronte, fece un profondo inchino e la lasciò riposare ancora.

«Cose aspre e disobbliganti; ci à voluta tutta la mia pacienza per contenermi, per non prendere quistione e non farmi venire una mingrania…»(2), borbottò Ferdinando richiudendo la porta dorata e stuccata dietro di sé. Deluso percorse l’androne accigliato e a lunghi passi si avviò verso la piccola Cappella del Palazzo Reale, intese la Santa Messa e prese la prima ostia della giornata.

Poi, dopo le noiose incombenze mattutine -carte, dispacci, diari, corrispondenze, sigilli e segreti di Stato- uscì dallo studiolo dove si era applicato e irruppe tossicchiando nell’enorme e luminoso salone.

Lì, dopo la solita discreta colazione, avvicinandosi al fuoco sempre acceso del camino e sfregandosi le mani, Re Ferdinando, attorniato da sfarfallanti madame di corte, fece chiamare don Crescenzo Buonocore, il suo confidente di palazzo, futuro Tenente Capo d’Artiglieria. Questi, allertato dalla campanella subito coperta dal vocione di Acton (3),  buttò giù l’uovo alla coque che stava centellinando di gusto e si precipitò a velocissimi passi senza smettere di battersi il petto per far scendere l’ultimo boccone traditore.

Il Buonocore, guance carminio carico, ansimando come un mantice arrivò nell’immensa sala come una schioppettata. Appena giunto al cospetto del Re, si sentì chiedere: «Mio caro amico, ho una patùrnia… Stanotte ho dormito poco e pure male. Pensavo…, per la Festa della Pasqua, vorrei proprio indire una gara per chi tinge meglio delle belle uova colorate. Se la vincitrice sarà una donna, ho deciso: gli doneremo un baule con dentro un intero corredo da sposa, tutto ricamato e finemente cifrato. Se vincerà un uomo, non-lo-soo…, non so, cosa potremmo dargli come premio?», disse grattandosi capo e parrucca.

«Maestà, la metà della popolazione mascolina dell’isola, come ben sapete, in modo consentito o meno, è pazza per la caccia agli uccelli e ai lepri. Il giorno della festa del vino, quando si farà la “tela” nel vostro lago, potremmo dare al vincitore la possibilità di cacciare, con la balestra, le vostre follache!», rispose il Buonocore, braccio destro del Re, prendendo fiato dopo che l’uovo aveva finalmente preso la giusta via.

«Ben detto! Sia scritto e sia fatto!», chiosò ordinando il Sovrano che, continuando a tormentarsi una narice con l’unghia del mignolo, uscì soddisfatto dalla lunga sala sempre seguito dal suo codazzo.

«Avvisate il Montiere Maggiore: organizzi col “Grand’invito”!», aggiunse mentre entrava nel suo studio per applicarsi ancora: aggiornare il diario, scrivere lettere e inceralaccare dispacci.

Il giorno dopo, l’editto fu affisso ai crocicchi delle principali stradelle del paese.

Ci fu da subito un’agitazione pazzesca, uno scompiglio generale in tutto il comprensorio e ogni famiglia, povera o ricca, si mise a provare e a riprovare.

Nel giro di una settimana non si trovava un uovo neppure per la frittata del Re!

E dopo estenuanti selezioni, litigi, raccomandazioni e furberie, ci fu la scelta delle tre uova.

 

Domenica delle Palme, ore cinque del mattino: il Re intese la prima predica, fece le divozioni e completò gli esercizi spirituali per la Pasqua nella Cappella privata. Poi prese un boccone a colazione e un’altra benedizione.

Alle nove in punto, nello spiazzo d’ingresso del Palazzo Reale, dopo un lugubre squillo di tromba, le gabbiette con dentro i culbianchi furono aperte, e gli uccelletti, mostrando il bianco candido del loro codrione, di nuovo liberi, tra l’eccitazione generale volarono puntando il sole che aveva già superato il maschio del Castello Aragonese.

La festa impazzava e tra rami di olivi agitati festosamente e “palme” intrecciate ad arte, tra battute di chiassosi tamburelli e scampanii di campanelli, tra fischi e svolazzi, ecco che i prescelti, timorosi e speranzosi allo stesso tempo, con il loro uovo in mano, si apprestavano a sfilare davanti al Sovrano per l’insindacabile giudizio.

Casino Reale, annunciato da dieci grevi battute di tamburo, il primo uovo giunse al cospetto del Re; era quello di un pescatore di Sant’Angelo che lo aveva tinto soltanto con le scorze della cipolla rossa. L’uovo, bello grande e tondeggiante, aveva un bel colore rosso chiaro e ambrato.

Il secondo uovo fu proposto da una florida contadinella di Forio che appena varcò la soglia di marmo bianco che dava nel luminoso salone catturò tutta l’attenzione del Re.

La villana era scalza, i piedi incipriati di polvere. Re Ferdinando sgranò gli occhi, la squadrò da capo a piedi e l’apprezzò ignorando l’uovo che la forosetta portava con grazia nel grembiule.

La ragazza, fasciata da una lunga tunica color carne, era stretta in vita da un nastro azzurro che lasciava immaginare, anzi accentuava, fianchi giunonici e seni sodi come pietre. Aveva sì e no vent’anni, portamento fiero, scurissimi occhi infuocati e una pelle olivastra e vellutata come una pesca. Il suo uovo era stato bollito per venti minuti insieme alle bacche e alle foglie del mirto, un pizzico di sale, un po’ di aceto rosso, corteccia di cannella, foglie di cavolo viola e foglie di amarena. Ne uscì fuori uno spettacolare uovo blu cobalto.

Il terzo e ultimo uovo giunse lentissimamente al cospetto del Re. Adagiato come il dono dei Re Magi su di un cencio di canapa grezza. Era di un rosso fuoco e splendeva, come luccicasse, riflettendo tutti gli sbrilluccicanti orpelli appesi alle pareti dell’altissima sala dorata.

«Tu, villano, come lo hai fatto?!», tuonò Re Ferdinando di Borbone, continuando a sprimacciare il suo nasone in un candido fazzoletto merlettato e spropositatamente grande.

Il giovane Anilluccio, vignaiolo della zona del Mandarino: muscoli guizzanti, tutt’un fascio di nervi. Anche lui scalzo, cotto dal sole, inginocchiandosi faccia a terra e facendo comunque massima attenzione all’uovo, rispose con un filo di voce: «Sua Maestà Eccellentissima, ho fatto in codesto modo: la sera prima ho messo l’uovo in un po’ di acqua fredda insieme alle radici della rubia e ce l’ho lasciato tutta la notte. Le radici però le avevo pestate dopo che avevo tolto i filamenti più sottili, che senò si azzeccano all’uovo e lo spaccano. Stamattina poi, all’alba, ho aggiunto all’uovo una tazza di aceto rosso e l’ho fatto bollire, piano piano, per due clessidre. Poi, ancora tiepido, prima che si raffreddasse del tutto, l’ho ben lucidato con un panno di lana ingrassato con la sugna di Don Simeone».

«Quando a San Martino si aprirà la “tela”(4) alle follache fate venire anche questo popolano», sentenziò il Re con il giusto tono di voce appropriandosi dell’uovo.

Poi con un cenno chiamò vicino a se don Crescenzo e gli sussurrò in un orecchio: «Fai accomodare al nostro desco la popolana di Forio. Anche senza l’uovo…», ordinò il Sovrano ammiccando.

Senza aggiungere altro il Re si avviò nella sala da pranzo dove, sotto le luci dei cento ceri dei due grandi candelabri, sul lunghissimo tavolo, le “bellezze” di porcellane e argenti ben in vista, lo attendeva una delle sue pietanze preferite: uova alla Monachina insieme ad una quantità di pasciute triglie pescate nel suo lago e strafritte nel lardo di maiale.

 

Il giorno della “tela” si avvicinava velocemente, fissato di consuetudine a San Martino, l’undici di novembre, quando a Ischia ogni “mosto è vino”.

Per tutto l’inverno, col freddo, i cefali pigri e belli grandi, invogliati dalle acque più tiepide del lago, entravano dall’angusta “Foce”, venivano indirizzati dal labirinto delle incannucciate messe apposta per quella pesca fino all’angolo più prossimo, quello a ponente.

Lì, di prima mano, il Re -sul rintocco delle lontane campane della chiesa del Purgatorio, alle sei e mezza in punto- armato di fiocina, arpionava il suo grasso cefalo, lo passava al garzone e, sempre seguito dal suo corteggio, presenziava alla funzione giornaliera per battersi il petto ed espiare i peccati.

Fermento!

Enormi furono i preparativi per la “Caccia delle Real Delizie”.

Sotto i comandi del Montiere Maggiore, dei guardiani della riserva, del General Protomedico del Regno, dei mozzi di treviglia, dei canettieri, del Balestriere maggiore e dei balestrieri semplici, dei cavallerizzi e dei guardiacaccia. Niente si poteva sbagliare, pena multe, rimbrotti, fustigazioni ed esilii. Tutta una settimana di manovre e di minuziose attenzioni: dal “corredo” -centinaia di schioppi, canciarri, stupare, moiare, scuppette e archibugi (5)- furono scelti ben trenta fucili ad avancarica per il solo Re! “Moderni” schioppi firmati e punzonati Real Fabbrica di Torre Annunziata dal Maestro Farnese, dal Moretti o dalla Fabbrica Reale di Napoli, furono oliati, puliti, provati e riprovati.

I cartocci, le cariche più gagliarde e precise, furono studiati, dosati e preparati dai maestri d’armi.

Nemmeno i contadini della Pianura e i pescatori che avevano in uso e in fitto il lago e le paludi tutt’intorno, nemmeno i custodi e i mezzadri, nessuno poteva accostarsi troppo al branco dei neri uccelli che ignari ingrassavano strombazzando nel lago.

Il Re, ogni mattina, dal suo Casino di caccia che si era fatto edificare sulla collina di San Pietro per dominare l’ovale del lago, si beava e guardava appagato le sue folaghe che pascolavano placide e si ingozzavano di alghe, lumachine e gamberetti nell’acqua bassa e lattiginosa.

 

Undici novembre: il Re, gran cacciatore, tutto bardato, larga cintura di cuoio, coltellaccio appeso, gialli stivaloni, cappello con candide penne svolazzanti, lungo archibugio in spalla, in sella al suo destriero magnifico, appariva infervorato e invincibile.

La folla lo acclamava, piangeva, rideva e si inchinava.

La Regina Maria Carolina, in gran cerimonia, stretta nel suo “furetto da collo”, assonnata, odorosa di recenti e pur necessarie “fregagioni di profumo”, scura in volto, seguiva il consorte sul biroccio.

Quel giorno, attorno al lago, non volava una mosca: silenzio spettrale.

Al primo lucore di quella gelida mattina, prese chiaramente corpo la macchia scura che si muoveva di un niente proprio al centro dello specchio d’acqua. Gli uccelli erano migliaia! Migliaia di folaghe strette una vicino all’altra, pasturate per oltre un mese da garzoni e pescatori di corte.

Il Re e la Regina, insieme ai luogotenenti e all’inseparabile Priore (6) -suo fedele consigliere e indispensabile compagno di caccia- salirono sulla barca più comoda, piatta e larghetta.

Sulla lancia reale, agli ordini del Montiere Maggiore, anche il Balestriere Maggiore, i due Mozzi di Treviglia, i canettieri e altri due balestrieri (7) che avrebbero caricato e passato, man mano, i tanti archibugi al Sovrano.

Il sandalo scivolò piano sull’acqua e si arrestò, ben riparato, giusto dietro al “Tondo di Marco Aurelio” dove fu legato e ancorato a due pali ben infissi nel fango del fondo.

Venti metri dietro, discoste tra loro, aperte a ventaglio, sei slanciate barchette con gli invitati di Corte e gli eletti del Regno: i vari nobili, gli aristocratici napoletani, il castellano; e cavalieri e funzionari con a disposizione altri balestrieri e altri mozzi che veloci caricavano e porgevano schioppi, cangiarri e “schioppi a vento”.

In retrovia, sulla riva dell’antica “Foce”, appena nascosto dietro a quattro cannelle, venne sistemato Anilluccio con in mano solo una vecchia e pesante balestra e un po’ di dardi di fianco.

«La sai caricare? La sai usare? Ti bastano venti verrette?», gli chiese uno degli scagnozzi del Re sogghignando.

«Gnor’ sì…», rispose sguardo a terra l’aitante terrazzano.

Dopo due colpi di tamburo e uno squillo di tromba lungo e agghiacciante, dal lato di levante, dalla Marina dei Bagni, partirono due barchette e una decina di vigorosi giovani che, vestiti di stracci e di pesanti tuniche, entrarono nella prima bassa acqua del lago.

Ad un momento il Maestro di Feste sventolò un vessillo bianco; al segnale i due gozzi e gli uomini cominciarono ad avanzare nell’acqua freddissima che saliva mano mano fino alla cintola, battendo la superfice il più rumorosamente possibile con pertiche di legno e campanacci.

Il grosso del branco degli uccelli, nerissimi e sgraziati, verdi zampe penzoloni, con un disordinato e assordante frastuono, schizzò dall’acqua e si diresse terrorizzato dalla parte dei cacciatori che, sulle instabili barchette, con le pesanti armi in mano, li aspettavano al varco.

«Boom!», col primo boato esploso dal Re si aprì ufficialmente la caccia, la “Real Tela delle Real Delizie”.

Botti incessanti e nuvole di denso fumo: i due mozzi passavano rapidamente gli archibugi già carichi al Re che, nel pieno dell’euforia, lasciava andare schioppettate all’impazzata in direzione delle grasse folaghe che gli passavano incessantemente sulla testa. Ad ogni suo tiro: «Viva sua Maestà! Evviva il Re!». Tiri mirabolanti e anche clamorose padelle, ma dalla riva continuavano e si sprecavano hurrà di giubilo e silenziose maledizioni da parte di poveri cristi e di sudditi.

Vessillo rosso sventolato sulla lunga pertica: il cerusico diede il segnale di chiusura della caccia.

Con una salva di cannone, decretò la fine delle due “tele” della “Cacciata delle Real Delizie”.

Re Ferdinando, ancora ansimante, rosso come un peperone, percorrendo la banchina continuava a salutare e a benedire a braccio e mano alta. Infine, grattandosi il nasone, si avvicinò a lunghe falcate alla postazione del giovane Anilluccio.

Ai piedi del villico, sistemati sulle cannucce della riva del lago, giacevano venti folaghe stecchite e ordinate, tutte infilzate nello stesso identico punto: al centro del petto!

Ferdinando guardò sbalordito gli uccelli abbattuti da Anilluccio.

Poi ordinò: «Ti nomino mio accompagnatore ufficiale; a caccia come nel palazzo», e appoggiò solennemente il suo spadone sulla spalla del giovane, investendolo ufficialmente dell’incarico.

«E senza scuppetta, con la sola balestra! Amici miei, questo ci è utile! Anzi, addirittura necessario, direi…», disse soddisfatto il Sovrano rivolgendosi al Priore e strizzando l’occhio al buon Buonocore che, rubizzo, sudato anche con quel freddo, tentava di inforcare i suoi spessi occhialini.

Da allora il contadino divenne l’ombra del Sire. Soprattutto durante le battute di caccia (8), Anilluccio, vestito con eleganti abiti dorati, un “modernissimo” archibugio tutto cesellato in mano, in tutte le “Cacce Reali” -da quella alle grasse e succulente fucetole a quella a “correre” ai cignali– era fianco a fianco al Re e all’onnipresente Priore, suo esperto “consigliere cacciatore”.

Poi, nei resoconti finali e nei racconti favoleggianti di luculliani banchetti e interminabili feste, annaffiate da poderosi vini locali, dolciumi di ogni forma e sapore, liquori potenti e concubine compiacenti e sboccate, gli uccelli morti erano tutti vittime fatte dal Re. Il ricco carniere, abbattuto con gran maestria da Sua Maestà, soltanto da Sua Maestà…

A suffragio di ciò, da quel freddo e lontano giorno di novembre, il cattolico Ferdinando Re di Napoli viene ricordato, oltre che per lo spropositato naso e le memorabili tenzoni amorose, soprattutto come un grande, infallibile e insuperabile cacciatore!

Pino Macrì

****************

Note

1,2         Da “Ferdinando IV di Borbone. Diario segreto. Edizioni Scientifiche Italiane”.

3             John Acton, Segretario di Stato di Napoli. Comandante della Flotta Navale del Granducato di Toscana e soprattutto favorito della Regina Maria Carolina, dal 1789 al 1804. (da: Ferdinando IV di Borbone, Diario segreto).

4             “… un lago fertilissimo di buon pesce e di uccelli detti “follache”, le quali venendo qui da altri luoghi macre, inette, né buone da mangiare, nel tempo freddo diventano grasse e buone da mangiare: da molti si crede che ciò avvenga da una certa erba, della quale in quella si pascono; pure io stimo che questo si causi per l’acque di detti bagni, che hanno virtù di ristorare e ingrassare scorrendo nel detto lago. Circa la festa di San Martino quivi si fa una bellissima caccia di dette follache: le quali diventando tanto grasse che possono poco volare, ma non uscire dal lago, che di circuito è quasi un miglio, entrando le genti con barchette e balestre, ne pigliano qualche volta mille e altre volte mille e cinquecento ancora, essendo già caccia reale, e riservata” (Giulio Iasolino – De’ Rimedi Naturali che sono nell’Isola di Pithecusa, 1588)

5             Dalla Spagna, il Re trasferì a Napoli, in tre “camere” -oltre alla quarta, l’officina “dove fatiga l’armiere”- il “corredo” di tutta la sua armeria segreta. L’inventario del 1800 è dettagliato: diverse centinaia di armi, soprattutto fucili, poi pistole e armi bianche. (Brancaccio-Giordano-Zagari. La caccia al tempo dei Borbone. Vallecchi Editore).

6             Priore Carafa di Roccella, Maggiordomo di settimana del Re, suo inseparabile compagno di caccia. (Ferdinando IV di Borbone. Diario segreto. Edizioni Scientifiche Italiane, 1965).

7             Gerarchia degli aiutanti di caccia del Re. (Brancaccio-Giordano-Zagari. La caccia al tempo dei Borbone. Vallecchi Editore).

8             Vari tipi di cacce fatte dal Re soprattutto in Campania e puntualmente annotate sui suoi diari: “a correre”, in battuta, col Grand’Invito (aperto ai più importanti personaggi del Regno), ai cignali, alle fucetule (beccafichi), a cavallo, ai faggiani, ai lepri, alle starnotte (croccoloni), alle garzotte (forse le nitticore), ai rondoni, ai passeri, ai mallardi (germani), ai marvizzi (tordi), alle beccacce, alle tortorelle, alle quaglie, ai conigli, ai lupi, alle volpi, alle follache (folaghe). (Ferdinando IV di Borbone. Diario segreto. Edizioni scientifiche Italiane, 1965).

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2 risposte

  1. Racconto molto ben strutturato per quanto riguarda l’ambientazione della storia e le caratteristiche dei personaggi, resi con molta verosimiglianza, come pure ogni singola scena. Il piglio narrativo è mosso e vivace, disinvolto e puntuale fin nei dettagli. Una piacevole lettura, in particolare per chi già conosce luoghi e cose e ci si ritrova.

    1. Caro Pasquale, ciao.
      Leggere la tua critica al bozzetto, è un piacere per gli occhi e per il cuore.
      Una sciccheria.
      Grazie! Un abbraccio forte.

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