OMERO, ILIADE
Libro XXII – LA MORTE DI ETTORE
Traduzione di Vincenzo Monti
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Il duello mortale (vv. 292 – 407)
Sì dicendo, la Diva ingannatrice
Precorse, e quelli l’un dell’altro a fronte
Divenuti, primier l’armi crollando
Fe’ questi detti l’animoso Ettorre:
“Più non fuggo, o Pelíde. Intorno all’alte
Ilíache mura mi aggirai tre volte,
Nè aspettarti sostenni. Ora son io
Che intrepido t’affronto, e darò morte,
O l’avrò. Ma gli Dei, fidi custodi
De’ giuramenti, testimon ne siéno,
Che se Giove l’onor di tua caduta
Mi concede, non io sarò spietato
Col cadavere tuo, ma renderollo,
Toltene solo le bell’armi, intatto
A’ tuoi. Tu giura in mio favor lo stesso.”
“Non parlarmi d’accordi, abbominato
Nemico, ripigliò torvo il Pelíde:
Nessun patto fra l’uomo ed il lïone,
Nessuna pace tra l’eterna guerra
Dell’agnello e del lupo, e tra noi due
Nè giuramento nè amistà nessuna,
Finchè l’uno di noi steso col sangue
L’invitto Marte non satolli. Or bada,
Chè n’hai mestiero, a richiamar la tutta
Tua prodezza, e a lanciar dritta la punta.
Ogni scampo è preciso, e già Minerva
Per l’asta mia ti doma. Ecco il momento
Che dei morti da te miei cari amici
Tutte ad un tempo sconterai le pene.”
Disse, e forte avventò la bilanciata
Lunga lancia. Antivide Ettorre il tiro,
E piegato il ginocchio e la persona,
Lo schivò. Sorvolando il ferreo telo
Si confisse nel suol, ma ne lo svelse
Invisibile ad Ettore Minerva,
E tornollo al Pelíde. -“Errasti il colpo,
Gridò l’eroe troian, nè Giove ancora,
Come dianzi cianciasti, il mio destino
Ti fe’ palese. Dëiforme sei,
Ma cinguettiero, chè con vani accenti
Atterrirmi ti speri, e nella mente
Addormentarmi la virtude antica.
Ma nel dorso tu, no, non pianterai
L’asta ad Ettorre che diritto viene
Ad assalirti, e ti presenta il petto;
Piantala in questo se t’assiste un Dio.
Schiva intanto tu pur la ferrea punta
Di mia lancia. Oh si possa entro il tuo corpo
Seppellir tutta quanta, e della guerra
Ai Teucri il peso allevïar, te spento,
Te lor funesta principal rovina.”
Disse, e l’asta di lunga ombra squassando,
La scagliò di gran forza, e del Pelíde
Colpì senza fallir lo smisurato
Scudo nel mezzo. Ma il divino arnese
La respinse lontan. Crucciossi Ettorre,
Visto uscir vano il colpo, e non gli essendo
Pronta altra lancia, chinò mesto il volto,
E a gran voce Dëífobo chiamando,
Una picca chiedea: ma lungi egli era.
Allor s’accorse dell’inganno, e disse:
“Misero! a morte m’appellâr gli Dei.
Credeami aver Dëífobo presente;
Egli è dentro le mura, e mi deluse
Minerva. Al fianco ho già la morte, e nullo
V’è più scampo per me. Fu cara un tempo
A Giove la mia vita, e al saettante
Suo figlio, ed essi mi campâr cortesi
Ne’ guerrieri perigli. Or mi raggiunse
La negra Parca. Ma non fia per questo
Che da codardo io cada: periremo,
Ma glorïosi, e alle future genti
Qualche bel fatto porterà il mio nome.”
Ciò detto, scintillar dalla vagina
Fe’ la spada che acuta e grande e forte
Dal fianco gli pendea. Con questa in pugno
Drizza il viso al nemico, e si disserra
Com’aquila che d’alto per le fosche
Nubi a piombo sul campo si precipita
A ghermir una lepre o un’agnelletta:
Tale, agitando l’affilato acciaro,
Si scaglia Ettorre. Scagliasi del pari
Gonfio il cor di feroce ira il Pelíde
Impetuoso. Gli ricopre il petto
L’ammirando brocchier: sovra il guernito
Di quattro coni fulgid’elmo ondeggia
L’aureo pennacchio che Vulcan v’avea
Sulla cima diffuso. E qual sfavilla
Nei notturni sereni in fra le stelle
Espero il più leggiadro astro del cielo;
Tale l’acuta cuspide lampeggia
Nella destra d’Achille che l’estremo
Danno in cor volge dell’illustre Ettorre,
E tutto con attenti occhi spïando
Il bel corpo, pon mente ove al ferire
Più spedita è la via. Chiuso il nemico
Era tutto nell’armi luminose
Che all’ucciso Patróclo avea rapite.
Sol, dove il collo all’omero s’innesta,
Nuda una parte della gola appare,
Mortalissima parte. A questa Achille
L’asta diresse con furor: la punta
Il collo trapassò, ma non offese
Della voce le vie, sì che precluso
Fosse del tutto alle parole il varco.
Cadde il ferito nella sabbia, e altero
Sclamò sovr’esso il feritor divino:
“Ettore, il giorno che spogliasti il morto
Patroclo, in salvo ti credesti, e nullo
Terror ti prese del lontano Achille.
Stolto! restava sulle navi al mio
Trafitto amico un vindice, di molto
Più gagliardo di lui: io vi restava,
Io che qui ti distesi. Or cani e corvi
Te strazieranno turpemente, e quegli
Avrà pomposa dagli Achei la tomba.”
La preghiera dell’eroe morente (vv. 408 – 451)
E a lui così l’eroe languente: “Achille,
Per la tua vita, per le tue ginocchia,
Per li tuoi genitori io ti scongiuro,
Deh non far che di belve io sia pastura
Alla presenza degli Achei: ti piaccia
L’oro e il bronzo accettar che il padre mio
E la mia veneranda genitrice
Ti daranno in gran copia, e tu lor rendi
Questo mio corpo, onde l’onor del rogo
Dai Teucri io m’abbia e dalle teucre donne.”
Con atroce cipiglio gli rispose
Il fiero Achille: “Non pregarmi, iniquo,
Non supplicarmi nè pe’ miei ginocchi
Nè pe’ miei genitor. Potessi io preso
Dal mio furore minuzzar le tue
Carni, ed io stesso, per l’immensa offesa
Che mi facesti, divorarle crude.
No, nessun la tua testa al fero morso
De’ cani involerà: nè s’anco dieci
E venti volte mi s’addoppii il prezzo
Del tuo riscatto, nè se d’altri doni
Mi si faccia promessa, nè se Príamo
A peso d’oro il corpo tuo redima,
No, mai non fia che sul funereo letto
La tua madre ti pianga. Io vo’ che tutto
Ti squarcino le belve a brano a brano.
“Ben lo previdi che pregato indarno
T’avrei”, riprese il moribondo Ettorre.
“Hai cor di ferro, e lo sapea. Ma bada
Che di qualche celeste ira cagione
Io non ti sia quel dì che Febo Apollo
E Paride, malgrado il tuo valore,
T’ancideranno su le porte Scee.”
Così detto, spirò. Sciolta dal corpo
Prese l’alma il suo vol verso l’abisso,
Lamentando il suo fato ed il perduto
Fior della forte gioventude. E a lui,
Già fredda spoglia, il vincitor soggiunse:
“Muori; chè poscia la mia morte io pure,
Quando a Giove sia grado e agli altri Eterni,
Contento accetterò.” Così dicendo,
Svelse dal morto la ferrata lancia,
In disparte la pose, e dalle spalle
L’armi gli tolse insanguinate.
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Il duello tra Ettore ed Achille è un gigantesco e potente affresco. Si svolge veloce, crudele, senza troppi particolari od orpelli, nella sua essenziale e cruda rappresentazione. Ettore – il difensore di Troia – muore come era morto per sua mano Patroclo. Omero ci presenta la scena come già compiuta, siglata dal volere degli Dei e dal Fato, a dimostrazione che la vita degli umani è una foglia nel vento, che la dissecca e disperde. C’è, in questo duello, anticipata, anche la fine del semidivino Achille, spietato vendicatore dell’amato compagno, insensibile alle suppliche da parte dello sconfitto di permettere gli onori funebri al suo cadavere, in modo che la sua ombra possa trovare accoglienza nelle plaghe dell’Ade. Una sottolineatura in più all’ira irrefrenabile del Pelide. Ogni segno, ogni traccia di umanità pare perduta, cancellata, fino a violare i sacri doveri degli onori funebri. Ci vorranno il pianto e le preghiere del vecchio Priamo per ammorbidire e sciogliere l’animo dell’uccisore del figlio. Omero sa maneggiare a perfezione i sentimenti degli uomini, le ire, le debolezze, le loro speranze. E sa bene trasmetterci le ambiguità dei superni, reggitori del mondo, partecipi capricciosi ed inaffidabili delle vicende del mondo. Ma Ettore, qui sconfitto e trascinato nella polvere, diverrà l’archetipo e l’esempio luminoso di amore per la Patria, per la famiglia, per il suo popolo, tanto da essere cantato nei secoli a venire, elevato a martire di un destino crudele, la cui sofferenza e la cui morte rappresentano la cifra più nobile dell’animo umano.
“E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finchè il Sole
risplenderà su le sciagure umane.”.
Del fortissimo Achille è rimasta la gloria; dell’eroico sfortunato Ettore… l’umanità.
Sognare un mito
Ero nell’ora in cui la notte dorme
e tutt’intorno stinge nel colore
che tutto uguaglia e intenebra le forme,
ed ogni cosa affioca nel sopore.
Pesante, il sonno, da dirute porte
un sogno riportava da lontano,
un naufrago fuggito dalla morte,
nel mare immenso d’un passato arcano.
E mi pareva d’essere sospeso
sopra una roccia in fronte a una pianura
dove correva limaccioso e teso
un fiume di cruore e di paura.
Vidi Achille piangente, col cimiero,
le divin’armi, con Patroclo accanto,
Aiace vidi scatenato e fiero
e il Vate assiso, nel suo dolce canto.
Ettore vidi, e Ulisse e l’infinite
schiere d’eroi prestissimi e valenti,
le porte Scee, le mura alte e turrite,
e il sangue a fiumi e i colpi ed i morenti.
Vidi gli Dei giocare con gli umani,
accenderli al coraggio ed al furore,
perderli in giochi misteriosi e vani,
mutargli alterni i sentimenti e il cuore.
Paride vidi e vidi il saggio Enea,
ed Elena e d’Ecuba alti i lamenti,
e Cassandra indovina, che già avea
la rovina prevista e i patimenti.
E tra le fiamme, tra le grida e i pianti
nel fumo denso, vorticoso e nero,
vidi compirsi, proprio a me davanti,
il mito antico del divino Omero.
Lido Pacciardi – Collesalvetti – 2011
Come sei bravo Lidoooooo!!!!
Uno dei passi più densi di pathos di un’opera che grazie al Cielo è giunta fino a noi. Ettore e Achille nel momento dello scontro che deciderà della loro vita e delle sorti di Troia. Due personaggi grandi seppur complessivamente così diversi.
Chi amare di più? La scena così come la vediamo ci mostra da un lato la supplica di un morente, dall’altra la risposta spietata del vincitore. Achille è “disumano” e al contempo umanissimo…perchè il suo comportamento è l’umana risposta ad alla perdita di Patroclo.
Diciamo che nel testo tutto “ congiura” a farci simpatizzare per Ettore : perchè è sconfitto, perchè muore senza il minimo conforto, perchè ha affrontato un guerriero come Achille sapendo di andare incontro a morte certa, perchè gli dei gli sono avversi. E questo è vero e per questo lo amiamo e lo ricordiamo con commozione, come l’eroe assoluto e puro che era. Achille va contro ogni legge umana e divina perchè la supplica di un morente è sacra…ma agisce sotto la spinta di una pena incontrollabile :l’eroe che vive per la gloria lascia il posto all’uomo che vive per la vendetta. Sotto la corazza di rabbia che rende il suo braccio più forte e il suo animo più duro, c’è l’impotenza di uno spirito tormentato che reagisce come sa e come può…tutto è meglio che sprofondare. Achille non è un bruto…sarà toccato dalle parole di Priamo, e sa amare…qui vediamo solo la reazione di un uomo che ha perso troppo per riuscire ad essere generoso. Tra i due il mio cuore piange più per lui che per Ettore perchè Ettore muore per una nobile causa, il Vate ce lo presenta come eroe generoso fino all’estremo sacrificio, e la morte di un eroe puro di cuore commuove tutti, ma il dolore che vediamo nei suoi occhi, ci distrae dal cogliere la pena in fondo a quelli di Achille.
Ettore si sacrifica amore di una città, Achille che ha sempre cercato la gloria, ora combatte per amore e per amore va incontro al suo destino.
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Io lo immagino così:
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EREBO
Non è di gloria quell’alone d’oro
che il crepuscolo schiude al vostro passo
di pietas dipingendo e di stupore
volti senza più sole; non è luce
di fama, sulla fronte l’aureo flusso
che attenua il buio e stiepidisce il freddo.
Nulla penetra l’ombra se non solo
l’ombra di quel che è stato, e l’alto grido
che fiero percuoteva i campi di Ilio,
e il clangore delle armi che scaldava
il sangue dei mortali e degli dei
non giunge mai dov’è solo un sospiro
ogni tempesta e un suono vuoto è il nome.
Ha sapore di cenere la gloria
qui dove quel che è inciso sulla pietra
viene scritto dal dito della polvere,
qui dove alcuna fiamma scende meno
la sola su cui soffia inutilmente
il fiato della Parca.
Solo l’amore brilla nei profondi
pozzi del nulla, e in un unico fuoco
dalle dita intrecciate e dal bel viso
di Patroclo e di Achille il buio schiara.
Vero, Lidia! bello quello che hai scritto.
C’è in tutto questo canto la percezione, quasi fisica, di quanto siano aleatorie le vite degli umani. Al di là delle personali vicende, su tutto regna il silenzio delle Parche e del Fato. E ci sovviene , allargando il discorso, di quanto la vita di tutti sia fragile e breve. Come ben dice Mimnermo, con le sue foglie. Ed io, sperduto poetuncolo del XXI secolo con i miei più che modesti versi:
Come le foglie
Ed è tempesta. Gonfi nuvoloni
sopra il colle stupito, nell’attesa
che il martirio abbia fine. Lampi, tuoni,
senza speranza ormai, senza difesa.
Un dolente implorar con voce lieve
delle foglie affidate alle stagioni,
col sole, con il vento e con la neve,
con un fruscio, nell’aria, di aquiloni.
Raccontano la vita troppo breve
dopo il fresco sbocciare a primavera.
Ora piangenti, tutte, nella greve
futilità dell’ora della sera.
Restan tremori appesi al nudo ramo
che esalano, languenti, in un sospiro
che dice appena: – Solo foglie siamo,
rapite e avvinte nell’eterno giro.
Siamo abbattute come intere schiere
degli umani che passano, veloci.
Ne è cosparsa la terra e le bufere
la copron tutta, e l’infinite croci.
Bravissimi Lidia e Lido ! Commento completato da splendidi versi : basterebbe solo questo a farci sentire come questi versi di Omero siano riusciti a rendere universali e immortali sentimenti che si agitano da sempre nell’anima umana, davanti a conflitti . Non possiamo però non vedere anche come Omero sia l’archetipo assoluto di tutto quello che nei secoli si continuerà a scrivere , in ogni forma, sull’ animo umano . Dal dialogo che si svolge , prima dello scontro e poi davanti ad Ettore morente , si snodano contraddizioni, struggenti nostalgie, desiderio di vendetta e di perdono, e mille altre sfumature del sentire umano che, pur inserite in un evento definito e in una trama circoscritta , oltrepassano quei confini per diventare specchio dell’umano che si ripete all’infinito, in ogni tempo, anche in situazioni che hanno apparentemente connotazioni differenti, legate al tempo in cui si collocano .
Hai ben ragione, Rosa. Omero sapeva maneggiare molto bene i sentimenti, le contraddizioni, le paure, il dolore dell’animo degli umani. Omero è grande – come del resto il nostro Dante – roprio perché in lui ritroviamo tutte le nostre aspirazioni, tutte le nostre debolezze, i nostri sogni. In lui, nel suo canto divino, ci siamo tutti noi: di ogni tempo, di ogni colore, di ogni terra.
E’ così, infatti, Rosa; sai sempre cogliere nel segno . E poi, esperta e appassionata come sei del mondo antico, delle opere poetiche, del teatro…:-) !
Grazie Lidia e Lido . Tutta la letteratura greca si è sviluppata lungo la scia indelebile, tracciata dai poemi omerici in cui vibrano tutte le sfumature del sentire umano che poi , passando dai Latini , hanno irrorato tutta la letteratura occidentale , nella quale sono ancora visibili le orme . Orme che penso resteranno per sempre .
Mi compiaccio con i commentatori precedenti per la qualità delle annotazioni. Per non dire dei contributi poetici che arricchiscono la pagina.
Quando ciò accade, quando cioè si sviluppa una conversazione di livello, la mia funzione di “provocatore” può dirsi realizzata. Riuscita. Ne sono contento.
Grazie a Rosa, a Lidia, a Lido.