Giorgio Orelli, A mia moglie, in montagna  

Giorgio Orelli

Scrittore e poeta (19212013)  del Canton Ticino, quindi svizzero di nascita ma nei fatti italiano di lingua e cultura.

 

A MIA MOGLIE, IN MONTAGNA


D
al fondo del vasto catino,
supini presso un ‘acqua impaziente
d’allontanarsi dal vecchio ghiacciaio,
ora che i viandanti dalle braccia tatuate
han ripreso il cammino verso il passo,
possiamo guardare le vacche.
Poche sono salite in cima all’erta e pendono
senza fame né sete,
l’altre indugiano a mezza costa
dov’è certezza d’erba
e senza urtarsi, con industri strappi,
brucano; finché una
leva la testa a ciocco verso il cielo,
muggisce ad una nube ferma come un battello.
E giungono fanciulli con frasche che non usano,
angeli del trambusto inevitabile,
e subito due vacche si mettono a correre
con tutto il triste languore degli occhi
che ci crescono incontro.
Ma tu di fuorivia, non spaventarti,
non spaventare il figlio che maturi.

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4 risposte

  1. Quello che subito mi ha dato nell’occhio è il ripetersi del gruppo MO nel titolo e la presenza della labiale nel possessivo a rinforzare il suono. Ne viene l’impressione di un’eco : il muggito delle mucche riflesso dalle montagne. Sono queste il primo elemento vivo su cui l’occhio si posa. Non mucche, ma “ vacche”. Vero che “ vacca” sarebbe il termine tecnico, ma mi sarei aspettata ” mucche”, a riprendere ancora una volta il suono di cui sopra, e invece no. In fondo, però, ecco comparire l’immagine di un figlio in arrivo e questo dà una luce diversa a tutto il quadro. Anche il termine vacca suona allora come una scelta precisa perché la vacca è l’animale che allatta, è la madre. E’ un peccato che questa parola così piena di vita abbia assunto oggi un valore dispregiativo; usarla in certi sensi è un’offesa all’atto sublime della creazione, opera divina cui sono la femmina è destinata e che impone il sacrificio della momentanea e a volte definitiva scomparsa di quella bellezza fisica che la società moderna identifica con la snellezza. Usarla come offesa è disprezzare la maternità e la fonte della vita. Per tornare al testo, direi che ora tutto va visto in funzione della maternità: il verde catino, ricurvo, morbido di erbe , accogliente come il ventre materno ;l’acqua,“impaziente” come l’attesa dei genitori, come il liquido amniotico che non vede l’ora di sgorgare per porgere il bambino alla benedizione della luce, prima protezione …quello che noi donne chiamiamo semplicemente ” le acque” . E nella vallata ecco, le vacche simbolo del latte che verrà a nutrire la nuova vita, ecco i viaggiatori che si avviano al passo come il piccolo si avvierà nel canale uterino, ecco lassù la nube-battello pronta a salpare. Sotto l’aspetto di una poesia descrittiva, appare una poesia d’amore; il poeta è colmo di tenerezza verso i due che sono uno, piccolo nodo d’amore tutto raccolto che va protetto . Non lo spaventare, non ti spaventare… perché lui è te, tu sei lui, e voi siete in me. Bella l’espressione “ il figlio che maturi” : lei-albero, lui-frutto, lei catino, lui piccolo ospite che vi nuota, ignaro che presto ne uscirà per camminare sulle vie del mondo. “ E giungono fanciulli con frasche che non usano, angeli del trambusto inevitabile” :è’ già pronto nel poeta l’atteggiamento del padre: ossimoro decisamente inevitabile come ben sanno tutti i genitori che nei momenti “ rivoluzionari” dei figli si trovano in un vortice di sensazioni: , tenerezza per la loro innocenza, rimpianto (“ ah, bella età! quando io…”,) gioia nel vederli sani e forti, orgoglio per quanto sono belli , e una gran voglia di sculacciarli e metterli a posto. Siamo umani, non santi.

    1. Sì, Lidia. C’è in questa poesia un binomio femminilità/maternità che s’annuncia per sintomi e per figure retoriche, per suggestioni e allusioni, e che gradatamente si rivela nell’ultimo bellissimo verso. E tutto ciò è contesto in una sola entità strofica che tiene ben unito e compatto il suo intero corpo semantico.

  2. Ho letto su internet l’analisi di questa poesia fatta da diverse persone : all’inizio ho letto con attenzione, poi via via con minor interesse fino a che ho smesso. Me ne viene una domanda di carattere generale e mi scuso da ora per la mia ignoranza: ma fino a dove può spingersi la critica? Fino a che punto è giusto e conveniente sviscerare un testo osservando al microscopio ogni parola per trovare il ripetersi di dentali, palatali e così via ?….un’analisi di questo tipo non è che somiglia più a sezionare un cadavere che ad osservare da vicino un essere vivente? Perché quando hai sezionato così un testo ..alla fine cosa hai davanti se non una poesia sbudellata !? Ma-vi domando- quando il poeta ha scritto ha fatto i calcoli? ” Qui ci metto un nesso che poi riprenderò due versi sotto, in diagonale, così che la linea abbia nel mezzo quest’altro nesso che richiama quello di lato…che siamo su una scacchiera? Chi scrive guarda sì a certe cose, questo è sicuro…si evita il ripetersi di troppi monosillabi, si cercano suoni adatti, si ricorre ad assonanze, consonanze …insomma…la poesia è anche mestiere, ma per la maggior parte nasce senza ” premeditazione”, dall’orecchio, dal gusto personale, per istinto. Quando la critica si spinge così a fondo da frantumare fino a livelli microscopici una poesia, fa bene o male al testo, al poeta e soprattutto al lettore? E’ giusto che tu mi faccia capire certe cose, ma se tu arrivi a sminuzzare …non è che mentre da un lato mi fai apprezzare una tecnica, dall’altro spengi il mio entusiasmo traducendo quella che mi pareva opera divina nel manufatto di un abile artigiano? Il suono , l’immagine che mi aveva colpita, me la devi per forza ridurre a un mucchietto di moncherini -sillabe-vocali-consonanti-? Non è più utile dare ascolto al vecchio “ in medium stat virtus?” Io sono una che “ sbudella” il verso da un puntodi vista metrico…lo faccio da dilettante, per divertimento …ma quella è tecnica, può aiutare la poesia ma anche ucciderla. E’ altra cosa. La poesia indossa abiti diversi, ma nella sua essenza è un essere vivente, è il mistero assoluto di qualcosa che è reale, intuibile, palpabile, benchè indefinibile. Non la vedi ma senti e sai che c’è anche se a volte non sai dire e nemmeno capisci come fai a saperlo. A chiudere questo mio chiacchierare annaspando a mezz’aria perchè io so cosa vorrei dire, ma non so se mi sono spiegata , dico questo : di solito quando leggo un commento critico apprezzo se mi si fa notare che quel suono deve rendere quell’idea , che quella sillaba crea quel suono…sono cose che interessano, ma quando l’autore supera un certo limite fa sempre buona critica o fa mostra di sé? Un po’ come certi critici che quando analizzano un verso di autore di oggi si rifanno alla Scuola siciliana e ripercorrono tutta la letteratura …questo genere di critica è un lavoro per istruire la gente o è tentato omicidio?

  3. Sono d’accordo con te Lidia.
    Un’analisi testuale deve sempre essere collegata e funzionale all’espressività poetica.
    Altrimenti, come dici tu, è mera autopsia verbale.
    Ma peggio ancora fanno certi pseudocritici che prendono il testo poetico a pretesto per ostentare le proprie conoscenze letterarie, filosofiche, psicologiche e chissà che altro, sbizzarrendosi in analogie più o meno plausibili e dilungandosi in ostentazioni culturali spesso gratuite e aliene dal testo esaminato.
    In una critica le citazioni devono riguardare in primis il testo in esame.

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