Gabriele D’Annunzio e il canto dell’usignolo

Gabriele D’Annunzio 

Il canto dell’usignolo

Il brano che segue, tratto dal IX capitolo  del romanzo  “L’innocente” (1892), è sempre stato indicato come esempio di scrittura  propria ed elegante, puntuale e raffinata, di estrema ampiezza lessicale. E lo è, quale che sia l’opinione di chiunque sul letterato  e sul poeta.

“L’usignolo cantava. Da prima fu come uno scoppio di giubilo melodioso, un getto di trilli facili che caddero nell’aria con un suono di perle rimbalzanti su per i vetri di un’armonica.
Successe una pausa. Un gorgheggio si levò, agilissimo, prolungato straordinariamente come per una prova di sforzo, per un impeto di baldanza, per una sfida a un rivale sconosciuto. Una seconda pausa. Un tema di tre note, con un sentimento interrogativo, passò per una catena di variazioni leggere, ripetendo la piccola domanda cinque o sei volte, modulato come su un tenue flauto di canne, su una fistula pastorale. Una terza pausa. Il canto divenne religioso, si svolse in tono minore, si addolcì come un sospiro, si affievolì come un gemito, espresse la tristezza di un amante solitario, un desio accorato, un’attesa vana; gittò un richiamo finale, improvviso, acuto come un grido d’angoscia; si spense. Un’altra pausa, più grave. Si udì allora un accento nuovo, che non pareva uscire dalla stessa gola, tanto era umile, timido, flebile, tanto somigliava al pigolio degli uccelli appena nati, al cinguettio di una passeretta; poi, con una volubilità mirabile, quell’accento ingenuo si mutò in una progressione di note sempre più rapide che brillarono in volate di trilli, vibrarono in gorgheggi nitidi, si spiegarono in passaggi arditissimi, sminuirono, crebbero, attinsero le altezze soprane. Il cantore si inebriava del suo canto. Con pause così brevi che le note quasi non finivano di spegnersi, effondeva la sua ebrietà in una melodia sempre varia, appassionata e dolce, sommessa e squillante, leggera e grave e interrotta ora da gemiti fiochi, da implorazioni lamentevoli, ora da improvvisi impeti lirici, da invocazioni supreme. Pareva che anche il giardino ascoltasse, che il cielo si inchinasse su l’albero melanconico dalla cui cima un poeta, invisibile, versava tali flutti di poesia. La selva dei fiori aveva un respiro profondo ma tacito. Qualche bagliore giallo s’indugiava nella zona occidentale; e quell’ultimo sguardo del giorno era triste, quasi lugubre. Ma una stella spuntò, tutta viva e trepida come una goccia di rugiada luminosa”.

Gabriele d’Annunzio
da L’innocente, cap. IX

 

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7 risposte

  1. E’ una pagina bellissima ; una di quelle pagine che leggi non perché ti trascina la trama, ma perché ti avvince la parola che si fa immagine, armonia, che modula suoni, sfuma ombre e luci, tesse atmosfere. Benché io non ami D’Annunzio per motivi che hanno a che vedere più con la sua persona che con la sua arte-motivi che non mi fanno onore, ma questi sono e questi accetto- bisogna che riconosca che chi afferma che ci sapeva fare lo fa a ragion veduta. Una cosa il poeta non dice perché magari non la sa…e cioè che l’usignolo è competitivo, testardo e tenace. Lo so ben io che ogni sera avevo in visita nella mia campagna un usignolo. Appariva, invisibile, sulla groppa del tramonto e cantava…io rispondevo col mio fischio, imitandolo…lui si indispettiva e lo complicava, io lo ripetevo e nessuno dei due cedeva finché, sempre duettando, non salivamo insieme ad accendere le prime stelle.
    Scrissi due versucci nel lontano 2017, quando appena avevo cominciato a farlo.
    USIGNOLO
    Della calura muta, quando il vento
    è un gabbiano senz’ali e sotto gli alberi,
    arrochiti dal fiato della terra,
    s’impantanano fiumi di silenzio,
    passata è l’ora.
    Ecco invisibile,
    chissà dove si desta l’usignolo,
    mutevole gorgheggio che s’intrica
    fra i rami, si disbroglia
    sfrangiando l’ombra e le sottili tele
    dell’aria immobile e più in alto sale,
    tra schegge d’oro, agli austeri recinti
    delle vuote pianure senza nuvole
    e il suo fiore le colma
    di tenera pietà ed ingentilisce
    la crudezza del cielo.

    1. Brava Lidia. Anch’io gli usignoli, nelle notti di primavera inoltrata e di prima estate, li sento cantare nel bosco dietro casa mia, su per il poggio. Non più di due maschi, che paiono sfidarsi nel certame amoroso per la conquista della femmina e la difesa del nido. Sono competivi, sí… battaglieri direi. Il loro canto diviene sublime, acquista la consistenza della madreperla nelle notti di luna. In una scala di tonalità che ricama il silenzio. Altri cantori rispondono da lontano, in un dialogo tratteggiato da sospensioni ed attese che impreziosiscono e accendono l’ore…

  2. Io credo che la prosa sia più congeniale a D’Annunzio rispetto alla poesia e soprattutto alla drammaturgia.
    Il brano de “L’innocente” riportato da Pasquale lo dimostra, sebbene gravato da qualche ostentata ridondanza aggettivale.
    Più avanti, nelle “Faville del maglio”, la prosa dannunziana maturerà ulteriormente regalandoci pagine deliziose, di alta fattura narrativa.

  3. Il brano è ricco e cangiante. Pletorico in certi aspetti e richiami, ridondante? Non saprei… Ma descrivere troppo e troppo a lungo la bellezza, spesso provoca l’effetto opposto, ne sminuisce la spontanea natura, ne affioca la luce. Ma probabilmente, anzi certamente, son io che erro e che annego nella profusione lessicale del poeta. Chi sono, per commentare Il Vate?
    Allora ho preferito cimentarmi in una descrizione in versi dello stesso argomento. Certamente inadeguati.

    L’usignolo

    Un verso esile e lungo, nella sera,
    tagliente e dolce che trapassa il cuore.
    È uno squillante assolo e chiama amore,
    il solista che canta, a primavera.
    Una musica scritta sulle foglie,
    un sogno dentro un sogno che s’avvera,
    che l’aria porta e che la notte accoglie.
    Invita anche il mio cuor,
    che più non canta,
    un cuore spento che non ha più voglie,
    a speme nuova, a rinnovati ardori.
    E viene la compagna e dalla pianta
    dolce si posa tra la siepe e i fiori.
    È l’ora dell’incontro e degli amori,
    un attimo fatato eterno e breve
    che cura e preme l’anima già stanca.
    Poi tutto svanirà come la neve
    ch’ogni più grande ardor copre e consuma,
    tutto scolora e tutto ferma e imbianca.
    Ciò che di bello vuoi, quando l’hai in mano,
    il bello dentro quello passa e sfuma
    e nel silenzio va a morir lontano.
    Più vuote le mie sere che verranno,
    or che maggio ha lasciato amore e canto.
    E spente e fredde tutte passeranno,
    e sole e mute. Sol voglia di pianto.

    “””””””””””””””””””””””””””””””””””
    Usignolo

    Canta la macchia. Dalle ombrate sponde
    move tremante fragile preghiera,
    inizia lieve e si diffonde a onde
    nelle plaghe di perla della sera.

    Canta lontano e perso; gli risponde
    la voce chiara della primavera,
    e il canto si fa musica e s’effonde,
    e prende e inonda la campagna intera.

    Ora s’appoca in fremiti d’amore,
    or la notte trafigge col suo assolo:
    la voce dell’ebbrezza e del dolore.

    E par che pianga e implori l’usignolo,
    ed a quei versi mi si stringe il core,
    ch’io più cantar non oso; muto e solo.

    “”””””””””””””””””””””””””””””””””
    L’usignolo

    S’infolta vicino, lontano,
    furtivo l’ubiquo usignolo,
    si perde dal bosco sul piano
    e sale in un trillo d’assolo.

    Stupita la luna risplende
    su un tacito sogno in attesa,
    e il canto s’arresta, riprende,
    poi tace e ritorna, a sorpresa.

    Ascolto rapito il tenore
    che sale e vanisce più lento,
    che canta dolente l’amore.

    Mi tocca, m’avvince… Lo sento
    di pianto quel dolce sopore:
    un cuore che implora nel vento.

    Lido

  4. Belle tutte e tre, Lido, ma il sonetto di novenari è un vero bijoux.
    C’è Pascoli ma c’è anche Pacciardi, c’è musica e ritmo, ci sono la nettezza e la sintesi lampante della vera poesia.

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