Un racconto di Pino Macrì : Il “consuòlo” di don Luigi

 

Il consuòlo di don Luigi

    di Giuseppe (Pino) Macrì 

 

   Anche a bassa voce, anche bisbigliando, quando si parlava di uccelli don Luigi “Sacramento” affilava le orecchie. Spalancava gli occhietti il parroco del paese. Quaglie, tortore, tordi, beccacce… pure seduto nel confessionale, pure officiando Messa, il sacerdote aveva come un fremito. Al solo brusio si infervorava, perdeva il flebile lume della ragione. I ricordi di tutte le disavventure passate ad inseguire uccelli di passo, riaffioravano tentatori e lo mettevano di fronte al dubbio antico: chiesa o caccia?

Diciamo che nelle sue “uscite”, un tantino sfortunato lo era davvero. Una volta le cartucce, un’altra gli scherzi dei fedeli. A Pasqua, a maggio, a Natale, gli uccelli sapevano bene quando “entrare”… E soffriva don Luigi, si batteva il petto.

Ave, Pater, Gloria. Sgranando la coroncina del Rosario, si lasciava cadere sull’inginocchiatoio e recitava le penitenze.

 

Fine novembre. Da giorni faceva freddo sul serio. Il grecale sferzava l’isola dal Castello a Lacco Ameno. A folate, senza smettere. Vecchi pescatori stretti nei pastrani controllavano gozzi e risacche. Bimbi dai nasi rossi e gocciolanti infilavano finalmente calzini e scarpe “nuove”. Massaie dalle braccia possenti, con le mani più secche della carta pesta, spargevano candida farina sulla spianatoia per impastare enormi forme di pane. Anche le piccole mani di Sacramento, grassocce e speranzose, continuavano a fregarsi l’una contro l’altra: «Domani, domani… con la neve sul Vesuvio…» sognava a occhi aperti.

«Beccacce, beccacce… Al diavolo funzioni, cresime, comunioni…».

Invece non successe niente. Freddo e gelo, ma le beccacce non si videro. Sicuramente erano già passate: questa la spiegazione del prete. Il passo era fermo da due settimane, e gli uccelli -secondo il reverendo, vero esperto di tempo e di passo- erano già in Africa. Una fortuna questa volta, visto che il giorno dopo, Sant’Ambrogio, alle nove in punto, doveva officiare il funerale del bottegaio del paese, morto “di subito”, senza soffrire.

Prima delle funzioni ricordevoli, la perpetua gli preparava una cenetta leggera. Quella sera stelline in brodo di gallina, l’ultima beccaccia avuta in carità e una frittata di cipolle e uova fresche. Il curato cenò tranquillo, si accoccolò sulla poltrona e bevve con calma e gusto esagerato lo spumoso Sorriso che Rodolfo gli elargiva ad ogni assoluzione ricevuta. Dormì come un sasso. D’altro canto, quando il passo non gli sconvolgeva pensieri e capelli -immerso al centro del lettone, papalina e testa affondata nel cuscino di piume- niente e nessuno poteva turbarlo.

Alle sei del mattino, sveglio, liscio e sbarbato, preparava i paramenti religiosi per la liturgia. E, sorseggiando beato due dita di rosolio, pensava al discorso più conveniente da fare per racimolare l’offerta alla chiesa e magari un sacchetto di fagioli rossi di cui andava pazzo.

Aria di cristallo. Notte inchiodata in alto da spilli di stelle. La luna in mancanza argentava la terrazza. Accennò un sorriso canterellando. Poggiò il bicchierino vuoto sul marmo del comò. «Buum!» un boato, seguito da altri due, gli fece tendere le orecchie. Subito dopo le fucilate, perché di schioppettate si trattava, si intensificarono: «L’invasione! Lo sapevo!» e si morse un dito. Memore di precedenti iatture, cominciò a tremare come ogni volta. Ma un’illuminazione lo animò. Aveva sì e no cinque minuti prima che la perpetua gli portasse il caffè e la solita pastarella. Prese carta, penna e calamaio, e in bella grafia: «Stanotte ho avuto un mancamento. Carmela, non aprire la porta e lasciami riposare. La funzione falla officiare al diacono. Abbracciami come si deve i parenti del defunto, soprattutto la vedova. E fai attenzione alla canonica». Vergò e affisse alla bussola.

Freddo polare. Il Vesuvio era un presepe bianco di neve. Tutte le beccacce che stavano svernando lungo gli accoglienti versanti del vulcano, si spostarono in un posticino meno freddo: l’isola!

Il prete si bardò: tunica pesante sulla lunga casula, berretto spropositato e sciarpa che toccava le scarpe. In punta di piedi raccattò le cartucce dalla cassa di legno, ghermì la doppietta e si apprestò ad uscire. Percorse come un ladro a passetti veloci lo scuro corridoio. Sul rosso dell’alba era fuori: «Il cane, accidenti…». Rientrò. Prese il guinzaglio e andò a recuperare Contessa, la sua vecchia setter -incrocio “quasi puro”, come spergiurava- che teneva nel piccolo giardino della chiesa.

Al guaito di gioia del cane una pedata ben assestata ristabilì il necessario silenzio, e dopo dieci minuti, il curato già si perdeva nei verdi macchioni di Zaro.

Sacramento, sfondando come un cinghiale spini e mortelle, su e giù tra le rocce del contrafforte, ad ogni passo alzava una regina. In mezz’ora mancò due beccacce che, lente lente, gli partirono dai piedi. Che giornata!

Un pugno di mosche in mano, ma il parroco almeno questa volta c’era!

Spugnato fradicio, divenne livido quando riconobbe la voce sguaiata di un parrocchiano: «Ecco qua, ora m’intossica la mattinata: me le fa solo annusare. Come a marzo» disse fra sé e sé Sacramento allentando la sciarpa.

Cazz’ ‘e Fierr’ spuntò come una malombra da una frasca. Dietro di lui Mimì, che, rubizzo, faccia rossa come un peperone, si aprì in un sorriso smagliante: «Parrucchià, che giornata, eh?! Quante ne avete prese?» gli chiese.

«Due» mentì il pretino sbuffando.

«Don Luì, oggi le botte non vanno. Ne abbiamo prese solo sette; tre io e quattro lui» rincarò Mimì Fariseo, di nome e di fatto.

«Sono belle grosse?» chiese il prete.

«Sissignore, so’ chiatte ‘na bomba! Guardate qua…» rispose Mimì cacciando le beccacce dalle tasche.

Muto, bava alla bocca, il sacerdote le tastò attentamente. Una ad una.

«E le vostre, le vostre come sono?» chiese Mimì.

«Scostumato!» tuonò il religioso allontanandosi.

Ormai la giornata era segnata. Ad ogni passo zirli di tordi e schiamazzi di merli, che irridenti schizzavano da ginestre e asparagi. Perse in modo ignobile altre due beccacce fermate in bello stile da Contessa, raggiungendo il numero di padelle tollerate. Infatti l’uscita durava sempre quattro soli doppietti. Al quarto uccello sbagliato, la cagna smetteva di cercare, emetteva un guaito, raspava il terreno e tornava indietro. Giunta sul sagrato si accucciava e lì rimaneva sorda ad ogni invito.

Ore dodici. Ultima imprecazione. Ultime energie, finito pure il sudore, il lungo Damasco in spalla, il paffuto sacerdote fece un sospiro e prese la via di casa. Anche quella volta le arcere, inarrivabili folletti a cui aveva lanciato dietro manate di piombo, erano più che vive. Nella ladra riuscì a mettere un solo tordo e due merli neri come la pece, che ogni tanto toccava per paura di perderli.

Intanto le campane a morto, cupe e lontane, spandevano il loro lamento lungo il paese: «Biagio… Ma certo!». Affrettò il passo.

Spalancò il cancello, prese fiato e urlò: «Carmela. Carmè!» togliendo il cappello.

Irruppe nella sagrestia e posò lo schioppo sul tavolo di noce. Respirò di nuovo.

La vecchina, quanto più velocemente possibile, trascinando la gamba offesa, percorse l’intera navata: «Comandate…» rispose un po’ spazientita quando gli fu di fronte.

«Carmela, pensavo… a che ora si fa il “consuòlo” a casa di Biagiotto?».

«Don Luì, secondo me ne fanno due: uno all’una e l’altro in serata…» rispose la perpetua.

«Aiutami, forse riesco a presenziare a tutt’e due. Sai che piacere gli farò! Che consolazione…» togliendo anche gli scarponi.

«Sì sì, come no…» annuì Carmela alzando le sopracciglia.

E girando i tacchi biascicò: «Stava maale…».

Il prete fu pronto in un lampo, crocefisso di legno al collo, breviario in mano, tiara in testa, due pasticche di Digestivo Antonetto nel fazzoletto di pizzo. Uscendo si segnò compunto sotto la statua di San Rocco e con un filo di voce, più a se stesso che alla perpetua: «Buona notte» le disse.

«E buon appetito. Mi raccomando…» replicò la donna passandogli anche la scatoletta di latta della Magnesia Bisurata.

 

Cento metri a piedi, in fondo al viottolo, faccia di circostanza, flemma studiata, il parroco, con due eleganti colpetti di tosse, si annunciò fuori la casa di Biagio buonanima.

«Reverendo, accomodatevi! La commarella, così gentile, ha preparato una bella pizza di scarola e un tegame di pollo e patate. Fateci quest’onore!» disse Teresa, fresca vedova del pizzicagnolo mentre sistemava la veletta di tulle nero sulla faccia.

«Sì sì mi siedo, ma prima preghiamo. Ringraziamo il Signore… E poi, non vi incomodate, per me solo ossicini: collo, ali, cosce…» puntualizzò il prete.

 

Uno struffolo. Un taralluccio. Un fico secco. «Con la grazia di Dio eccoci ai Vespri serali! Recitiamo l’Atto di Dolore! Poi il Credo, dopo l’Angelus. Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore…» il parroco, prolungando la visita -una tiritera e una litanìa, una noce e un roccocò- giunse  al secondo “consuòlo” fresco come una rosa.

«Don Luigi, restate ancora, donna Rosa ha portato il ragù di carne con le braciole. E la pastiera…» confermò Anna, l’opulenta figlia del morto.

«Come faccio a lasciarvi soli con questo dolore. Forza: suppliche! Suppliche al Signore! Rosa, a proposito, nella braciola ci hai messo l’uovo sodo? E l’uvetta?».

«Certo. Pure salame, formaggio e pinoli».

«Un paio, un paio le assaggio. Ma solo quelle però. Discenda ad essi la luce perpetua…». Il curato, notte fonda, ancora dava il la a sequele, preghiere di redenzione e nenie preparatorie. Alla fine in casa rimasero solo il prete, la moglie del morto, il morto e Anna, la figlia zitella dalle spalle larghe e i baffetti sottili.

Sacramento, dopo l’ultimo Eterno Riposo, inforcati gli occhialini tondi: «Sorelle care, ora un buon caffè ci aiuterà a dimenticare e a soffrire di meno» disse spostando la veletta e posando le mani sudaticce sulla fronte ancora liscia di Teresa come a benedirla. Poi senza riuscire a resistere aggiunse: «E un’altra fetta di pastiera per ricordare Biagio la buonanima, non mi dispiacerebbe».

Pino Macrì

 

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Pino Macrì (1958) è nato a Ischia (NA),  dove gestisce un piccolo albergo di famiglia. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti a Napoli. Talento proteiforme, con passione si dedica ai suoi numerosi interessi creativi: modella creta, intaglia legno, disegna, scrive. E cura le sue viti, il suo orto, va a caccia, a funghi, a pesca…

In volume ha pubblicato due sillogi di racconti: ‘O Calabbres’ (2015) e Andrea e le fate (2019),  entrambi con  Massa Editore, Napoli.

Nel 2016, con il libro ‘O Calabbres’ vince il premio Jesolo. Nel 2017, con il racconto “Sacramento e la domenica delle palme del ’64” consegue il premio “Adelio Ponce de Leon” a Vicenza. Nel febbraio 2022 ha vinto il primo premio assoluto del concorso nazionale venatorio “Caccia, passione, ricordi”, VIII Edizione, Firenze, proprio con il racconto che vi abbiamo proposto in lettura.

Suoi singoli racconti sono presenti in pubblicazioni, libri,  riviste e antologie di genere.

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15 risposte

    1. Gentile Carla, grazie!
      Incredibile, stesse parole!
      Firenze. Premiazione. Cuore a mille: “Piacevolissimo, ben scritto, di pirandelliana e pur doncammillesca memoria. Chi è libero dal peccato, scagli la prima pietra. La gola tentata…”, così la chiosa del presidente della giuria…

  1. Trovo molto convincenti sia la caratterizzazione dei personaggi sia il piglio narrativo, che è sobrio, quando non secco, ironico, attento ai dettagli situazionali e linguistici.
    Il ritmo è ben dosato, a volte brevemente pausato, più spesso vivace e incalzante; il tono, affabulatorio e, dunque, trascinante e fascinoso.
    Complimenti, Pino!

    1. Caro Pasquale, grazie.
      Estendo i complimenti anche a… “Sacramento”…
      Personaggio, attore e figuro di quattro miei bozzetti. Sempre basati su “fatti”, storie reali, tessuto sociale e storico ben inquadrato. Romanzato poi. Come piace a me.
      In questo caso un mio carissimo, tenero, purtroppo compianto amico. Prete. Prete vero. Mi sta ispirando, credo, da dove sta ora. Don Salvatore…

  2. Il racconto scorre: leggero, colorito, piacevolissimo. Mi ha ricordato altre storie di caccia, di un ambiente che va oggi perdendosi nella vita frenetica che tutti spinge alla corsa. C’è, in questo bel racconto, attraverso la figura del sacerdote cacciatore, patito di uccelli e… pasticcione, “padellaio” diplomato, l’agonismo che sempre si verifica tra cacciatori, specialmente se dediti alla ricerca della “regina della macchia”, l’imprevedibile beccaccia: silenziosa, elegantissima, sfuggente, che si alza dalle marcite del sottobosco nelle nebbie del mattino, abitatrice dei “frigidi”, amante dell’autunno, degli umidori e dei morbidi suoli. Un carniere ambito, la beccaccia, che nei lampi di un volo di “sfrullo” sa spesso farsi beffe dei tiratori più esperti. Il povero prete ritorna vinto e sconsolato. Ancora tante volte vedrà levarsi il tanto agognato scolopacide… in sogno.

    1. Buonasera. Stimolante e tentatore: eccoti servito!
      Dal libro “Andrea e le fate”: – …I suoi grandi occhi, lucidi e marroni, nei miei occhi. Profondi e tristi, come ogni volta. Di nuovo gli sconosciuti boschi di betulle che vedevo solo nei suoi occhi bruni. E la taiga, il viaggio, le sterminate foreste. E ancora nebbia di nebbie, infiniti boschi umbratili, e lampi di luci fredde e taglienti di sconfinate terre sconosciute e lontane… …L’erba, appena smossa dal levante stormiva ad alitate leggere. L’impercettibile brezza staccava zaffate di profumata rugiada che mi inondavano le narici e mi riempivano i polmoni. Osservavo a est l’inermittenza del fascio di luce bianco del fanale del porto Vecchio di Ventotene e le quattro lampadine del paesello addormentato. Lontano, a sud-ovest, oltre i ravvicinati flutti mossi appena dallo zefiro, tremolavano sfacciate le tante luci della mia Ischia. Il solito assiolo, inquilino solitario come me, mi venne a trovare e bubolò vicino satutandomi sfarfallando…
      … Primitivo al centro dell’universo; tutto il nero possibile mi avvolgeva in un vortice e mi legava alla terra e pure al cielo. Silenzio. Vertigine d’infinito. –
      E via dicendo, ripensando alle Regine.
      Un abbraccio, Pino

      1. Caro Pino. Inviti il matto alle sassate. Balestriere, forse, e se vorrà, potrà raccontarti di Don Giuseppe Capitini, prete patito della caccia e… bracconiere.
        Ho sempre vissuto in campagna, amante dei boschi e delle pallide lune, delle notti d’autunno, quando le lepri percorrono i viottoli sabbiosi asciugandosi dalle rugiade già fresche. Quando le foschie e le nebbie trasformano il paesaggio in un ambiente incantato e le “fate” del bosco “sbeciano” negli umidi bassi lungo le fosse dei campi…
        Un caro saluto.
        Lido

        1. Caro Lido,
          Balestriere, “forse, e se vorrà”, come giustamente dici, mi racconterà la storia di Don Giuseppe. Mi ha sempre affascinato il prete cacciatore: sacro e profano, fede e passione. Aspetto trepidante e curioso.
          E Balestriere, “forse, e se vorrà”, ti farà leggere “La sublime ricetta”. Dove un raffinato cuciniere di veraci mangiari, ammaliato, turbato dagli occhi bruni, grandi, rotondi e malinconici dell’ultima beccaccia uccisa, da dieci anni non va più a caccia. Il nipote, complice un fresco vinello di cantina, una superba beccaccia alla Tolouse-Lutrect, lo convince a uscire…
          Escono. Azioni entusiasmanti, ma, fermata in bello stile la beccaccia da Lora, la vecchia cagna del nonno… etc etc. Finale strappalacrime e beccaccia salva. E il nonno va in pari…

          1. Lo leggerò volentieri.
            La beccaccia ha sempre rappresentato per i cacciatori un ambito trofeo e spesso solo un pio desiderio. “Andare per beccacce”, quando la stagione era quella giusta e piangevano i boschi, bagnati dalle prime nebbie novembrine, non era solo andare a caccia, ma inseguire un sogno. Io stesso, cacciatore in gioventù, quando un poco di selvaggina poteva integrare efficacemente lo scarno menù familiare, ho ricercato questa “fata”, elegante e sfuggente. Qualche volta – lo confesso – non ho tirato subito, per avere la soddisfazione di vederla alzare più volte. E ancora, qualche volta, non ho tirato affatto. Caspita, lei è la regina!

  3. Ah, io non so cosa scrivere! non sono un critico e non so mettere insieme uno studio sul linguaggio e tutto l’ambaradan…ma, gente mia, vi dico solo che questa pagina è una meraviglia. Ma che dico…meraviglia! ” E’ di più. Mi pareva lunga, dico fra me :” maremma com’è lunga…” e sono arrivata in fondo d’un fiato, col cuore leggero, lo sguardo lucido e la bocca a salvadanaio 🙂 Come scrive! Come scorre il linguaggio, chiaro, vivo, vero, brillante! Questo prete te lo vedi davanti, lazzarone, birbante, innocente come un bambino, un’anima pulita…ma con quella “passionaccia “per le beccacce!!!. Ma che si scherza!? Il passo delle beccacce mica è roba da poco…c’è da perderci il sonno! E quando poi senti le schioppettate… e se è la volta buona? e magari quelle passano…così, a tradimento dopo che le hai aspettate per nulla… che fai? Vai a dire messa al morto? Eh…Signore Iddio…il morto mica scappa, ma le beccacce sì…E allora che si fa? E che si fa…si fa quel che s’ha da fare…ossia si va…e le bugie? Come si mette con le bugie? Ebbeh…poi ci si confessa e tutto va a posto…ma non prima del consuòlo perché perdere quello sarebbe peccato ben più grave di una bugietta per un par di tordi. Insomma…se fossi un critico scriverei certe parole da incorniciare..ma non mi riesce. 🙁

    1. Cara Lidia, buonasera!
      Innanzitutto grazie. Di cuore.
      Sono un po’ emozionato… Perchè le “belle” parole e i complimenti, fanno sempre piacere. E vogliamo dirlo? Mai come in questo momento!
      E le tue parole sono “belle” davvero. Hai pittato il personaggio. Lo vedi. Bella sta cosa…
      Hai centrato in pieno il mio modo, il mio tentativo di “dire” le cose. Asciutte ma lineari, scorrevoli. Tento di dare una uniformità alla storia.
      E un ruolo importante alla mia pazzaria di testa, è che il racconto deve essere musicale, o meglio, deve essere come una canzone.
      E altre cose. Se non mi stanco io, forse, non si stancherà nemmeno il lettore.

  4. A proposito, mi scuso con tutti perchè non mi so ancora muovere bene nel blog: non sono un fulmine di guerra con il PC…
    Piano piano…

  5. Caro Pino, non lasciarti malamente influenzare. Il tuo racconto piace non perché tratta di caccia ma per la leggerezza, il linguaggio e soprattutto per come hai “sbozzato” il personaggio rilevandone umoristicamente tutti i difetti. Bene hanno detto premiandoti “doncamillesca memoria” in quanto Guareschi e Pirandello hanno entrambi la capacità di far sorridere anche quando narrano la più tragica delle situazioni. E allora che sia “il prete cacciatore” o – si fa per dire – “la zitella assatanata” continua nello scrivere. Ciao, ti aspettiamo.

    1. Cara Carla,
      no, non mi lascio influenzare. Anche questa volta hai colto un senso profondo.
      Hai colto un mio modo di presentare le “faccende”. Vero: anche nella tragedia devo (inconsciamente o solo perchè la vita è meravigliosa comunque) generare un sorriso, anche una smorfia accennata. Prima a me e dopo all’eventuale lettore.
      Ma la cosa più sorprendente che hai colto è che la caccia è solo il pretesto, il mezzo. Questo perchè non so scrivere storie “farlocche”, cioè senza tessuto vero. Non mi emoziona scrivere di cose, luoghi, figuri, emozioni che non sono riscontrabili. E in realtà, quello che mi resta appena do lo scritto alla stampa, è una cosa soltanto. Chiara, gratificante: l’amore per la mia terra. Ti dico questo perchè, proprio per non rinchiudermi nelle quattro mura della “caccia”, sto provando ad assemblare un romanzo. Romanzo: solo il parolone mi mette paura. Fatica immane! Non so se è “petto mio”…
      E in base a questo ti dico: “Niente caccia, niente cani, ne viti. Niente Ischia… Lo ambiento tra la Grecia e Bari”, mi sono imposto. Risultato? Niente. Non riesco: Ischia non rimane fuori! E mi sono un po’ fermato (dopo due anni!). Forse, mesi o ancora anni, e riprendo.
      A proposito, nel futuuuuro romanzo, la co-protagonista è una zitella! Solo che non è lei, l’assassina…
      Un abbraccio.

  6. Caro Lido,
    buonasera. Mi hai accennato di quando a volte non tiravi. Come ti capisco…
    Da “La sublime ricetta”:
    …in realtà tutto tradiva un cuore in tumulto, un cuore che batteva come a voler uscire fuori dal petto. Il nonno scese di pochi passi e fu alle spalle di Lino. Con una mano gli carezzò i capelli riottosi e con l’altra lo tirò piano, di un niente, verso di sè…
    Il nipote si girò e vide una goccia di sudore, una lacrima, che piano piano, scivolando lunga la guancia, indugiò prima su una ruga e poi si fermò sulla commessura della bocca.
    Silenzio.
    Poi, con un filo di voce: “Lino, questa no. Sediamoci, ci aspetterà”, disse il vecchio.
    Lino mise la mano su quella del nonno e la strinse con forza. Dopo un momento aprì il suo Beretta, sfilò le due cartucce dalle canne e le rimise nella cartucciera di cuoio chiaro. I cani erano sempre immobili, e fremendo masticavano l’aria e il soavissimo effluvio.
    Nonno Fedele aprì la sua doppietta mai caricata, la appese ad un ramo, e si sedette ai piedi del leccio.
    “Gli occhi, sono stati gli occhi…”, cominciò a raccontare il nonno…

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