I COLLABORATORI: UMBERTO VICARETTI

Umberto Vicaretti
e “La terra irraggiungibile”

 

Umberto Vicaretti è nato a Luco dei Marsi (AQ) nel 1943; vive a Roma. Laureatosi in Filosofia con Guido Calogero presso l’Università La Sapienza, è stato prima docente, poi Dirigente Scolastico. Ha pubblicato le sillogi La Terra irraggiungibile (Prefazione di Vittoriano Esposito), 2006 – Ibiskos Editrice; Inventario di settembre (Prefazione di Nazario Pardini, Postfazione di Pasquale Balestriere), 2014 – Blu di Prussia; Inchiostri digitali – Contemporaneità (Umberto Vicaretti e altri quattro), 2016 – Blu di Prussia. Vincitore assoluto di innumerevoli premi nelle rassegne letterarie nazionali, è presente in numerose raccolte antologiche e in opere di storia della letteratura, tra cui: La poesia etico-civile in Italia (1997); La poesia centro-meridionale e insulare (1999); La poesia “onesta” (2006) – Bastogi Editrice (per la serie de L’altro Novecento, a cura di V. Esposito); L’evoluzione delle forme poetiche (2013) – Kairòs Edizioni, a cura di N. Di Stefano Busà e A. Spagnuolo. Dall’Università Pontificia Salesiana è stato insignito della Laurea Apollinaris Poetica. È presente nel sito ufficiale di Italian Poetry. 

“Vicaretti, come i poeti autentici, sta saldamente nella vita, l’abita con partecipazione, consapevolezza e un pizzico di dolceamara ironia, ne sa la precarietà, il dolore, la violenza, ma ne testimonia anche il fascino e l’amore; e la vive come un viaggio, un esodo verso la Terra Promessa (…) In Vicaretti ogni verso è uno svelamento, una realtà poetica in sé e che quasi vive -come pure potrebbe- per sé, una corposa e densa creazione, in cui si aggrumano insospettate pregnanze semantiche e indicibili venustà.” (Pasquale Balestriere in Postfazione a U. Vicaretti, Inventario di settembre, Blu di Prussia, Piacenza, 2014).

                   ***

La Terra irraggiungibile

                                        Exodus

Salpare è forse l’ultima scommessa,
gettare il cuore oltre la linea d’ombra
ad inseguire il sole ad occidente.
Chissà se limpida è la rotta a prua
e se la stella brilla ancora a Nord,
ma il guscio vacillante che ci culla,
seme affidato ai vortici del mare,
è già salvezza,
è già Terra Promessa.
L’onda che incombe ad innalzare muri
– sipario che rabbrivida e sgomenta ­
è forse tempio aperto che ci salva
o forse è già presagio:
rinasceremo in terre amiche, oppure
torneremo all’abbraccio di conchiglie,
ai serti insanguinati di corallo
(azzurro e vasto come il cielo è il mare
– urna segreta, scrigno di memorie ­
solo un poco più buio e più profondo).
Ecco, è già tempo di scalare il cielo:
l’approdo ha braccia immense,
attese immemorabili
(il pane ha dita rosa in cima al sogno
antico di chi parte).
Fu lungo il viaggio,
incerto l’orizzonte.
Ora ci accoglie un chiuso labirinto
ed il silenzio è grido che lasciamo
agli usci abbandonati delle case.
Eppure ancora splende ammaliatrice
la Terra irraggiungibile che chiama
alle incantate luci delle torri
(noi temerari che sfidammo il vento,
diseredati fummo anche del sogno).

 

                       Stabat Mater

                                   ad Aisha, 13 anni, lapidata
                                   a Chisimaio – Somalia

Ragazza mia che più non hai memoria
del fiume attraversato a piedi nudi,
chiare le pietre amiche e levigate
a carezzare il passo tuo gentile
in volo dolce verso Chisimaio.

Così io ti ricordo
(o almeno credo),
tese le braccia a bilanciare il guado,
gazzella ignara al sogno tuo leggero.
Così ragazza mia io ti ricordo;
così salivi al giorno, e non sapevi
il Gòlgota, né il fuoco alle stazioni.
Dèmoni neri, angeli del Male,
violarono il tuo fiore ancora acerbo;
poi fecero del giunco tuo sottile
croce di te confitta sulla terra.

Ora che il tempo, tutto, è consumato,
di te ci resta questo tuo sorriso
fiorito sulle labbra un po’ arrossate
(più grandi, e appena più perduti, gli occhi).
Di te ci resta questo tuo silenzio,
lama di fuoco a mutilare i sogni.

Stringe adagio il tuo capo,
perse le mani dolenti,
tua madre,
lieve sfiorando i capelli tuoi crespi,
dolcemente raccolti sulla nuca
con fermagli di porpora e carminio.

 

       Scrivimi che stai bene         

                                            (lettera)

Già sale al borgo antico un’altra luna,
in questa sera dove più non sei.
E’ tanto che ti cerco e aspetto un segno:
pace e perdono più non mi appartengono,
ed è ferita, questa, che fa male.

Perciò ti prego, Madre
(tu che di noi già sai),
scrivimi che stai bene,
che il filo d’ombra acceso nei tuoi occhi
non era che il riverbero del vespro,
un guizzo breve e innocuo del tramonto.

Scrivi, scrivimi presto:
di te, di pa’, di voi non so più nulla.
Non so se in quell’altrove,
che invera un altro tempo,
gentile c’è chi forte vi sostiene
e lieve vi dà il braccio ed apre porte
a mitigare i transiti segreti.

Nessuno qui più abita le stanze,
la vecchia casa sanguina di assenze,
arresa e muta grida il suo silenzio.

Eppure aspetto trepido, una sera,
dalla finestra aperta la tua voce
cercare il me bambino perso ai giochi,
superbo re dei vicoli e del vento.

Ma intanto che io scrosto palmo a palmo
rubini e stelle ai cieli dell’infanzia,
dal tempo chiaro e indenne in cui tu vivi
prendi una rosa e scrivi,
scrivimi che stai bene.

                 Montaliana – II

   A Pasquale Balestriere,
   magnifico cantore dell’umana avventura

Vedi, mio caro amico, quella Sorte (*)
che al volgere di lune hai distillato
dal fallace alambicco di promesse,
non è fruttato nettare che inebria;
è invece oscuro intruglio,
amaro calice d’assenzio e sale.
E forse un dio mendace e ingannatore
alla tua notte diede, adamantini,
un cielo e l’argentata
malia di quella pioggia incantatrice
che adesca al volo Pégaso leggero
a cavalcare i mari della luna.

Del falco alto levato, come un nume
alieno, ci svelò Eugenio il codice
muto della divina indifferenza.
Del falco appeso nell’azzurro, fisso /
alla preda lontana tu ci doni
supremo l’attimo sublime e audace
del sogno che c’illuminò il cammino.
Poi fu di Chronos l’affilata spada
a mutilare l’orizzonte e il volo
con seni d’ombra e fiati di preghiera.

Ora, caduto il muro degl’inganni,
quella tua Sorte lungamente chiama
i giorni degli affetti, a consuntivo
d’una stagione che, sulla bilancia,
non certifica debiti di luce,
ma l’arco smisurato degli abbracci,
pegno d’amore a disarmare il male,
ànemos propizio che sospinge
la barca oltre i confini dell’ignoto. 

 

Via delle Cento Stelle

                                      L’Aquila, 6 aprile 2009 

Sparsi dormono i muri delle case
tra le braccia dei vicoli innocenti.
In Piazza Duomo arrese cattedrali,
come in sonno nella valle di Giosafat.

I campanili dormono stremati,
il capo reclinato sul sagrato
consunto dai millenni.
Incerta luce
tenta antiche rotte sul merletto
scucito del rosone; nuda l’abside,
aperta melagrana,
tremante sopra il coro e le navate.

Chini sui libri dormono i ragazzi,
l’alba e i sogni impigliati tra le pietre.

Mulinelli di polvere s’involano
nel cielo in un altrove:
è l’anima dei borghi che torna a Federico.

O mia città caduta,
tra le tue strade mute e aggrovigliate
indenne un filo cerco di memorie
che mi conduca, il tuo respiro in petto,
a risalire in Via delle Tre Spighe,
Via Fontenuova, Via dell’Acquasanta…

Eppure, ammutinato al tuo martirio,
ti aspetto all’alba in cima al terzo giorno,
in volo come l’Araba Fenice,
trepida a riannodare, per prodigio,
strade vicoli e case ai nostri passi.

Anch’io con te, lenite le ferite,
risalirò Via delle Cento Stelle,
la faglia ancora aperta dentro al cuore.

 

Uccello migratore

La notte distilla silenzi e attese,
a guado inquiete tornano memorie.
Sul quadrante dell’orologio a muro
lente salpano le ore verso l’alba,
naufraghe al sogno di cobalto e luce.

Qui, tra pareti assorte e stupefatte,
come il ragno immemore e tenace
anch’io fallaci reti tendo ai sogni
e aspetto.
Disdicono le farfalle
gli abbracci che promisero ai rosai,
e inesorabilmente il tempo sfalda
certezze e accordi, calici corrompe:
il giorno sarà sangue e lunghi artigli,
luce decomposta, disarmonia
che lacera presepi e redenzioni!

Ahi! fiumi, messaggeri della Terra,
dov’è ora l’Eden, e perché scolora
l’azzurro delle vostre vene in minio?
Bruciano le città del mondo e alti
crepitano fuochi e ampolle d’odio.
Già s’invera il presagio della notte
ed io ritrovo intatta la mia pena,
uccello migratore perso al vento,
straniero ai cieli ed alle rotte amiche.
Invano cerco approdi oltre le nebbie
e ignoti e incerti séguito orizzonti.

Confusamente stretto alla mia resa,
smarriti viaggiatori insieme andiamo.
E non sappiamo,
non sappiamo dove.

 

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7 risposte

  1. Perché il lettore possa contestualizzare, posto qui la mia lirica “Sorte” a cui Umberto Vicaretti si richiama con la sua “Montaliana-II”.

    SORTE
    Non c’era alcuna prova dell’inganno
    d’un dio o di maldestra creazione.
    Così almeno ci parve
    e perciò ci sedemmo sulla terra
    e ci scambiammo le pietre di sale
    sulla riva di un mare senza onde.
    Di cavalcare i giorni ci fu dato,
    di carezzare la cresta del sole
    e di bere alla fonte dell’amore.
    Che ci piovesse argento poi la notte
    fu la scoperta che ci diede fede
    per correre le strade della vita
    con maggior cuore. Avidi attraversammo
    esplose primavere, con il grido
    del falco appeso nell’azzurro, fisso
    alla preda lontana. E già la ruota
    cominciava a piegare ad occidente
    quando qualcuno spiegò che il vïaggio
    non era interminabile. A galoppo
    passammo per le ore, i mesi, gli anni.

    Dietro le curve spalle,
    grappoli fitti d’accese memorie
    il passo corto dissero del tempo
    -il nostro tempo!-
    con seni d’ombra e fiati di preghiera.
    Ora che l’orizzonte
    dispiega flebili speranze e mostra
    l’incerta meta, ci assale l’infanzia
    con rosei gridi e vivide memorie:
    quelle della famiglia e degli amici
    dispersi ormai sopra e sotto la terra.

    Pure, vivemmo a lungo.
    Anche se questa sorte è apparsa breve.

  2. Rileggere le poesie di Umberto fa sempre piacere perché ricche di pathos, di immagini suggestive e fluide nel linguaggio sempre eufonico. Queste mi erano note in quanto appartengono ad una antologia “Alma poesia” in cui sono inserita anch’io insieme a Pasquale e a Nazario Pardini, un tempo inseparabili amici.
    Le liriche di Vicaretti sono originate molto spesso da un fatto di cronaca che viene rappresentato nella sua crudezza ma alleggerito dal sentimento, quasi una protesta accorata contro la cattiveria umana o le decisioni imponderabili del destino.
    Un’altra caratteristica delle poesie di questo autore è che universalmente piacciono e lo dimostrano la quantità di premi vinti perché , non nascondiamocelo, ci sono giurie che bocciano sistematicamente tutti i testi in metrica e se per Umberto non lo fanno vuol dire che in essi viene rilevato un quid in più. A lui la mia incondizionata ammirazione.

    1. Grazie, Carla, per aver “riletto” con piacere, come dici, i miei versi, e di averli trovati sempre gradevoli; dici ancora che “le liriche di Vicaretti sono originate molto spesso da un fatto di cronaca”.
      Vero, Carla, verissimo. Ma si tratta quasi sempre di una “cronaca” che già appartiene alla storia, come suggeriscono (e non solo nei componimenti qui presenti) i naufragi dei migranti evocati ne “La Terra irraggiungibile”, o la lapidazione di Aisha in “Stabat Mater”. Si tratta di vicende che connotano e scandiscono non solo il nostro tempo, ma affondano radici e trovano continuità, appunto, nella storia millenaria dell’uomo, come ad esempio l’esodo e la diaspora ebraica, o come l’evangelico “scagli la prima pietra!”.
      Tanto dovevo precisare, ma solo per aggiungere un tassello alla tua puntuale nota, prodiga e benevola,
      come sempre, nei miei confronti.
      Vorrai scusami, spero, per il ritardo nel darti riscontro.

  3. Come Carla provetto nel gestire e mettere a partito le ampie cadenze dell’endecasillabo sciolto, Umberto Vicarietti trova il suo terreno d’elezione nella narrazione degli affetti famigliari.
    Delle poesie qui sopra riportate spicca la lettera alla madre, vero capolavoro di scrittura epistolare, straordinaria per l’unità di linea, l’intenso afflato emotivo e la verecondia delle immagini.
    Colpisce la capacità di esprimere un’alta commozione, mantenendo l’eloquio equilibrato, l’enfasi misurata, la nitidezza del linguaggio.

    1. Anche a Luciano Domenighini il mio grazie per avere messo a fuoco con lucida acribia i tratti che connotano la mia scrittura. Anch’io, come Carla, ho una  predilezione per l’endecasillabo, che, come dice Ungaretti, è “lo strumento poetico naturale della nostra lingua”. Certo, padroneggiarlo e farne musicalità e poesia non significa saper assemblare undici sillabe e disporle sul foglio con più o meno tecnicalità, ma significa anche mantenere la necessaria “unità di linea”, una “nitidezza del linguaggio”, o “saper esprimere”, come nel componimento preso in esame, “un’alta commozione” dentro un “intenso afflato emotivo”, tutte capacità di cui, Luciano, tu mi fai credito, cosa di cui ti sono estremamente grato.
      Mi scuserai, spero, per il ritardo con cui ti do riscontro.

  4. Solo un poeta che ha raggiunto la piena padronanza del ritmo e della metrica può permettersi di inserire con disinvoltura fra gli endecasillabi qualche verso non canonico e magari un alessandrino, se questo serve a dare quel tocco particolare, quella sfumatura che avrebbe potuto perdersi nelle mani di persone meno sicure, disposte a preoccuparsi dell’occhio scrutatore di un lettore. A me piace già questa apertura mentale, mi suona come una dichiarazione di libertà e di fiducia nel proprio valore. Bellissime poesie; il discorso fluisce naturale, quasi il verso non fosse costato fatica, ma si fosse scritto da solo. E’ uno stile che sta preciso nelle mie corde perché prende della metrica il meglio: l’onda leggera dell’armonia che non imbriglia nulla, che non è una gabbia (come qualcuno crede e dice ), ma un semplice strumento che però deve trovare il musicista adatto. E mi piace quest’anima serena, colma di affetti…quel ripetere “ scrivimi” nella poesia che fra queste più mi ha coinvolta; mi piace perchè ti fa sentire che ricevere notizie è cosa che sta davvero a cuore al poeta, non è frase di circostanza…scrivimi che stai bene…scrivimi presto. E’ l’insistenza di un cuore colmo di sollecitudine, e mi fa tenerezza perchè il sentimento che si percepisce è amore vero, non quella posa di certe poesie magari tecnicamente perfette che hanno la frigida bellezza di manichini addobbati in una vetrina di lusso. E’ una lettera che dovrà venire da molto lontano, che si spera con buone notizie, confortanti. Mi piace il calore che la pervade, questo modo di parlare familiare, teneramente accorato ; credo che nulla possa rendere bella una poesia come la spontaneità e la sincerità del sentire.

    1. Un sincero grazie, Lidia, per avere letto con così grande adesione e partecipazione i miei testi; grazie per le tue parole, per l’apprezzamento sinceramente sentito, segnatamente per  “Scrivimi che stai bene”. E ancora di più, ti dico grazie, per quella chiosa che sembra un’incidentale, quel “quasi il verso non fosse costato fatica, ma si fosse scritto da solo”. Si tratta, invece, della certificazione di una verità profonda (che tu ampiamente cogli e sottintendi), verità che nega l’autogenesi dell’immagine, l’epifania miracolosa della visione e della poesia (evenienze tuttavia possibili per gli spiriti eletti). Negazione che trova la sua chiave in quel “quasi”, che sta lì a mettere in guardia dall’immaginario collettivo di una vena poetica facile, naturale, gioiosamente intuitiva; mentre, al contrario, la poesia è applicazione e fatica, ricerca e labor limae, tenacia onestà (Saba docet) sofferenza dolore. E qui è il poeta “fingidor” dell’immenso Pessoa a dare la cifra assoluta della dimensione poetica e a descrivere il fardello di cui si caricano i Poeti. Devo dire, inoltre, che hai saputo “leggere” in filigrana e ictu oculi l’essenziale. Parafrasando Il Piccolo Principe, si potrebbe dire che l’essenziale è visibile solo agli occhi del poeta.
      Anche a te, come a Carla e Luciano, devo chiedere scusa per il ritardo del mio riscontro e, anche, per non avere commentato le tue/vostre poesie. Ma mi comprenderete, perché il mio tempo è ormai indivisibile e quasi tutto dedicato.

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