PASQUALE BALESTRIERE
L’ACCENTO NELLA TRASLITTERAZIONE
DEL GRECO ANTICO
Pubblico questo contributo nella speranza che possa destare l’interesse di qualche frequentatore del blog e, magari, essergli utile.
È però opportuno partire da una premessa. Il processo e l’acquisto culturale non può né deve essere prerogativa o addirittura esclusiva di ceti elitari o abbienti. In un paese civile (o che pretenda di essere tale) la conoscenza e il sapere devono essere a disposizione di chiunque se ne voglia nutrire, indipendentemente da ogni condizione sociale ed economica. Credo si sia capito che sono favorevole a un processo di “democratizzazione culturale”, espressione che va intesa come effettiva possibilità, per chi voglia, di accedere al sapere, di elevarsi alla scienza.
Da questa premessa deriva la domanda che sta alla base dell’argomento che intendo trattare: visto che nella traslitterazione del greco antico in italiano è usanza diffusa e quasi canonizzata -ma, a mio parere, non giustificata- di trascrivere le parole greche senza accenti, come potrà leggere correttamente tali parole una persona che ha scarse conoscenze di quella lingua o la ignora del tutto?
Per tanto tempo nessuno si è posto il problema in nome -presumo- di una malintesa aristocrazia culturale o forse di dotta alterigia; o anche per il semplice disinteresse di chi ha la pancia piena nei confronti di chi fa fame di conoscenza. E così sono rimaste chiuse le porte di una corretta lettura per tutti coloro che non avevano adeguate conoscenze della lingua greca.
Per meglio capire di che cosa si sta parlando, prendiamo per esempio l’espressione ὀνομάκλυτον Ὀρφήν (Orfeo dal nome illustre). Se traslitteriamo senza accenti avremo onomaklyton Orphen e, per chi ignora il greco, sarà un problema leggere correttamente le due parole; ma se scriveremo onomàklyton Orphèn (anche con l’accento acuto, giacché tale segno nella traslitterazione ha solo valore neutro di ictus), ognuno potrà leggere senza sbagliare.
D’altronde, se nella trascrizione del greco antico le parole – poche nell’epoca antica, più numerose dal periodo bizantino, quasi tutte dall’umanesimo in poi, tutte, almeno dal secolo scorso – sono state accentate e quelle che ne avevano bisogno corredate di spirito, quale motivo valido potrebbe giustificare in fase di traslitterazione la perdita (o, se si vuole, l’omissione) di un segno – l’accento, appunto- che comprometterebbe la corretta pronuncia? Si fa attenzione a traslitterare lo spirito aspro in /h/ e si trascura od omette l’accento che è più forte di qualsiasi aspirazione?
Ampliando per un attimo il discorso all’italiano, si può serenamente affermare che se adoperassimo di più l’accento grafico, come per esempio fanno i Francesi, avremmo tutti una migliore conoscenza della nostra lingua e tanti errori di pronuncia in meno.
Tempo fa (ma potrei comunque fare data, ora e nomi) fui impressionato da tre errori di pronuncia sparati a raffica da un giornalista scientifico durante la trasmissione pomeridiana del programma GEO, in onda su un canale RAI, nella rubrica “Tetto verde”. Eccoli: “guàina”, “ìncavo”, “evàpora”, in luogo dei corretti “ guaína”, “incàvo”, “evapóra”. Risparmio al lettore i motivi della corretta dizione e protesto -prevedendo eventuali osservazioni circa il fatto che la lingua si evolve- di essere a conoscenza che l’uso vince sulla grammatica, cioè che se un tipo di pronuncia si è diffuso al punto da essere in bocca alla stragrande maggioranza dei parlanti, allora quell’uso, inizialmente sbagliato, viene adottato in lingua a soppiantare quello corretto, al punto che diviene errata la forma inizialmente giusta. Però mi viene da pensare all’imbarazzo che, nelle more di questa singolar tenzone tra la forma giusta e la sbagliata, affligge il parlante di un certo livello culturale, incerto sulla forma da usare, se privilegiare cioè la certezza della grammatica o la novità dell’uso. Mi spingo ad affermare, con un pizzico di sana ironia, che occorrerebbe un misuratore affidabile per verificare quando la forma errata ha il diritto di essere considerata corretta. In ogni modo questo è stato il percorso di parole come “gratùito” lat. gratuìtus, volgare “gratuìto”; “fortùito” lat. fortuìtus, volgare “fortuìto”. Queste forme volgari (è quasi superfluo notare che qui “volgare” significa “popolare”, senza alcuna connotazione negativa) sono peraltro ancora presenti in alcuni dialetti meridionali, minacciate e assediate da un paraitaliano mediocre e standardizzato.
Tornando alla traslitterazione dal greco antico, resta da dire che, in caso di dittongo, l’accento che in greco si segna sulla seconda vocale ma si legge sulla prima, nella forma traslitterata si segna direttamente sulla prima. Esempio: greco ποίησις, traslitterazione “pòiesis”. E ciò sia per ragioni di opportunità, cioè per mettere in condizione di leggere correttamente il termine anche chi non conosce il greco o chi non s’accorge che la parola è greca, sia perché questa soluzione è adottata da testi autorevoli del settore (uno per tutti: il Dizionario etimologico della mitologia greca del G.R.I.M.M. -Gruppo di Ricerca sul Mito e la Mitografia- dell’Università di Trieste). Infine, a mio parere e sempre per amore di chiarezza, in fase di traslitterazione, oltre a fornire di accento le parole sdrucciole (proparossitone) e tronche (ossitone e perispomene), come già alcuni fanno, occorrerebbe dotare di ictus, per eliminare ogni incertezza nel lettore, anche quelle piane (parossitone e properispomene).
Sarebbe un passo avanti nel percorso verso quella democrazia culturale cui prima ho fatto cenno.
Pasquale Balestriere
2 risposte
Non credo che la bella nota di Pasquale sulla traslitterazione dal greco sia uno sfoggio di erudizione gratuito e riservato agli specialisti.
Tutt’altro.
Credo invece che sia una puntualizzazione quanto mai opportuna e utile per ovviare all’abitudine consolidata di tralasciare gli accenti, abitudine del tutto ingiustificata e segno quanto meno di sciatteria.
Ma non è solo questione di correttezza e di completezza.
Se io riscrivo una parola abolendo gli accenti, di fatto depaupero questa parola di un requisito fonetico basilare, fondamentale per percepire un ritmo.
La parola traslitterata priva di accenti risulta inespressa, inerte, come mutilata.
Voglio dire che la parola, se scritta, deve contenere tutte le indicazioni fonetiche indispensabili per riportarla all’oralità, sua dimensione integrale e originaria.
No, infatti, questa nota è mille miglia lontana dall’idea di fare sfoggio di cultura. C’è invece il tentativo di dare un’indicazione di lettura che, a mio modo di vedere, è giusta e corretta.
E grazie a Luciano, anche per il codicillo, finale e chiarificatore.